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stallo verde, e i meli si gonfiavano di roselline sulle quali rimaneva per tutto il giorno l’impronta dell’aurora: più bello di autunno, tutto di similoro, fragile, pronto a sciogliersi e dimostrare la sua illusoria ricchezza, ma ebbro della sua stessa illusione.

Il padrone dei canarini era, manco a dirlo, un vecchio operaio, che, nonostante la sua rassomiglianza col diavolo zoppo, aveva un cuore di bambino buono. Fabbricava manichi di scopa: li levigava, faceva loro la punta acuta più di quella di un lapis e la cima arrotondata come una testina con intorno al collo il nastrino di una incisione.

Ogni tanto andava a guardare i suoi canarini, a portar loro, con foglioline d’insalata, il tenero saluto della sua affezione. In lingua italiana li chiamava Cecè e Cicì; ma ben più efficaci erano i nomi che il suo dialetto gli suggeriva: uslìn, piccinin, strafognin, ed anche puttin.

Erano davvero i suoi bambini: li teneva con scrupolosa coscienza paterna, sempre in un clima temperato, puliti e forniti di tutto. Ogni notte, invariabilmente, sognava di loro, salvandoli dai più gravi rischi, con dolore e gioia quasi carnali: poichè, insomma, facevano parte anche della sua vita fisica e si mischiavano ai suoi sogni come alla sua realtà. Tanto che la vecchia moglie ne era gelosa, e, se non li maltrattava per naturale pietà, non si curava di loro.