La donna bizzarra/Atto III

Atto III

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Atto II Atto IV

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ATTO TERZO.

SCENA PRIMA.

La Contessa e don Fabio.

Contessa. Certamente, don Fabio, vi son molto obbligata,

E mi hanno i versi vostri un po’ mortificata.
In me non si ritrovan sì belle qualità;
Opera è tutta quanta della vostra bontà.
Serberò questa copia assia gelosamente;
Parte ne farò solo ad uomini di mente.
E quei che delle muse la cognizion non hanno,
Quei che ne sono indegni, mai più non li vedranno.
Fabio. Per dir il ver, signora, mover m’intesi a sdegno;
Ho tollerato il torto solo per voi, m’impegno.
Ch’io legga a simil gente mai più non vi è pericolo;
Non voglio dagli sciocchi esser posto in ridicolo.

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Contessa. Il baron Federico è un uom fatto così,

Ma presto egli dovrebbe andarsene di qui.
Fabio. Del baron Federico non me n’importa niente;
Ma gli altri i versi miei sprezzarono egualmente,
E assai mi maraviglio di voi, signora mia,
Che i stolidi possiate soffrire in compagnia.
Dovreste a parer mio formar conversazione
Di gente che alle lettere mostrasse inclinazione;
E preferendo i dotti a quei di bell’aspetto.
Vi acquisterete 1 al mondo un singolar concetto.
Contessa. Dite bene, don Fabio: io voglio in ogni forma
Far degli amici miei lo scarto e la riforma.
Qual credereste voi ch’io licenziassi il primo?
Fabio. Il capitan Gismondo, che men degli altri io stimo.
Contessa. Eppure il capitano, per dir la verità,
È quel che ha più degli altri per me della bontà.
Fabio. Della bontà per voi? affè siete ingannata,
E convien dir che v’abbia la passione acciecata.
Vi vuol tanto a conoscere ch’è un spirito volante.
Che a tutte a prima vista suol far lo spasimante?
Non vedeste voi stessa, che alla Romana appresso
Languiva, spasimava, uscia fuor di se stesso?
Contessa. Davver?
Fabio.   Non lo vedeste?
Contessa.   Servirla io lo pregai.
Fabio. Servirla? sospirare, tremare io l’osservai.
Tutti se ne ridevano, e ciò, ve lo protesto,
A voi da ognun si reputa un torto manifesto.
Contessa. (Ah, lo sdegno pur troppo mi sprona e mi solletica).
(da sè)
Fabio. (Spero che abbia a giovarmi quest’invenzion poetica).
(da sè)
Contessa. (Si pensi alla vendetta). Don Fabio, a un vostro pari,
A un uom del vostro merito è ben ch’io mi dichiari.

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Ebbi piacer, noi niego, d’avere in casa mia

Di gente d’ogni genere graziosa compagnia,
Fissando nella mente di far finezze a tutti,
Solo per conseguire dell’amicizia i frutti.
Ma sia comun destino, o mia special sventura,
Ciascun l’arbitrio mio di soggiogar procura,
E fra gli adoratori, per dir la verità,
Ho anch’io segretamente la mia parzialità.
Il capitan Gismondo credeasi il preferito.
Ma tollerar non posso quell’animo sì ardito;
Ed ei che se ne avvide, mostra per altri affetto,
Credendo in guisa tale di fare a me un dispetto.
Ma il capitan s’inganna; è il suo pensar da stolto;
Ad un migliore oggetto ho l’animo rivolto.
Non curo il pazzarello, sprezzo i deliri suoi.
Ah sì, tutto il mio cuore l’ho consacrato a voi.
Fabio. Davver?
Contessa.   Non so mentire; quel che vi dico, è vero.
Fabio. Deh lasciate, Contessa, ch’io parlivi sincero.
Bramo la grazia vostra quanto bramar si può.
Ma creder quel che dite, per or sospenderò.
Permettete che prima, cara Contessa mia,
Faccia del vostro cuore un po’ di anotomia.
Voi, per quello che dite, aveste compiacenza
Trattar diversi amici con piena indifferenza.
Ma per quanto vogliate mostrarvi universale,
Dite che un più dell’altro nel vostro cuor prevale.
Sento con mia fortuna ch’io sono il prediletto,
Ma me lo dite in tempo, che mi può dar sospetto.
Se è ver che voi abbiate per me cotanta stima.
Perchè non mi svelaste l’inclinazione in prima?
Ora pel capitano siete sdegnata un poco,
E non vorrei servire per comodino al gioco.
Se voi dite davvero, so quel che mi conviene:
Voi stessa esaminate, pensateci un po’ bene.

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E se mai di scherzare aveste il bel desio.

Voi avete dell’estro, ma son poeta anch’io.
(s’inchina e parte)

SCENA II.

La Contessa sola.

Veramente è un poeta sagace, illuminato,

E nel fondo del cuore davver mi ha penetrato.
È ver, più che l’amore, mi stimola lo sdegno.
Ma sarò più costante, se prenderò un impegno;
E il capitan, che crede vincermi con orgoglio,
Vedrà fin dove arrivo, quando sdegnarmi io soglio.
Vuol fare altrui le grazie per vendicarsi un poco;
Troverò io la strada di terminare il gioco.
E terminarlo io voglio con mia riputazione,
Senza che se ne avveda la mia conversazione.
Pria che la Baronessa si arrenda all’uomo scaltro,
Voglio far, se mi riesce, che accendasi d’un altro.
Il cavaliere Ascanio parmi sarebbe al caso;
Chi sa che non mi riesca far ch’ei sia persuaso?
Or or, secondo il solito, da me dovria tornare;
Se non verrà si presto, lo manderò a chiamare.
So ben io la maniera che ho da tenere in questo;
Mi voglio vendicare, lo dico, e lo protesto.
L’una e l’altra passione suol appagarmi il cuore;
O vanità trionfi, o che trionfi amore.

SCENA III.

Don Armidoro e la suddetta.

Armidoro. Eccomi qui, signora....

Contessa.   A tempo capitate;
Il cavaliere Ascanio a ritrovarmi andate.

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Armidoro. Ma respirar lasciatemi, lasciatemi sedere,

Un’ora ho camminato, cercando il parrucchiere;
L’ho ritrovato alfine, meco è venuto insieme.
Contessa. Io voglio il Cavaliere, e subito mi preme.
Armidoro. Ma non avete alcuno, che vada a rintracciarlo?
Contessa. Non ho altri per ora, andate a ritrovarlo.
Via, vi fate pregare? siete un gran bell’amico!
Voi non valete un diavolo, l’ho detto, e lo ridico.
Che serve, che venghiate a far lo spasimato,
Se alle mie distinzioni vi dimostrate ingrato?
Quando dei buoni amici non posso assicurarmi,
Non serve tutto il giorno che vengano a seccarmi.
Armidoro. Via, non andate in collera, ad obbedirvi andrò.
Contessa. Se voi sarete buono, so io quel che farò.
Armidoro. Per compassione almeno datemi una manina.
Contessa. Eccola qui, tenete. (gli dà la mano, sostenuta)
Armidoro.   Addio, la mia regina.
(le bacia la mano con rispetto, e parte)

SCENA IV.

La Contessa, poi la Baronessa.

Contessa. Quasi mi fa da ridere. Povero disgraziato,

È un uomo di buon core, ma è proprio sfortunato.
Qualche volta vorrei trattarlo con dolcezza,
Ma non so di buon animo usargli una finezza.
Pure non voglio perderlo, perchè, per dir il vero,
Fra quanti che mi trattano, è forse il più sincero.
Baronessa. Posso venir. Contessa?
Contessa.   Anzi mi fate onore.
(Vuò principiare adesso a maneggiar quel core).
Baronessa. Quanto mi è dispiaciuto sentir che il padre mio
Non si acchetava mai; ero arrabbiata anch’io.
E voi siete più in collera?

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Contessa.   No, no, tutto è passato:

Il capitan, signora, con voi non è restato?
Baronessa. Anzi è partito subito. Ma un dubbio ora mi viene:
Non so s’egli mi burli, o pur mi voglia bene.
Contessa. No, Baronessa mia, non gli badate un zero.
Di lui non si ritrova un uom più menzognero.
Per il ben che vi voglio, dico la verità.
Se voi gli baderete, colui vi burlerà.
Baronessa. Oh povera fanciulla, perchè vuol ingannarmi?
Da uomini sgraziati2 non lascierò burlarmi.
Contessa. È ver che il capitano ride alle spese altrui,
Ma però tutti gli uomini non sono come lui.
Anzi un certo segreto avrei da confidarvi...
Ma ditemi voi prima, volete maritarvi?
Baronessa. Certo pel matrimonio sarei forse inclinata.
Ma temo, poverina, di rimaner burlata.
Contessa. Ditemi, Baronessa, vedeste poco fa
Quel Cavalier gentile, composto in serietà?
Baronessa. Lo vidi.
Contessa.   Che vi pare, è un cavalier garbato?
Baronessa. Io non saprei, contessa; molto non vi ho badato.
Contessa. Poco voi gli badaste, per via del capitano;
Il cavaliere Ascanio è un giovin Mantovano,
Di nobili natali, savio, onesto, prudente.
Che ha per voi della stima, che vi ama estremamente.
Quando è da voi partito, venuto è a ritrovarmi,
E tutto il di lui cuore voluto ha confidarmi.
Dissemi: Contessina, sono d’amore acceso,
La Baronessa amabile adorator mi ha reso.
Gli occhi vivaci e teneri, il labbro suo ridente,
Quel favellar gentile, quel suo mirar languente,
Quella vezzoza faccia, e cento cose e cento,
Vedute in un istante, pensate in un momento,

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M’han di lei reso amante, e in avvenir non so

Quel che accader mi puote, se ancor la mirerò.
(La Baronessa si va contorcendo a questo discorso, mostrandodi averne rossore.)
Io dissi al Cavaliere: voi sospirate invano;
Par che la Baronessa inclini al capitano.
A lasciar la speranza quasi lo consigliai,
Ma che voi lo perdeste, mi spiacerebbe assai.
Quanto quell’altro è finto, tanto quest’altro è onesto;
Pare ch’egli sia fatto per voi, ve lo protesto.
Amica, il vostro cuore sollecitar non tento,
Bramo sol di sentire il vostro sentimento.
Baronessa. Tante cose mi dite.... Contessa, io non saprei...
Contessa. Volete ch’io gli parli?
Baronessa.   Vorrei, e non vorrei.
Contessa. L’ho mandato a chiamare, poco tardar potrà.
Baronessa. L’ha saputo mio padre?
Contessa.   Non ancor, ma il saprà.
Prima il vostro pensiere piacquemi rilevare.
Dunque cosa mi dite?
Baronessa.   Io ci vorrei pensare.
Contessa. Se viene il Cavaliere, dicogli le parole?
Che speri, o che disperi?
Baronessa.   Eh! faccia quel che vuole.
Contessa. Eccolo per l’appunto.
Baronessa.   Vi riverisco, e parto.
(inchinandosi in atto di partire)
Contessa. Aspettar non volete?
Baronessa.   Vi aspetto nel mio quarto. (come sopra)
Contessa. Amica mia, credetemi, vi servirò di cuore.
Baronessa. Resterei volentieri, ma ho un tantin di rossore.
(come sopra, e parte)

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SCENA V.

La Contessa, don Armidoro ed il Cavaliere.

Contessa. O è semplice, o lo finge, non la capisco un zero;

Di ridurla per altro al mio volere io spero.
Fin che in un altro amore non giungo ad impegnarla,
L’arte del capitano sperar può d’obbligarla.
Ed io, per avvilirlo, in mente mi ho fissato
Di voler quel superbo deriso e disprezzato.
Cavaliere. Eccomi ai cenni vostri.
Armidoro.   Eccolo qui, signora.
Ve l’ho condotto io stesso. Siete contenta ancora?
Contessa. Vi ringrazio, Armidoro, ma fatemi un piacere;
Ite nell’altra camera colle mie cameriere.
Armidoro. A cosa far?
Contessa.   Tenetele un poco in allegria.
Sola col Cavaliere vo’ stare in compagnia.
Armidoro. Con serve e servitori voi mi mettete in mazzo?
Anderò via, signora.
Contessa.   Eh, non mi fate il pazzo.
Ite in un’altra camera, e quando vi vorrò,
Quando venir dovrete, allor vi chiamerò.
Armidoro. Vado, non so che dire. (La grazia sua mi preme,
Bramo di star con essa una mezz’ora insieme).
(da sè, e parte)

SCENA VI.

La Contessa ed il Cavaliere.

Cavaliere. (Eppure io mi lusingo colla mia sofferenza

Aver sopra d’ogn’altro da lei la preferenza).
Contessa. Cavalier gentilissimo, con voi me ne consolo.
Cavaliere. Di che?
Contessa.   Di un bell’acquisto fatto così di volo.
In fatti chi ha del merito, chi è come voi gentile,
Trionfa a prima vista del sesso femminile.

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Cavaliere. Io non merito niente3; ma se tal cosa è vera,

Premio sarà soltanto di servitù sincera.
Contessa. Qual servitù, signore, se la miraste appena?
Cavaliere. Chi?
Contessa.   La Romana.
Cavaliere.   In fatti siete graziosa e amena.
La baronessa Amalia cosa ha che far con me?
Credea d’altro parlaste. Sono ingannato, affè.
Mi pareva impossibile.... Basta, vi vuol pazienza,
Pretendere non posso da voi la preferenza.
Soffrirò volentieri senza speranza il foco;
Ma di me non vorrei che vi prendeste gioco.
Contessa. Vi dirò. Cavaliere, sia detto infra di noi,
La mia scelta pendeva tra il capitano e voi:
Prima di dichiararmi, per consigliar me stessa,
Volli per amicizia sentir la Baronessa.
Mentre di voi le parlo, impallidir la miro:
Sentole uscir dal labbro un languido sospiro.
La cagion le domando del suo novel tormento:
Risponder non ardisce, e singhiozzar la sento.
Ma poi tanto la prego col mio parlare umano,
Che la riduco alfine ad isvelar l’arcano.
Alle corte, con me la giovin si è spiegata,
Che appena vi ha veduto, di voi si è innamorata.
E l’ha detto di core, non già per bizzarria;
Convien dir che sia questa virtù di simpatia:
Convien dir che il destino l’abbia condotta qui.
Donna non ho veduto a sospirar così.
E tanta compassione mi fe’ la Baronessa,
Che a voi preso ho l’impegno di favellare io stessa.
Sagrifico all’amica un cuor ch’io stimo ed amo:
La pace sua desidero, la pace vostra io bramo.
Questi son quegli amori, che durano in eterno,
Nati senz’avvedersene da un movimento interno.

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Perdere il vostro cuore assai mi spiacerà,

Ma impedire non voglio la sua felicità.
Conoscete da questo s’io son fedele amica;
La Baronessa amate, il ciel vi benedica.
Cavaliere. Voi mi avete stordito, signora, in guisa tale,
Che non ho mai provato un stordimento eguale.
Chi sente voi, rassembra l’affare accomodato.
Ma io per quella giovane non sentomi inclinato;
Se il simpatico genio desta le brame sue,
La simpatia dovrebbe oprare in tutti due.
Contessa. Non vi par ch’ella sia degna del vostro amore?
Cavaliere. Sarà; ma un altro affetto mi ha prevenuto il cuore.
Contessa. Per chi?
Cavaliere.   Per voi, signora.
Contessa.   Guardate il folle inganno;
Scernere il proprio bene i nostri cuor non sanno.
Per voi, non so negarlo, ho dell’amore anch’io;
Ma non vi è paragone fra il di lei foco e il mio.
Io sono ancora incerta fra il capitano e voi,
Ella a voi sol consacra tutti gli affetti suoi.
Io mi diverto alfine or con quello, or con questo;
Ella non vuol trattare nessun, ve lo protesto.
Parlo contro me stessa. Ma confessar si de’,
Che fareste un sproposito a barattar con me.
Cavaliere. Lasciate ch’io lo faccia; se poi m’ingannerò,
E se sarò pentito, pazienza.
Contessa.   Oh questo no.
Avrei doppio rimorso: d’aver l’amica oppressa,
E d’aver cimentato la pace di me stessa.
Lo sapete, signore, s’io son superba alquanto.
Se tener vincolati gli amici miei mi vanto.
Se quando ho una rivale, soglio mostrarmi irata;
Ma son nel vostro caso a cedere forzata.
Proprio la Baronessa mi mosse a compassione.
Ah se voi la sentiste, dareste a me ragione!

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Povera giovinetta! non so come abbia fatto

Tutti i meriti vostri conoscere ad un tratto.
Ha saputo descrivermi sì bene il vostro viso,
Che vedesi che amore l’ha nel suo petto inciso.
Egli ha un occhio, mi disse, che quando mira, impiaga;
Ha una vezzosa bocca, bocca ridente e vaga;
Le guancie ha porporine; ma la di lui beltà
Mista è d’una soave gentil virilità.
Che brio, che portamento! che nobile figura!
Farmi che dir si possa miracol di natura.
E le maniere sue son docili, amorose.
Poteva dir di più?
Cavaliere.   Di me sì belle cose?
Contessa. Di voi; che ve ne pare?
Cavaliere.   Certo ha una gran bontà.
Sembro a voi sì gentile?
Contessa.   Nè men per la metà.
Cavaliere. Convien dir che un altr’occhio in lei dunque vi sia.
Contessa. Convien dir che non opera in me la simpatia.
Cavaliere. Non so che dir. Contessa, se nel suo cuor si aduna
Per me cotanta stima, sarà per mia fortuna.
Ingrato esser non soglio ai doni della sorte.
Contessa. Di lei siete disposto a divenir consorte?
Cavaliere. Troppo presto, signora.
Contessa.   È ver, ma diamo il caso
Che l’affar si trattasse, sareste persuaso?
Cavaliere. Con voi non vi è speranza?
Contessa.   No, per me più non siete.
Volete ch’io le parli?
Cavaliere.   Fate quel che volete.
Contessa. Ditemi, Cavaliere, avete mai trovata
Un’altra, come me, per l’altrui ben portata?
Poche son quelle donne che facciano così.
Armidoro. (chiama)

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SCENA VII.

Don Armidoro e detti.

Armidoro.   Signora. (di dentro)

Contessa.   Venite.
Armidoro.   Eccomi qui.
Con voi mezz’ora almeno posso, signora mia...
Contessa. No, no, col Cavaliere restate in compagnia.
Ritornerò fra poco. (Vo’ terminar l’impegno;
Tutto si rende facile a un femminile ingegno). (parte)

SCENA VIII.

Don Armidoro ed il Cavaliere.

Armidoro. Per verità, son stanco di sofferir tal scena.

Deggio servirla, e poi posso parlarle appena.
Cavaliere. Non vi lagnate, amico: bisogna non ci sia,
Fra voi e la Contessa, l’amor di simpatia.
Armidoro. Ma fra tanti rivali, da cui vien corteggiata,
Possibil che nessuno non l’abbia innamorata?
Cavaliere. Nessuno, a parer mio: credo che la Contessa
Sia stata e si mantenga amante di se stessa.
La vanità la sprona a coltivar più d’uno,
Fa delle grazie a tutti, ma non distingue alcuno.
Armidoro. Eppure io non la credo senza passione in petto.
Per dir la verità, so io quel che m’ha detto.
All’amor mio piegata spero vederla un giorno,
E ho ragion di sperarlo.
Cavaliere.   Eccola di ritorno.
Armidoro. Fatemi la finezza, lasciatemi con lei.
Cavaliere. Ho da terminar seco certi interessi miei.
Andate e poi tornate.
Armidoro.   No, non vi cedo il loco.
Cavaliere. Che sì, che ve ne andate?
Armidoro.   Io? lo vedremo un poco.

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SCENA IX.

La Contessa e detti.

Contessa.   Ehi sentite. (al Cavaliere)

Cavaliere.   Signora. (accostandosi a lei)
Contessa. La Baronessa or viene.
(piano al Cavaliere)
Cavaliere. Dee restare Armidoro? (piano alla Contessa)
Contessa.   Oibò, ciò non conviene.
(piano al Cavaliere)
Amico. (a don Armidoro)
Armidoro.   Vuol ch’io parta? non crederei tal cosa.
Contessa. Il mio caro Armidoro, è ver, son fastidiosa:
Sempre di voi mi valgo, sempre vi mando intorno,
Mai non si resta insieme; ma ha da venir quel giorno.
Una le paga tutte, dice il proverbio. Io so
Quel che bolle qua dentro, e un dì ve lo dirò.
Fate il piacere intanto d’andar....
Armidoro.   Già lo sapea;
Che mi avreste mandato il cuor mi predicea.
Anderò via per sempre.
Contessa.   Ma no, venite qui.
Cavaliere. (Eh, lasciate che ei vada). (piano alla Contessa)
Contessa.   A me dite così?
(a don Armidoro)
Sì mal corrispondete al ben che vi ho mostrato?
Alle mie distinzioni siete cotanto ingrato?
Ecco qui il Cavaliere: codesto, io lo confesso,
È da me il più distinto; che non farei per esso!
Ah, della mia sfortuna l’esempio in lui vedete.
Armidoro. Son qui, Contessa mia, andrò dove volete.
Contessa. Bisogno ho di un notaro, andatelo a cercare.
(ad Armidoro)
Armidoro. Vado per obbedirvi. (Mi convien sopportare). (parte)

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SCENA X.

La Contessa, il Cavaliere, e poi la Baronessa.

Cavaliere. Dite la verità, Contessa mia garbata,

Siete per Armidoro veramente impegnata?
Contessa. Oibò.
Cavaliere.   Perchè tenerlo dunque in tale speranza?
Contessa. Ecco la Baronessa, che viene in questa stanza.
Quando di voi le ho detto quel che fra noi passato,
Mi ha abbracciata sì stretta, che quasi mi ha stroppiato.
Cavaliere. (Ora vedrò, se è vero questo amor stravagante).
Contessa. Periglioso è l’incontro, ma l’ho previsto innante.
(poi rivolta alla Baronessa)
Venite, Baronessa; venite pur, bisogna
In simili occasioni superar la vergogna.
Baronessa. Serva sua. (s’inchina, mostrando un poco di rossore)
Cavaliere.   Riverente. (la saluta con qualche confusione)
Contessa.   Chi mai l’avrebbe detto.
Che nascere dovesse quest’improvviso affetto?
Eppure ella è così; eppur sono frequenti
Nel regno di Cupido consimili portenti.
Trovasi in tutti i corpi magnetica virtù,
Che attrae violentemente or meno, ed ora più.
Son le cose insensate soggette a cose tali,
Molto più vi saranno soggette le animali;
E in chi della ragione gode il supremo dono,
Gl’impulsi e le attrazioni difficili non sono.
Ma la ragion per altro nell’alme delicate
Fa che le inclinazioni talor sian contrastate;
E veggono l’effetto in voi presentemente,
Che ancora non ardite spiegarvi apertamente.
Io son depositaria però de’ vostri arcani;
Gl’impulsi di natura in voi non saran vani.
Di simile avventura, ve lo protesto, io godo,
E ritrovar m’impegno di consolarvi il modo.

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Cavaliere. Signora, io non ho merito... (verso la Baronessa)

Contessa.   Voi meritate assai.
L’amica è persuasa di quel ch’io l’informai.
Non è vero? (alla Baronessa)
Baronessa.   Signore... Ha detto la Contessa,
Che un incognito amore... (modestamente)
Contessa.   Ecco il dice ella stessa.
(piano al Cavaliere)
Cavaliere. S’ella è così, signora, dirò con mio contento,
Che amor negli occhi vostri...
Contessa.   Certo ha fatto un portento.
Baronessa. Tanta bontà, signore... Io non mi so spiegar.
Contessa. Ho inteso quanto basta. Ve ne potete andar.
Parlerò a vostro padre. Ch’egli lo sappia è giusto,
D’un simile accidente ei non avrà disgusto.
So che desia vedervi con piacer collocata:
Vedrà che questa cosa dal cielo è destinata.
E quel destin, che il cuore accese in un momento.
Farà ch’ei non ritardi il suo consentimento.
Baronessa. Riverisco. (inchinandosi in alto di partire)
Contessa.   Signora, ditegli qualche cosa.
Baronessa. Io non saprei che dire.
Contessa.   (È un pochin vergognosa.
Le si vede negli occhi l’amor, la vera stima.
Ma ha del rossor, pensando d’esser stata la prima).
(piano al Cavaliere)
Cavaliere. (Fatele voi coraggio). (alla Contessa)
Contessa.   (Fidatevi di me). (al Cavaliere)
(Un uom simile a lui, credetemi, non c’è. (alla Baronessa)
Sendo egli stato il primo a palesar l’affetto,
Dubita ch’egual fiamma non vi riscaldi il petto.
Ditegli chiaro e schietto, che il vostro cuor gradì
Quell’amor che vi porta. Siete contenta?)
Baronessa.   Sì.
(forte che il Cavaliere senta, e parte mostrando di arrossire)

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Contessa. Lo sentiste quel sì? quel Sì vuol dire assai.

Cavaliere. Voi, per grazia del cielo, non lo diceste mai.
Contessa. Oh è diffìcile molto strapparmelo di bocca.
Un dì potrebbe darsi, ma per or non son sciocca.
Cavaliere. Se da voi questo sì sperare non poss’io,
Dunque la Baronessa può sperar l’amor mio.
Resta che voi compite l’affare incominciato;
Della vostra attenzione io vi sarò obbligato.
Se voi di no mi dite, sarò contento un dì,
Di aver per voi trovato chi seppe dirmi un sì. (parte)
Contessa. Sì, la cosa va bene; se il capitan verrà,
Or colla Baronessa le grazie non farà.
E se da lei sprezzato, a ritentar mi viene,
Deridere lo voglio, e strapazzar ben bene.
Voglio che se ne penta quel cor che mi schernì.
Voglio questi superbi mortificar così. (parte)

Fine dell’Atto Terzo.


Note

  1. Edd. Guibert-Orgeas e Zatta: Vi acquistereste.
  2. Così nelle edd. Guibert-Orgeas, Zatta ecc. Nell’ed. Pitteri leggesi disgraziati.
  3. Ed. Zatta: merto.