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arrivare, tutta ricca di piume, di superbia e di inesperienza, e posarsi sulla rocca come lo stemma sopravvivente degli antichi signori del luogo. Era stato lui a catturarla: dopo averle spezzato un’ala con un tiro di pallini, l’aveva presa, grande, dura e palpitante, le penne fulve insanguinate, e se l’era stretta al petto con rimorso e pietà.
Adesso vivevano assieme, soli, lui in una stanzaccia terrena che doveva essere stata una sala d’armi, l’aquila in un cortiletto attiguo, appollaiata su un mozzicone di quercia, sopra una fila di cavoli bluastri.
Egli non sapeva ancora se la sua compagna era rassegnata e se gli voleva bene: certo, essa non tentava di andarsene; ma ogni volta che lo vedeva lo guardava fisso coi suoi occhi feroci, stringendo forte gli artigli intorno al ramo come per frenarsi di saltargli addosso.
Il suo aspetto era sempre maestoso e minaccioso: impettita, guardava dall’alto, sporgendo il suo profilo d’imperatore che ascolta solo i suoi pensieri. Non si scomponeva neppure quando aveva fame ed Elia le portava il cibo, anche se questo era il suo preferito: la carne cruda. L’afferrava con la tanaglia del suo becco, se la metteva sotto la zampa sinistra, e prima d’iniziare il pasto si sollevava quanto era alta, con la testa gonfia di alterigia, volgendosi qua e là, ad esplorare se mai qualcuno ardisse avvicinarsi e con-