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LA DONNA DI GOVERNO 411
Dorotea. Dica pur; non son io che qui lo fe’ venire?

Fulgenzio. Pronto sono a sposarla.
Dorotea.   Subito dunque...
Fulgenzio.   Adagio...
Dorotea. Oh, vi faccio, figliuoli, un pessimo presagio.
Fulgenzio. Ma perchè?
Dorotea.   Innanzi pure.
Fulgenzio.   Pria che l’affar sia fatto.
Preparar delle nozze non devesi il contratto?
Dorotea. Sì, sì, perdete il tempo nel fabbricar lunari,
E poi la sposerete nei spazi immaginari.
Fulgenzio. E sarà così perfido il zio colla nipote,
Che le vorrà negare il dritto della dote?
Dorotea. Eh fratello carissimo, a ravvisarvi imparo:
Siete un di quegli amanti che cercano il danaro.
Sapete qual sarà dell’avarizia il frutto?
Perderete la dote, e la fanciulla, e tutto.
Ho creduto che foste di un altro naturale.
Andate; ho conosciuto che siete un animale.
Fulgenzio. Servo di lor signore.
Dorotea.   Serva, padrone mio.
Giuseppina. Fermatevi, signore, che vo’ parlare anch’io.
Mia zia con questo caldo rovina i fatti miei.
So anch’io, quando bisogna, strillare al par di lei.
Se aiuto, se consiglio ricerco da qualcuno,
Non ho, quando bisogni, paura di nessuno.
Mio zio vuol maritarmi con un che piace a lui;
Ei del mio cor dispone, io l’ho disposto altrui.
E contrastar non puote ch’io m’abbia a soddisfare.
(Dorotea fa moto di volerla interrompere)
Signora, con licenza, lasciatemi parlare.
Fulgenzio dice bene, vorria la convenienza,
Che al zio prima di farlo chiedessi la licenza,
E ch’ei andasse a fare quel passo che va fatto,
E che si stabilisse la cosa per contratto.