La casa del poeta/Il terzo

Il terzo

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Pace Denaro

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IL TERZO


Vivevano felici, nella grande gabbia di vimini che arieggiava una pagoda, i due sposi canarini: lei sottile e mite, di un giallo acerbo con riflessi iridati, lui più grosso, colorito di zolfo e verderame, vivace e quasi turbolento. Mai fermo un minuto, di qua, di là, da un bastoncino all’altro dello stabilimento a due piani, tutto il giorno a cantare: al suo trillo cristallino faceva eco quello più tenue e commosso della femmina: e al loro colloquio si univa un continuo piluccarsi e amarsi.

Quando c’è l’amore c’è tutto: quindi la coppia non sentiva la mancanza della libertà: e che fantastica libertà, nella foresta lontana, dove le foglie, anche di primavera, Dio le ha, come un orefice, create tutte d’oro, perchè i canarini vi possano meglio nascondere la loro felicità.

D’altronde, il posto donde pendeva la gabbia era tiepido e gaio; un portico rustico, arioso e soleggiato, che si apriva su un orto pieno di alberi da frutto. Bello, quest’orto, in primavera quando gli erbaggi freschi sembravano di [p. 166 modifica]cristallo verde, e i meli si gonfiavano di roselline sulle quali rimaneva per tutto il giorno l’impronta dell’aurora: più bello di autunno, tutto di similoro, fragile, pronto a sciogliersi e dimostrare la sua illusoria ricchezza, ma ebbro della sua stessa illusione.

Il padrone dei canarini era, manco a dirlo, un vecchio operaio, che, nonostante la sua rassomiglianza col diavolo zoppo, aveva un cuore di bambino buono. Fabbricava manichi di scopa: li levigava, faceva loro la punta acuta più di quella di un lapis e la cima arrotondata come una testina con intorno al collo il nastrino di una incisione.

Ogni tanto andava a guardare i suoi canarini, a portar loro, con foglioline d’insalata, il tenero saluto della sua affezione. In lingua italiana li chiamava Cecè e Cicì; ma ben più efficaci erano i nomi che il suo dialetto gli suggeriva: uslìn, piccinin, strafognin, ed anche puttin.

Erano davvero i suoi bambini: li teneva con scrupolosa coscienza paterna, sempre in un clima temperato, puliti e forniti di tutto. Ogni notte, invariabilmente, sognava di loro, salvandoli dai più gravi rischi, con dolore e gioia quasi carnali: poichè, insomma, facevano parte anche della sua vita fisica e si mischiavano ai suoi sogni come alla sua realtà. Tanto che la vecchia moglie ne era gelosa, e, se non li maltrattava per naturale pietà, non si curava di loro. [p. 167 modifica]

Insorse però quando il marito, una domenica, nel pomeriggio, tornò a casa con la solita sbornia festiva già felicemente iniziata, e un terzo canarino nel pugno.

— Adesso mi combini l’arca di Noè in casa, vecchio Pin rimbambito!

Per calmarla egli trasse dalla tasca del vestito nuovo una manciata di castagne secche, e gliele offrì.

— Ti compatisco perchè sei nello stato che sei — ella inveì, rifiutando il dono. — Ti sei dimenticato che i denti, tu ed io, li abbiamo perduti per la seconda volta.

Egli non rispondeva mai ai continui brontolìi di lei: uscì piuttosto nel portico, e fece per mettere dentro la gabbia il terzo canarino; ma con profondo ansito si accorse che il cancelletto della pagoda era aperto e Cecè assente. La femmina se ne stava in un cantuccio, non spaurita, ma neppure vispa come al solito: pareva aspettasse il ritorno del compagno; e non si mosse per l’arrivo dell’ospite, anzi non diede segno di vederlo. Non era lui, la cui sola presenza poteva consolarla.

All’uomo, intanto, si era di un colpo snebbiato il cervello: urlò, chiamando la moglie, e, alle proteste ironiche e quasi contente di lei, s’inferocì.

Da troppo tempo ella rosicchiava la sua pazienza, non per i canarini soltanto, ma per tutte [p. 168 modifica]le piccole cose della vita: egli afferrò uno dei suoi bastoni ancora grezzo e la rincorse: non pareva neppure più zoppo, nè più sembrava il vecchio buon Pino, con la bava che, con le bestemmie e i vitupèri, gli colava dalla bocca violacea.

Fu un inseguimento buffo, intorno ai pilastri del portico, finchè la donna, che in fondo si divertiva, vide per caso il canarino proprio lì davanti sul ciliegio rasente alla casa.

— Eccolo, eccolo, Pin. È qui, sul ciliegio. Va a prendere la scala.

Egli si ricompose subito; il bastone gli cadde dalle mani; la scala fu subito issata fra il muro e la pianta, ed egli vi salì a stento, chiamando coi più teneri nomi il canarino.

Il canarino stava bene dove stava, sul ramo più alto, tra le foglie in colore delle sue piume: alcune, anzi, accartocciate, gli somigliavano anche nella forma: ed esso vi si confondeva in mezzo, come in quelle delle natie foreste, di tanto in tanto trillando per annunziare al mondo la gioia folle della sua libertà. Pareva si fosse dimenticato anche della sua compagna che, forse per troppo amore, non era stata capace di seguirlo. Peggio per lei. La libertà è una cosa più grande dell’amore, la più grande della vita. Gli esseri più felici, anche senza amore, senza ricchezze, senza potenza, sono gli esseri liberi.

Così trillava il canarino, saltellando da una [p. 169 modifica]parte all’altra del ramo che pareva di corallo: intorno a sè vedeva i frutti e le foglie del suo stesso colore, e tutti del colore del sole; e, sotto, l’orto, ben diverso da come lo vedeva dal portico; tutt’altra leggiadrìa, luminosa e fantastica, sotto quel liquido cielo d’autunno, quasi un fondo marino. Tutto vi scintillava e tremolava, tutto vi era felice, anche le foglie che cadevano per lasciare ai frutti l’intero sole, anche i funghi velenosi che, nei cantucci d’ombra, parevano fiori di carne.

Solo l’uomo zoppo e nero ansava di pena, aggrappato alla scala come ai suoi sogni impossibili. E l’impossibile sogno del vecchio era, in quel momento, di acciuffare il suo Cecè.

— Cecè uslìn, bello, piccolino, andiamo. Ti aspetta la tua Cicì; andiamo, su, buono, vieni.

Sì! Appena sentita la mano del padrone, il canarino sgusciò via, come un raggio di sole. Andò a posarsi sul pero, dove le foglie erano più fitte e del suo preciso colore. Ci vollero tempo e pazienza, e torcicolli e scambio di strilli tra i vecchi coniugi, per scoprirlo una seconda volta. Una seconda volta la scala fu appoggiata alla pianta, e la moglie dovè tenerla ferma perchè il marito salì fino all’ultimo scalino, e di là s’inerpicò fra i rami del pero.

— Cecè, animalaccio, mi fai dannare l’anima, dunque? Vieni, su, o ti strozzo.

Il canarino preferì salvarsi. Con salti di danza [p. 170 modifica]cambiò posto, sparì: parve caduto con le foglie che si staccavano dal pero per gli scossoni del vecchio.

— E addio! Non si vede più; maledetta tu sii, vecchia strega maledetta.

La vecchia si salvò anche lei; ma dal portico vide di nuovo, tra il verde cupo di un cespuglio di alloro, il canarino che, con le ali aperte, vi si dondolava come un girasole.

— Pino, baccalà, perchè non gli fai vedere la gabbia? Ci rientrerebbe da sè.

Ecco la gabbia in giro, con la canarina che doveva sentire il turbamento dell’ora perchè era tutta arruffata e vibrante: l’ospite, invece, ignaro del dramma, beveva dalla tazzina di latta: beveva, ma senza sete, sollevando ogni tanto la testina pelata. Aveva, in tutto, un aspetto di vecchietto, con le zampine magre, la coda corta, il colore smorto: eppure, appena il padrone sollevò con ambedue le mani la gabbia, volgendola di qua, di là, come sull’altare fa il prete con l’ostensorio, e il fuggitivo vide il nuovo venuto, qualche cosa di straordinario accadde.

Il canarino volò dall’alloro ad un piccolo susino lì accanto: non voleva arrendersi ancora, ma, certo, un impeto di gelosia vinceva già l’ebbrezza della libertà. No, non voleva arrendersi, perdere il bene trovato, la felicità dello spazio e del solo amore a sè stesso; ma quel raggiare della gabbia nel sole, con dentro il richiamo della [p. 171 modifica]compagna e la muta beffa dell’ospite, pareva gli destasse, come nelle allodole prese di mira dallo specchietto, l’allucinazione di un riverbero. Tornare? Volare? Andarsene lontano per non soffrire oltre la visione di quei due che ben presto si sarebbero consolati insieme? Per stordirsi trillò; ripetendo a sè stesso che la libertà è infinitamente più bella dell’amore; ma al suo canto rispose quello della canarina; ed allora il vecchio, accorgendosi che il fuggitivo stringeva le ali e non saltellava più, si avvicinò silenzioso. Con una mano continuò a fargli vedere la gabbia, con l’altra lo prese.

E quando lo rimise dentro, caldo di sole e di passione, per vendicarsi del patema attraversato, gli soffiò addosso, dicendogli:

— Babbalèo, non vedi che l’altro è cieco?