La chioma di Berenice (1803)/Considerazione XIII

Considerazione XIII. Mirra

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Gaio Valerio Catullo - La chioma di Berenice (I secolo a.C.)
Traduzione di Ugo Foscolo (1803)
Considerazione XIII. Mirra
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considerazione xiii

Mirra


Verso 77. Quicum ego, dum virgo quondam fuit, omnibus expers
               unguentis, myrrhae millia multa bibi.

Erano propriamente unguenti tutti quelli artificiosamente composti di vari odori; onde Varrone (de l. l., lib. v) e Plinio (libro xiii, cap. 1) distinguono la mirra dagli unguenti, perché distillata da una sola pianta. Plauto, Mostell.

          Vin’unguenta? Quid opus est?
     Cum stacta accumbo:

Lo stacte era quintessenza di mirra (Bacio de conviviis antiq. lib. iii, 12). Poteva quindi Berenice, vergine regale, usare dell’olio schietto di mirra, astenendosi d’unguenti: Pallade non ama unguenti né alabastri; recatele oglio, o lavatrici (Callim., Lavacri di Pallad. citati a pag. 139). Però le fanciulle, le quali erano sotto la tutela di Diana e di Minerva, non dovevano servire a Venere che non potè domare col lusso e con gli scherzi amorosi le due vergini dive (Inno a Venere attribuito ad Omero, v. 7 e seg.)

Le unzioni degli eroi di Omero sono parimenti di oglio, e non di unguenti. Plinio nelle prime linee del lib. xiii: Quis primus invenerit (unguenta) non traditur: Iliacis temporibus non erant nec thure supplicabatur. So che tutti gli antiquarj e fra gli altri Pietro Servio nel suo trattato de odoribus, contrasta questo passo di Plinio: ma so altresì che la voce μύρον unguento, non si trova negli antichissimi greci, e primo ad usarne fu Archiloco che visse verso la x olimpiade: e so che Omero non ne parla pur una volta, né Virgilio in tutta l’Eneide, ove tratta de’ tempi iliaci. Parla bensì della mirra, come quella che [p. 215 modifica] si conosceva sino da remote età, perch’era lagrima naturale e semplicemente raccolto da una pianta. Eneid. lib. xiii, v. 97.

— Da sternere corpus,
Loricamque manti valida lacerare revolsam
Semiviri Phrygis, et foedare in pulvere crines
Vibratos calido ferro, myrrhaque madentes.

Laonde io credo che il μύρον d’Archiloco, voce generale che spiega una materia liquida ed odorosa, derivi dalle voci speciali μύῤῥα, mirra, preziosa e naturale gomma di una pianta. Così dalla voce speciale vir vennero le solenni vis, virtus; fortis, fors, fortuita: ἀνήρ, uomo; ἀνδρεία, forza; ἄναξ, re. E qui notino i politici che forza, virtù e fortuna hanno anche in gramatica la stessa radice. — Quindi il nome della mirra, cosa preziosa e fragrante, s’applicò alle materie che avevano le medesime qualità. Non era dunque unguento quello di cui si ungevano le compagne di Elena in Teocrito, e molto meno quello di cui Venere imbalsamò il corpo di Ettore (Iliad. xxiii) per farlo incorruttibile, ma era oglio semplice di rosa immaginato al mio parere dal poeta per significare cosa divina e degna degli immortali, come l’ambrosia. Che se presso gli orientali e nei libri più antichi si legge: Aaron unguentum capiti affundere solitus, quod in barba descenderet (Esodo), non perciò prova che anche i Greci dovessero sin d’allora usarne. Ma che la mirra non fosse fra gli unguenti anche presso gli orientali, e che si distinguesse il culto delle vergini da quello delle spose, si vede chiaramente da quel passo nel libro di Ester (cap. ii, 12): Cum venisset tempus singularum per ordinem puellarum, ut intrarent ad regem, expletis omnibus quae ad cultum muliebrem pertinebant, mensis duodecimus vertebatur; ita dumtaxat, ut sex mensibus oleo [p. 216 modifica] ungerentur myrrhino, et aliis sex quibusdam pigmentis et aromatibus uterentur. Perocché, essendo riguardate quelle donzelle riserbate al letto del re quali fanciulle regali, ne’ primi sei mesi usavano della semplice mirra come vergini, e negli ultimi sei di unguenti composti come prossime alle nozze.

Oserò pur aggiungere una mia congettura che non ho potuto impetrare da me stesso di abbandonare, tanto io sono convinto che nelle favole degli antichi fosse riposta tutta la teologia, la fisica e la morale di quelle nazioni. Le giovinette e più ancora le ingenue e regali più facilmente pericolavano negli amori domestici, poiché alla voce soave dell’amore si aggiungeva la ritiratezza con che il costume le tenea rinchiuse. Però nel loro culto era conceduta la mirra come per memoria del pudore famigliare e della pietà figliale e fraterna. L’albero da cui goccia questa gomma si predicava nato dall’infelice Mirra, la quale, dopo d’avere empiamente compiaciuto degli abbracciamenti del padre al proprio amore, errando fuggitiva ed esecrata fu convertita in quest’arbore. Ovid. metam. x, 499.

Quae, quamquam amisit veteres cum corpore sensus
Flet tamen, et tepidae manant ex arbore guttae:
Est honor et lacrimis: stillataque cortice myrrha
Nomen herile tenelt nulloque iacebitur aevo.