La casa del poeta/L'aquila
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L’AQUILA
Al contrario del profeta Elia nutrito dal corvo, era il vecchio Elia che portava da mangiare alla sua aquila.
Vivevano tutti due in luogo degno di loro; in una rocca principesca, che, dopo molte vicende storiche, era stata adibita a prigione politica; sopra un borgo grifagno, in cima ad un monte di pietre che parevano blocchi di acciaio.
Elia vi era stato carceriere e, adesso, sgombrato il luogo dai suoi tristi abitanti, vi rimaneva come guardiano. E vi rimaneva perchè riceveva un piccolo stipendio, le legna per l’inverno, le mancie dei visitatori, ed infine perchè non sapeva dove andare.
Era venuto quasi ragazzo dai paesi del sud, con un cuore tutto sole e l’accento gorgheggiante degli usignoli: il mestiere, il tempo, il luogo, lo avevano indurito e raggrinzito come una pera che si secca non maturata sull’albero.
Anche l’aquila, egli ricordava di averla veduta arrivare, tutta ricca di piume, di superbia e di inesperienza, e posarsi sulla rocca come lo stemma sopravvivente degli antichi signori del luogo. Era stato lui a catturarla: dopo averle spezzato un’ala con un tiro di pallini, l’aveva presa, grande, dura e palpitante, le penne fulve insanguinate, e se l’era stretta al petto con rimorso e pietà.
Adesso vivevano assieme, soli, lui in una stanzaccia terrena che doveva essere stata una sala d’armi, l’aquila in un cortiletto attiguo, appollaiata su un mozzicone di quercia, sopra una fila di cavoli bluastri.
Egli non sapeva ancora se la sua compagna era rassegnata e se gli voleva bene: certo, essa non tentava di andarsene; ma ogni volta che lo vedeva lo guardava fisso coi suoi occhi feroci, stringendo forte gli artigli intorno al ramo come per frenarsi di saltargli addosso.
Il suo aspetto era sempre maestoso e minaccioso: impettita, guardava dall’alto, sporgendo il suo profilo d’imperatore che ascolta solo i suoi pensieri. Non si scomponeva neppure quando aveva fame ed Elia le portava il cibo, anche se questo era il suo preferito: la carne cruda. L’afferrava con la tanaglia del suo becco, se la metteva sotto la zampa sinistra, e prima d’iniziare il pasto si sollevava quanto era alta, con la testa gonfia di alterigia, volgendosi qua e là, ad esplorare se mai qualcuno ardisse avvicinarsi e contrastarle la sua proprietà; infine ficcava il becco nella carne, la strappava a piccoli brani e l’ingoiava lentamente.
*
Nella bella stagione, spesso comitive di gitanti salivano per visitare la rocca. Al rumore delle automobili che si fermavano nello spiazzo, l’aquila squittiva e si agitava: nel sentire Elia che andava ad aprire, svolazzava giù, pesante, aggressiva come un cane da guardia, e quando egli, per evitare una spiacevole emozione ai visitatori, la chiudeva nel cortile, non potendo far altro batteva il becco contro la porta o si strappava qualche scaglia di pelle dalle zampe forzute.
Nel rientrare contando le mancie, Elia la trovava ancora agitata.
— Che vuoi che ti portino via, mascalzona? Le pietre, o le catene infisse al suolo nei sotterranei? Non ci sono neppure più i vetri: il vento se li ha sgretolati come caramelle di zucchero d’orzo.
Era vero. Nelle notti di luna i vetri apparivano come pagine bianche con larghi schizzi d’inchiostro nero; e nell’autunno, quando le comitive lasciavano in pace il luogo, il vento irrompeva da masnadiere nei cameroni alti, danzandovi dentro a suon di tamburo.
Il vecchio allora si provvedeva per l’inverno: specialmente di fiaschi di vino che comprava nell’osteria del borgo. L’oste era stato anche lui guardiano nelle carceri della rocca: ancora bell’uomo, forte e sanguigno, faceva onore al suo vino e sebbene ammogliato pizzicava e mordeva con gli occhi tutte le ragazze che capitavano nell’osteria.
La moglie, alta e scura come un gendarme travestito da donna, lo sorvegliava e non gli permetteva di uscire alla sera: egli si lamentava con Elia e gl’invidiava la sua solitudine.
— Avrei fatto bene a starci io: avrei fatto lassù il comodo mio.
D’un tratto però cambiò modi: cominciò a compassionare il vecchio, così solo in quel purgatorio, col rischio, se moriva, di esser divorato dai corvi.
— Ti voglio cercare una serva. Te la procuro gratis, parola di Bernardone. La vuoi o non la vuoi?
— La vorrei, sicuro! Se non mangiasse...
— Se ci ha la bocca deve pur mangiare. Ma qualche salsiccia gliela posso regalare io.
Il vecchio alzava le spalle. Egli aveva anche dimenticato di ridere, e certi scherzi non li capiva neppure.
*
Una notte, però, lo scherzo si fece realtà.
Era una notte fredda ed egli aveva acceso il fuoco nel caminone della stanzaccia: per riscaldarsi meglio, mentre leggiucchiava certi foglietti con la spiegazione del Vangelo, tirava su un fiasco di vino granato che teneva accanto e vi succhiava dentro con baci avidi e lunghi come i primi che si danno all’amante. Fuori c’erano le nuvole, che una mezza luna giallognola invano si ostinava a falciare: il vento strappava le chiome alle rade quercie del monte, si sbatteva con la sua testa pazza contro i muraglioni della rocca: non uno ma cento masnadieri ballavano sulla torre, e nei sotterranei gemevano i prigionieri incatenati al suolo.
Il vecchio beveva, trovava chiara la spiegazione del Vangelo e sorrideva al fuoco: poichè gli pareva fosse ancora la bella stagione; nel camino ardevano i tramonti d’estate, il rumore nello spiazzo era quello delle automobili dalle quali sbarcavano le belle signore la cui vita è tutta una gita di piacere.
Eppure, sì, d’un tratto, sente bussare al portone. È un’illusione destata dal vino? Bussano ancora: l’aquila si sveglia e squittisce. Elia si toglie gli occhiali come per ascoltare meglio, se li rimette, esce nell’ingresso tutto nero e profondo come una grotta e domanda chi c’è.
— Amici.
Egli non aveva che amici, nel mondo: quindi staccò dalla parete fredda il chiavone che pareva una pistola, ed aprì.
— Sono io, sono Bernardone: non mi riconosci? Ti ho portato la serva. Bisogna far entrare anche il cavallo, se no il vento me lo porta via.
Il vecchio si pizzicò la gamba come faceva l’aquila, per convincersi che non sognava; si provò anche a protestare.
— Ma, Bernardone, credi forse di essere alla porta del manicomio?
L’altro lo lasciò dire. Aprì il portone quanto era largo e vi fece entrare il cavallo ed il carrettino: seguiva una ragazza alta, con uno scialle nero che le copriva mezza la faccia pallida dove gli occhi lagrimosi per il freddo guardavano tra sfrontati e atterriti, fissando ora il vecchio ora la profondità fredda e nera del luogo. Al chiarore ondeggiante della candela, che Elia riparava con la mano, la figura di lui, davvero scarna e barbuta come quella di un eremita, e lo scenario intorno, avevano del fantastico: la ragazza sembrava suo malgrado impressionata, tanto che, per scuotersi, disse fra l’allegro e il tragico:
— Bel servizio mi hai cercato, Bernardone, maledetta sia l’animaccia tua.
Anche Elia rincalzava.
— Bernardò, tu hai bevuto, stasera. Non trovavi altro posto dove andare a burlarti di tua moglie? Fammi il piacere, vattene.
Bernardone lasciava dire. Chiuse il portone contro il vento, staccò il cavallo e dopo averlo legato al chiodo delle chiavi gli appese al collo un sacchetto di paglia. Poi tirò giù dal carrettino, l’ombra delle cui stanghe esplorava ardita il pavimento misterioso, un pacco di roba e alcune bottiglie. Infine battè la mano sulla spalla di Elia, e gli domandò se ci aveva uno spiedo per arrostire una salsiccia.
— Ce l’ho anche per infilzare te — disse il vecchio sdegnato: poi, visto che era inutile ribellarsi, pensò:
— E va be’. Adesso vediamo come va a finire.
*
Ma la cosa sembrava seria, poichè, entrati che furono nella cameraccia, mentre slegava l’involto e ne traeva davvero la lunga collana rosea di una salsiccia fresca, Bernardone raccontò con fare calmo e quasi triste che s’era messo in viaggio, per una certa partita di vino, quando aveva incontrata a metà strada la ragazza assiderata e piangente.
Storia semplice, del resto, quella di lei: era fuggita di casa per i maltrattamenti della matrigna e andava al paese vicino in cerca di servizio.
— Racconta tu, adesso.
Ella raccontò, scaldandosi le mani al fuoco: e un po’ rideva, un po’ si rabbuiava anche lei, dicendo che l’uomo l’aveva presa sul carrettino promettendole di trovarle quella sera stessa servizio.
— Non ho pretese; purchè quell’arpia della mia matrigna non sappia dove sono.
— Opera di carità — proclamò Bernardone. — Dov’è lo spiedo? Eccolo qui. E poi ci avrai pure un sacco, per questa disgraziata.
Adesso era il vecchio, che lasciava dire e fare. Sentiva l’aquila squittire tra il rombo del vento e gli sembrava il grido della propria coscienza. Ma sperava che non si trattasse di una ignobile farsa e ne aspettava la fine. La fine fu brutta. Poichè l’oste, dopo che con la compagna ebbe mangiato e bevuto, cercò il sacco, prese la candela, e dichiarò che avrebbe insegnato alla ragazza dove andare a dormire.
Camere a loro disposizione ce n’erano tante! Ed invano Elia s’illuse ancora aspettando che l’uomo ricomparisse. Si rimise a rileggere la spiegazione del Vangelo, si rimise a bere, ma non trovava pace. E l’aquila era scesa e picchiava alla porta stridendo come una civetta. Egli aveva paura: si accostò alla porta e tentò di scusarsi.
— Che cosa devo fare? Se vado a disturbarli, quel porco mi ammazza come un cane. Ma giuro a Dio che domani vado a denunziarlo alla moglie e al podestà: giuro a Dio.
L’aquila parve placarsi. Al chiarore della luna dovette ritornarsene nel suo covo e riaddormentarsi.
Il vecchio buttò fuori nell’ingresso gli avanzi della cena e si barricò nella sua camera, deciso a non guardare più in faccia l’oste scellerato.
All’alba quei due se ne andarono. Egli aspettò che il rumore del carrettino si smorzasse, ed il vento si portasse via, con esso, il peccato mortale; poi chiuse il portone e aprì la porta sul cortiletto. E gli parve di affacciarsi ai sotterranei vuoti e di doverci restare, solo, per sempre.
L’aquila non c’era più.