La donna bizzarra/Atto IV
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ATTO QUARTO.
SCENA PRIMA.
La Contessa sola, sedendo al tavolino.
E il capitan Gismondo non si è veduto ancora.
Egli è solito pure venirsene ogni di.
Quando ch’egli ha pranzato, subitamente è qui.
Che vuol dir, che non viene? So io quel che sarà.
Forse de’ miei rimproveri qualche timore avrà,
E all’ora egli verrà della conversazione,
Per trattar la Romana con minor soggezione.
Ma venga pur; parlato ho al di lei genitore.
Egli acconsente, ed essa sentir principia amore.
Parlerem fra di noi di queste nozze, e intanto
Il capitan da tutti si lascierà in un canto.
SCENA II.
Martorino e detta.
E il signor Armidoro per riverirla aspetta.
Contessa. Che vuol dir, Martorino, che il capitan finora
Da me non si è veduto?
Martorino. Non lo saprei, signora.
Contessa. Manda un poco a vedere, s’egli fosse al caffè;
Ma chi ci va, non mostri che ciò venga da me.
Martorino. (Tanta parzialità non ha finor mostrata
Che sì, che questa volta amor l’ha corbellata!)
SCENA III.
La Contessa, poi don Armidoro.
(l’apre)
Ah! il capitan mi scrive. (con allegrezza)
Armidoro. (Entra, e la riverisce senza parlare.)
Contessa. (Or mi viene a seccare).
(da sè, accennando Armidoro)
Armidoro. Permette, mia signora? (le domanda la mano)
Contessa. Sì, sì, quel che volete.
(gli dà la mano, sprezzante)
Leggo una certa lettera, con permission. (confusa)
Armidoro. Leggete.
Contessa. Contessina adorabile. Che tenera espressione!
(legge e parla da sè in disparte)
(Armidoro mi osserva, ho un po’ di soggezione).
Da voi più non ardisco venir, perchè mi pare
Che abbiate stabilito volermi tormentare...
(Io tormentar lo voglio? Ei fa l’impertinente.)
Ah, sfogarmi non posso! vi è colui che mi sente).
Prendete questo libro, leggete una commedia.
Armidoro. Non importa, signora.
Contessa. Fate quel ch’io vi dico.
Armidoro. Farò, per obbedirvi. (siede, e si mette a leggere)
Contessa. Mancava quest’intrico.
Se per la Baronessa prendeste alcun sospetto,
Giuromi che per lei piuttosto ho del dispetto:
Che ho fatto a tollerarla un atto di virtù,
E che se ho da servirla, io non ci vengo più.
(Eh briccon, non ti credo, lo so che vuoi fidarmi.
Vieni, vieni, e vedrai, se anch’io so vendicarmi).
So che con voi. Contessa, fui questa mane ardito,
Provo i rimorsi al cuore, son dell’errar pentito.
(si va confondendo)
E se voi accordate la vostra grazia in dono,
In pubblico son pronto a chiedervi perdono.
(In pubblico esibisce darmi soddisfazione?)
Armidoro. Signora. (alzandosi)
Contessa. Che volete?
Armidoro. Con vostra permissione.
Mi parete agitata. (accostandosi a lei)
Contessa. A leggere badate. (con imperio)
Armidoro. Questo libro mi annoia.
Contessa. Eccone un altro, andate.
(gli getta in terra un altro libro)
Armidoro. (Pagherei dieci scudi saper cos’è quel foglio).
(va a sedere dov’era prima)
Contessa. (Tanti dottoramenti in casa mia non voglio).
Voi siete quella sola, ch’io veramente adoro.
Viver con voi desidero; se mi lasciate, io moro.
(si va intenerendo)
Tutto farò per voi, amabile Contessa,
Fuor che per vostro cenno servir la Baronessa.
So quel che mi ha costato il fingere finora:
Pende da voi mia morte, pende da voi mia vita,
A un misero che langue, deh non negate aita.
Fatelo, s’io nol merto, fatelo per virtù.
Pietà, pietà, mia cara.... Oimè, non posso più.
Armidoro. Ma vi veggo agitata, e1 di sapere io bramo
La cagion che vi turba...
Contessa. Signore, io non vi chiamo.
Armidoro. Confidate a un amico...
Contessa. No, con vostra licenza.
Armidoro. Ma io voglio saperlo.
Contessa. Ma questa è un’insolenza.
Armidoro. Non ho cuor di partire.
Contessa. Andate lì, e sedete.
Armidoro. (E un po’ lunga, per dirla). (toma a sedere e leggere)
Contessa. (Dunque del capitano
Finora internamente mi son lagnata invano.
È ver che ingelosirmi si era teste provato,
Ma io, per dir il vero, l’eccitamento ho dato.
Ah dovea prevedere, senza scaldarmi tanto,
Che una dolce parola sciolto averia l’incanto.
Perchè strugger la mente in macchine e raggiri,
Se vincer lo poteva un sol de’ miei sospiri?
S’io volea vendicarmi, bastavami per gioco
Ch’io languir lo facessi, e delirare un poco.
Questa viltà di spirito oltraggia il mio potere;
Ecco per un capriccio perduto ho il Cavaliere.
Ma son a tempo ancora; sì, rimediarvi io voglio;
Vo’ rispondere intanto del capitano al foglio.
Non voglio a dirittura concedergli il perdono;
Sappia che me ne offesi, e che sdegnata io sono.
Ma un raggio di speranza trovi nel foglio mio;
S’egli superbo è in questo, sono superba anch’io).
(si pone per scrivere)
(si alza)
Contessa. Ho da scriver, signore; legger potete ancora.
(preparando la carta)
Armidoro. Questo libro mi stucca.
Contessa. Prendete questo qui.
(gli getta un libro in terra)
Armidoro. È una bella finezza.
(torna a sedere, senza prendere il libro gettato)
Contessa. (Mi secca tutto il dì).
(principiando a scrivere)
Armidoro. (Vo’ lasciar che finisca, e poi m’intenderà).
Contessa. Signor mio riverito, (scrivendo) (Voglio usar gravità).
Sento dal vostro foglio, che del commesso errore...
(scrivendo)
SCENA IV.
Il Barone e detti.
Contessa. (Ecco qui il seccatore).
Barone. Son venuto per dirvi...
Contessa. Fate conversazione
Con Armidoro intanto. (scrivendo)
Barone. Che fate in quel cantone?
(ad Armidoro)
Armidoro. Sto qui per obbedire alla padrona mia.
Barone. Lo lasciate in un canto? (alla Contessa)
Contessa. Fategli compagnia, (al Barone)
Barone. Di una cosa, signora, convien che vi avvertisca
Rapporto al Cavaliere.
Contessa. Lasciate ch’io finisca. (scrivendo)
Barone. Sì, terminate pure. (alla Cont.) Amico, state bene?
(accostandosi ad Armidoro)
Armidoro. Bene per obbedirvi.
(si accosta alla Contessa)
Se si fan queste nozze, deggio ai parenti miei
Darne prima ragguaglio. (alla Contessa)
Contessa. Scrivere io vorrei.
(scrivendo con un poco d’impazienza)
Barone. Comodatevi pure (ma per tal dilazione
Non vorrei si perdesse quest’ottima occasione.
È un impiccio insoffribile per me questa figliuola).
Contessa... (da sè)
Contessa. Ma signore...
Barone. Una sola parola.
Contessa. Lasciatemi finire.
Barone. Un cenno, e vado via.
Contessa. Cosa vorreste dirmi? (Che pazienza è la mia!)
Barone. Penso che si potrebbe concludere il contratto;
Anzi, perchè non siavi dopo qualche disputa,
Stenderò, se vi piace, un poco di minuta.
Contessa. Ha finito?
Barone. Ho finito.
Contessa. Ben ben, si parlerà. (si pone a scrivere)
Barone. (Di già che abbiamo il comodo, posso stenderla qua).
(prende una sedia, e si accosta al tavolino)
Contessa. (Quest’è un’impertinenza).
Barone. Datemi un po’ di foglio.
Contessa. Cosa vorreste fare?
Barone. Far la minuta io voglio.
Contessa. Non avete altro loco?
Barone. Che fastidio vi do?
Datemi un po’ di carta: non vi disturberò.
Contessa. (Non posso più). Tenete, (gli dà della carta, e scrive)
Barone. Addì... quanti ne abbiamo?
(alla Contessa)
Contessa. Nol so. (arrabbiata scrivendo)
Barone. Quanti ne abbiamo.
Armidoro. Cosa so io? (arrabbiato)
Barone. Vediamo.
(tira fuori di lasca un lunario)
Osservate, Contessa, un taccuino francese.
Contessa. Oh, mi avete seccato.
Barone. Ne abbiam dieci del mese.
(osservando sul lunario)
Addì dieci d’Aprile.... Oh che penna cattiva!
Datemi un’altra penna. (alla Conlessa)
Contessa. Ma lasciate che io scriva.
(sdegnata)
Armidoro. (Per dir la verità, sdegno mi vien per lei.
Con tutta la mia flemma io non lo soffrirei).
Barone. Promette dar in sposa la Baronessa figlia. (scrivendo)
Contessa. Dite piano. (al Barone, con impazienza)
Barone. Del sposo ditemi la famiglia. (alla Contessa)
Contessa. Eh cospetto di Bacco, questa è un’impertinenza.
Vi ho sofferto anche troppo, perduta ho la pazienza.
Siete, signor Barone, siete insolente un poco;
A terminar la lettera andrò in un altro loco.
(prende la sua lettera, e parte)
Barone. (In tal guisa si scalda? perchè? che cosa è stato?)
Dite, del Cavaliere lo sapete il casato? (ad Armidoro)
Armidoro. Non so niente. (si alza)
Barone. Possibile? viene in conversazione;
Lo dovreste sapere.
Armidoro. Schiavo, signor Barone. (parte)
Barone. Schiavo, padrone mio. Con lor me ne consolo.
Che bella inciviltà! mi lasciano qui solo?
A dirmi il suo casato tanta difficoltà?
Andrò tanto cercandolo, che alcun me lo dirà.
Par che tutti mi sfuggano, ed il perchè nol so.
E non si può già dire, che un ignorante io sia;
Basta che apra la bocca, tutti se ne van via.
Maladetto destino! fino la servitù
È solita piantarmi dopo tre giorni al più.
Diconmi seccatore, dicon ch’io parlo assai.
Come lo posson dire? se io non parlo mai. (parte)
SCENA V.
La Contessa, poi Martorino.
Basta, quando il ciel volle, la lettera ho finito.
Martorino. (chiama)
Martorino. Comandi.
Contessa. Cerca del capitano.
Procura questa lettera di dargli in propria mano.
Martorino. Dove poss’io trovarlo?
Contessa. Al solito caffè.
Dove suol trattenersi quando non vien da me.
(Martorino parte)
SCENA VI.
La Contessa, poi Martorino che torna.
Comunque egli la prenda, vi ho sempre il mio riparo.
Se il rimprovero il punge, lo medica dolcezza;
Se il tenero l’affida, vi è poi dell’amarezza.
Quando davvero ei dica, perderlo non vogl’io;
Ma torni, o non ritorni, la voglio a modo mio.
Che vuol dir? non andasti? (a Martorino, che torna)
Contessa. E il capitan Gismondo?...
Martorino. L’ho subito trovato.
Contessa. Sì presto?
Martorino. Così presto.
Contessa. Tu me lo dici invano.
Martorino. Or ora lo vedrete col vostro foglio in mano.
Contessa. Dove?
Martorino. L’ho ritrovato vicino a questa porta;
Legge la carta, e poi subito a voi si porta.
Gli ho da dir ch’è padrone?
Contessa. Non so quel che abbia a dire.
Non gli dir ch’io lo chiami. Venga se vuol venire.
Martorino. Non dubiti, signora, so quel che mi conviene.
Contessa. Chi è di là nella sala?
Martorino. È il capitan, che viene.
(Già i’ lo sapea, che l’ordine non averia aspettato;
Venir senza portiera il capitano è usato.
E tutti, per dir vero, tutti questi signori.
In ciò poco disturbo recano ai servitori). (parte)
SCENA VII.
La Contessa, poi il Capitano solo.
Ma perchè sia più docile, vo’ far la sostenuta.
Capitano. Posso venir?
Contessa. Signore, lei sbaglia in verità;
Se vuol la Baronessa, si passa per di là.
Capitano. Se dalla Baronessa una sol volta andai,
Fu sol per vostro cenno, per mio piacer non mai.
Contessa. Bastami aver scoperto il pensier vostro audace.
Veggo di qual sistema è il vostro cuor capace.
Voi siete stato il primo, che abbiami fatto un torto,
Nè da voi, nè da altri l’ingiurie io non sopporto.
L’infedeltà condanno, e la finzion detesto.
Questa risoluzione il mio dover mi addita;
L’amicizia fra noi dev’essere finita.
Bastami che dal cuore siate rimproverato,
Ch’io non mento insulti, e che voi siete ingrato.
Capitano. Voi parlate, signora, con un soverchio orgoglio:
Tale non mi sembraste parlare in questo foglio.
E se creduto avessi in voi tal sentimento,
Non mi sarei esposto a un simile cimento.
Provar voi mi faceste mille tormenti e mille,
Volgendo a quello e a questo le tenere pupille.
Vidi schernirmi in faccia più d’un rivale audace,
Fui dall’amor sforzato a tollerarlo in pace.
Ed una volta sola, che ho le vostre arti usate,
Tanto furor vi accende? tanto rumor ne fate?
Quello che a voi dispiace, spiacque a me pur non poco;
Anch’io sento nell’alma della mia stima il foco.
In faccia a tutto il mondo, agli occhi della gente.
S’io colpevole sono, non siete un’innocente3.
Pure dell’error mio vi ho chiesto umil perdono.
Perchè donna voi siete, perchè un amante io sono;
Ma se ad onta di questo voi m’insultate ancora,
Una viltà non soffro. Si ha da morir? si mora.
A costo della vita prevalga l’onor mio;
Se voi siete una dama, son cavaliere anch’io.
Contessa. Eh signor capitano, un po’ men di baldanza;
Meco impiegar dovreste men caldo e più creanza.
Se per voi d’amicizia non avessi io l’impegno,
Non mi vedreste in volto scaldarmi a questo segno.
Se leggeste il mio foglio, avreste in lui compreso,
Ch’io non merito certo, che mi parliate acceso.
Capitano. È vero, il vostro foglio mi aveva speranzato
Di ritrovare in voi un animo placato.
Vengo, e insultar mi sento, ed a trattar con sdegno.
Ma via, dell’ira vostra lo sfogo io non condanno.
Spero che questo sia per me l’ultimo affanno;
E che veggendo alfine, che a voi fedele io sono,
A me del vostro cuore voi mi farete un dono.
Contessa. Martorino.
Martorino. Signora.
Contessa. Cerca don Armidoro.
Digli che da me venga.
Capitano. (Di rabbia io mi divoro).
Contessa. E il cavaliere Ascanio, se non è ancor partito.
Digli che si trattenga.
Martorino. Sarà il cenno obbedito. (parte)
Capitano. Per carità, signora, di coltivar lasciate....
Contessa. Cosa vorreste dire? Voi non mi comandate.
Capitano. È ver, non vi comando; in ciò ragione avete,
Ma a questa condizione servir non mi vedrete.
Vi leverò l’incomodo. (in atto di partire)
Contessa. Che cavalier sgarbato!
Di che mai vi dolete? vi ho forse licenziato?
Cosa sapete voi, quei due che ho nominati,
Da me con tal premura perchè sian ricercati?
Eh capitan carissimo, o io non so spiegarmi,
O voi fìngete il sordo solo per tormentarmi.
Capitano. Deh l’ignoranza mia, signora, perdonate.
Certo non vi capisco, fin che così parlate.
Contessa. Se di voi mi fidassi, vi parlerei più chiaro.
Capitano. Questo dubbio importuno troppo mi riesce amaro.
Perchè della mia stima il vostro cuor sia certo,
Non bastavi, Contessa, quel che ho finor sofferto?
Io che son per costume fervido, intollerante,
No, non sarei tornato, se non vi fossi amante.
Vi amo teneramente; quel che non ho più detto,
Vi dirò francamente, ardo per voi d’affetto.
Che il cuore intieramente ho a voi sagrificato.
Contessa. Dunque è mio il vostro cuore? parlate voi sincero?
Capitano. Sì, questo cuore è vostro.
Contessa. Conoscerò se è vero.
Capitano. Fate di me ogni prova, fino a volermi esangue;
Vi offro l’umil rispetto, vi offro la vita e il sangue.
Tutto soffrir son pronto, fino gli sdegni e l’onte;
Fuor che vedermi oppresso dei miei rivali a fronte.
Contessa. Chi è di là?
SCENA VIII.
Martorino e detti.
Contessa. Alcun di questo tetto
Vada a cercar don Fabio: dicagli ch’io l’aspetto.
Capitano. (Ah mi deride, il veggo).
Martorino. Subito manderò.
Capitano. Io, se di lui vi preme, a ricercarlo andrò.
Vi leverò in tal guisa il tedio ch’io vi reco.
Non son, signora mia, nè stolido, nè cieco:
Se gioco vi prendete della mia sofferenza,
Ve lo ridico in faccia, non soffro un insolenza.
(in alto di partire)
Contessa. Aspettate un momento. (al Capitano, arrestandolo)
Capitano. No, non posso star saldo.
Contessa. Va a prendere un ventaglio, che il capitano ha caldo.
(a Martorino)
Capitano. Mi deridete ancora?
Contessa. Deridervi non deggio,
Se senza alcun motivo imbestialirvi io veggio?
Perchè odiate don Fabio? Credete voi ch’io sia
Accesa a questo segno del bel di poesia?
Questi vostri deliri li approvo e li gradisco.
Se voi siete geloso di me fino a tal segno,
È certo che l’amore vi provoca allo sdegno.
Fate torto a voi stesso a dubitar così,
E de’ vostri trasporti vi pentirete un dì.
Capitano. Non so che dir, scusate l’intollerante orgoglio.
Contessa. Manda a cercar don Fabio, che favellargli io voglio.
(a Martorino)
Capitano. (E vuol tutto a suo modo).
Martorino. Subito, sì signora.
(Povero capitano! non la conosce ancora). (parte)
SCENA IX.
La Contessa ed il Capitano.
Viver senza vedervi dieci serventi intorno?
Contessa. Caro il mio capitano, possibile che in petto
Sempre nutrir vogliate un simile sospetto?
Se siete voi distinto, di che temer volete?
Capitano. Ma sono io il distinto?
Contessa. Ancor non lo credete?
O mie cure gettate! o miei pensieri vani!
Ricompensata io sono con i sospetti insani.
Che val ch’io mi lusinghi di pace e di conforto.
Se un ingrato mi accusa, e mi condanna a torto?
Capitano. S’io non divengo pazzo, credetelo, è un prodigio;
Della fe’ che vantate, non veggo alcun vestigio.
Par che il facciate apposta. Por mi volete allato
Di chi più mi dispiace. Ah, son pur sfortunato!
Contessa. Voi la vostra fortuna non conoscete ancora. (tenera)
Capitano. Bramerei di vederla.
Contessa. Sì, la vedrete or ora.
SCENA X.
Don Armidoro e detti.
Contessa. Che cosa c’è, mio caro?
Armidoro. Sentite una parola. (È venuto il notaro.
L’ho ritrovato alfine, e l’ho condotto qui). (piano)
Contessa. (Bravo, venite meco). (piano ad Armidoro)
Capitano. (E ho da soffrir così?)
Contessa. Capitan, compatite: ho un affar che mi preme;
Quando sarò spicciata, ragioneremo insieme.
Capitano. Prenda pure il suo comodo.
Contessa. Andiam. (ad Armidoro)
Armidoro. Fo il dover mio.
Contessa. Con licenza, signore. (s’inchina al Capitano, e parte)
Armidoro. La riverisco anch’io.
(al Capitano, e parte)
SCENA XI.
Il Capitano, poi Martorino.
Sì, conosco gl’insulti, nè soffiirolli in pace.
Di me, dell’amor mio so che si prende gioco,
Ma chi son io l’ingrata conoscerà tra poco.
Martorino. Signor, la mia padrona a dire a voi mi manda,
Che di qua non partite, lo vuole e lo comanda.
Dice che voi saprete l’affar che ora la chiama;
Dice, protesta e giura, che vi rispetta ed ama;
Che vi ha sentito a fremere mentre partia di qui.
Che vedervi non vuole a delirar così.
E se di lei seguite a far questo strapazzo.
Siete... ve l’ho da dire?
Capitano. Che cosa sono?
Martorino. Un pazzo.
(parte)
Dice e giura che mi ama? lo credo, o non lo credo?
Non so che dir: creduto le ho cento volte ancora,
E mi deluse ingrata, e m’ingannai finora.
L’ultima volta è questa, che di restar consento;
Voglio pria di partire vederla anche un momento.
O che mi dia le prove d’amor sincero e schietto,
O le menzogne ingrate di vendicar prometto.
Fine dell’Atto Quarto.
Note
- ↑ Ed. Zatta: or.
- ↑ Così in tutte le antiche edizioni, ma per distrazione l’autore aggiunse qui un settenario di più. Per correggere il verso martelliano, bisognerebbe stampare «Quanti del mese?» oppure soltanto a «Quanti ne abbiamo?» e, fra parentesi, «ad Armidoro».
- ↑ Edd. Guibert-Orgeas. Zatta e altre: voi non siete innocente.