La Stella Polare ed il suo viaggio avventuroso/Parte terza/10. L'inverno polare
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Capitolo X
L’inverno polare
L’inverno polare si avvicinava a grandi passi coi suoi nebbioni, le sue nevicate furiose, i suoi venti gelati, soffianti quasi costantemente dal settentrione.
Le giornate s’accorciavano sempre più, con una rapidità che sgomentava le brave guide, Canepa, Cardenti ed anche il cuoco, costretto ormai a tener sempre accesa la lampada al di sopra delle sue pentole.
In quelle latitudini elevate, il sole si mostra per la prima volta, dopo la lunga notte polare, il 12 marzo, e non compare che al mezzodì e solo per pochi minuti. S’alza tutti i giorni, aumentando la sua ascensione con tale rapidità che il 30 marzo non tramonta quasi più, limitandosi a toccare l’orizzonte alla mezzanotte per poi nuovamente ricomparire.
Durante l’equinozio d’autunno, l’astro diurno ha già ridotto la sua permanenza sopra l’orizzonte a sole dodici ore ed il 2 ottobre non si mostra che per pochi minuti, verso il mezzodì.
Dopo quell’epoca scompare per non mostrarsi nuovamente che il 2 marzo dell’anno seguente.
Però l’oscurità completa non dura che dal 29 novembre fino al 13 gennaio, oscurità che viene rotta solamente dalla luna quando il cielo non è coperto da nebbie, e dagli splendori dell’aurora boreale.
Gli esploratori che vedevano accorciarsi rapidamente le giornate ed aumentare considerevolmente il freddo, affrettavano i loro preparativi di svernamento.
Avevano di già rinforzato le tende perchè potessero resistere ai tremendi uragani di neve, che in quelle regioni durano delle settimane intere; avevano collocato a posto le stufe, preparati i loro sacconi d’inverno, raddoppiate le provviste di carbone, allestiti i recipienti destinati a fondere la neve e avevano indossate le loro vesti pesanti. Biblioteca di S. A. R. il duca degli Abruzzi a bordo della Stella Polare.
Maglie islandesi, berretti di lana o di pelle foderati di pellicce, grossi calzettoni di lana, guanti di feltro o di lana a dita riunite e che giungono fino al gomito; arrarak, che sono specie di giacche che s’infilano per la testa, secondo l’uso esquimese, fabbricate con grosso panno e fornite di cappuccio ed i polsi orlati di pelle di lupo, e stivaloni di pelle di foca o di renna con grosse calze di lana, furono messi a disposizione di tutti.
Poco dopo, le nevicate cominciarono con rabbia estrema, mentre la luce diminuiva sempre. Addio partite di caccia, addio passeggiate, addio osservazioni!
La prigionia stava per incominciare, una prigionia di tre e forse di quattro mesi ininterrotti.
Fortunatamente il Duca aveva regolate le cose in modo da bandire la noia, questo nemico pericolosissimo degli esploratori artici.
Al mattino sgombro generale della neve, che gli uragani incessanti accumulavano attorno all’accampamento; poi pulizia delle vesti e loro disgelo e pasto ai cani; quindi lavori diversi per preparare la futura spedizione; alla sera lettura, o musica, o danza, o giuochi di carte, di domino, di dama e dell’oca.
L’effetto che producevano i pezzi di musica sonati dal piano melodico sistema Racca, o cantati dal grafofano, mentre al di fuori muggiva l’uragano e la neve cadeva a larghe falde, era dei più strani.
E le arie si succedevano alle arie: Marcia reale, Bohème, Manon, Mefistofele, Cavalleria, Rigoletto, ecc., alternate a ballabili svariati.
– Gli orsi devono divertirsi anch’essi, – diceva Cardenti.
E forse non aveva torto, poichè durante quelle allegre serate non era raro di veder ronzare, nei dintorni dell’accampamento, qualche coppia d’orsi bianchi affamati.
Che amassero la musica come gli ippopotami del Nilo o che cercassero le costolette dei suonatori? Nessuno lo seppe mai dire con precisione, nemmeno il cuoco che pretendeva conoscere quei bestioni... perchè li cucinava alla perfezione!...
Non ostante quei continui lavori e quei passatempi, il freddo, che aumentava rapidamente, specie quando soffiava il vento del nord, non mancava di produrre i suoi effetti su tutti.
L’energia veniva meno, i lavori sembravano eccessivamente pesanti a tutti, ed una specie di torpore invadeva di quando in quando i membri della spedizione.
Però la temperatura si manteneva abbastanza elevata, soprattutto nella grande tenda, anzi talvolta era necessario lasciar entrare un po’ d’aria.
All’esterno invece la temperatura oscillava fra i trenta ed i quaranta gradi sotto lo zero, e quando gli esploratori erano costretti a uscire per sbarazzare la neve o per recarsi ai magazzini a far carbone, tornavano con le vesti coperte da uno strato di ghiaccio.
Era quello il momento terribile pel cuoco, poichè quelle vesti, per sgelarle, venivano senz’altro appese sopra il fornello della cucina.
Zini sagrava come un turco e protestava fieramente, gridando che la sua cucina non era un asciugatoio e nemmeno un armadio, e che le sue pentole nulla avevano da fare colle vesti, ma poi finiva in una allegra risata. Il suo buon umore non veniva mai meno.
Quando il tempo lo permetteva, gli esploratori uscivano ad ammirare gli splendori dell’aurora boreale.
Ormai la luce era completamente scomparsa e al di fuori regnava una notte così buia, da non poter distinguere un oggetto a dieci passi di distanza. Quando poi scendeva la nebbia, non si poteva nemmeno scorgere la punta del naso.
Quella cupa tenebra però di quando in quando veniva rotta dalle aurore polari. Quali splendori allora!... Quale abbondanza di luce!... Era quello lo spettacolo che più colpiva la fantasia delle guide e dei due marinai italiani.
Talvolta appariva verso ponente, vicino all’orizzonte. Cominciava con una massa luminosa formante un immenso drappo pieghettato, poi una striscia gigantesca, una specie di nastro, s’innalzava gradatamente fino allo zenit. Pareva formato d’un pulviscolo luminoso, a tinte svariate e aveva delle contrazioni rapidissime.
Dopo quel primo nastro altri ne succedevano, correndo con velocità straordinaria da ponente a levante ed invadendo tutta la volta celeste. Ora invece correvano in senso contrario, con continue vibrazioni che ferivano gli sguardi.
Le tinte cangiavano e tutti i colori dell’iride si succedevano, si trasformavano e si fondevano. Era una vera gazzarra di tutte le tinte immaginabili.
Altre volte invece si delineava un grand’arco luminoso il quale lanciava verso il cielo fasci di luce tremolanti, che impallidivano, a poco a poco, verso le loro estremità superiori.
Lo spettacolo era allora più imponente. I ghiacci riflettevano tutte le tinte, apparendo ora come immensi rubini, o topazi, o smeraldi, od opali immersi in un bagno di sangue.
Anche le nevi che coprivano l’isola scintillavano di mille colori, mentre la luna, quasi vergognosa, impallidiva tanto da non potersi quasi più discernere.
Quei fenomeni non duravano molto, ma quanta meraviglia destavano in tutti!... Il freddo non tratteneva gli esploratori sotto le tende quando si manifestavano.
Talvolta invece, se il vento del nord non soffiava troppo impetuoso e la neve non cadeva, i membri della spedizione si recavano a visitare la Stella Polare per accertarsi che le pressioni non la guastavano al punto da non poter più servirsene.
La povera nave, inclinata su di un fianco, coi suoi madieri sfondati, la sua stiva e la sala delle macchine ingombra di ghiaccio e la coperta piena di neve, offriva un ben triste spettacolo.
Pure, la sua fodera o cintura da ghiaccio che consiste in un fasciame di greenkeart, legno resistentissimo ed elastico nel tempo stesso, destinato a proteggere l’opera viva delle navi baleniere, aveva resistito vittoriosamente alle pressioni. Anche la sua prora, rivestita di travi, con traverse di puntellamento e riempita di legname in modo da formare un blocco solo dello spessore di quattro metri, non aveva sofferto.
Si era alzata gradatamente, sfuggendo alle strette dei ghiacci, ma era enormemente carica di neve gelata, tanto anzi da dover richiedere un lungo lavoro per renderla navigabile.
Ed intanto il freddo aumentava sempre e gli uragani di neve si succedevano con violenza estrema. Era stato a tutti rigorosamente proibito di toccare gli oggetti di metallo per non riportare delle scottature dolorose e di servirsi di bicchieri di vetro per non correre il pericolo di lasciare la pelle delle labbra attaccata agli orli. Perfino i cucchiai e le forchette erano state bandite dalla tavola, usando invece oggetti di legno o di corno.
Il pane aveva acquistato una durezza estrema mettendo a dura prova i denti di tutti; la carne si doveva spaccare a colpi di scure; il legno era diventato compatto come l’osso, e se non gelavano i vini ed i liquori era perchè il cuoco aveva presa l’abitudine di conservarli nel suo santuario, presso la stufa.
Le scatole di carne o di pesce conservato, di verdure sotto aceto, di frutta, dovevano prima venire sgelate per poterle rendere mangiabili.
Quantunque le stufe bruciassero incessantemente, anche sotto la grande tenda, certi giorni, la temperatura si abbassava e quando gli uomini incaricati di sbarazzare la neve che si accumulava in grandi masse attorno all’accampamento, entravano, al contatto col calore emanato dai fornelli, venivano subito avvolti in una nuvola di nebbia che poi cadeva al suolo sotto forma di nevischio.
La salute però si manteneva buona e lo scorbuto, questo terribile male che coglie quasi sempre gli esploratori polari, rimaneva lontano. Il segreto stava tutto nell’alimentazione, sana, svariata e sempre abbondante, e nelle frutta e nelle verdure somministrate a tutti senza risparmio.
Anche la noia non riusciva a far breccia. Ogni sera vi era spettacolo svariato: concerti, rappresentazioni buffe, partite accanite alle carte e discussioni scientifiche attorno ad un punch fiammeggiante o ad un the fumante.
Solamente le guide di quando in quando, provavano la nostalgia delle loro lontane montagne e non sapevano rassegnarsi a quella cupa tenebria che regnava costantemente al di fuori.
I loro vigorosi organismi soffrivano anche per quella inazione forzata. Delle settimane intere sotto la tenda, senza poter mettere il naso fuori in causa dei furiosi uragani di neve, era troppo per quei montanari. Però dobbiamo dire che non si lamentavano; tutte le loro domande non avevano che un solo scopo: sapere quando sarebbe tornato il sole per cominciare la marcia verso il polo.
Passarono però anche gli uragani ed il tempo cominciò un po’ a ristabilirsi.
Fuori perdurava sempre l’oscurità ed il freddo oscillava costantemente fra i 30° ed i 40° sotto lo zero, ma la neve si era bene rassodata ed era giunto il momento di provare le slitte ed i cani, tanto più che la luna illuminava benissimo quelle immense pianure.
I cani, che già si risentivano molto di quella lunga prigionia, non desideravano che di fare delle scorrerie attraverso le nevi.
Brave bestie!… Nansen non aveva niente esagerato a vantarle. Valevano ben di più dei cani esquimesi, specie di lupi selvatici, testardi, maligni, niente affezionati ai loro padroni.
Galoppavano splendidamente sotto le slitte, trainandole un po’ all’impazzata da principio, e senza risentire il peso. Vi era però un male; al pari dei loro confratelli groenlandesi, quando vedevano passare qualche volpe le correvano tutti addosso e vi era non poco da fare per far loro riprendere la direzione primitiva. Talvolta la lunga frusta a manico corto non bastava a richiamarli all’obbedienza.
Le loro corse indiavolate dovevano però portare sfortuna al capo della spedizione ed al suo aiutante, il capitano Cagni.
Era la vigilia di Natale. Mentre sotto la grande tenda fervevano i preparativi per la solennità che si voleva festeggiare con un lauto banchetto, brindisi, concerto, fuochi d’artificio, S. A. R. vedendo che il tempo prometteva di mantenersi bello e che la luna illuminava bene le pianure, aveva deciso di fare una corsa in islitta.
Si era unito al capitano Cagni, Querini, Cavalli, Petigaux, Fenoillet e ad un marinaio.
Le slitte erano partite di gran corsa sollevando nembi di nevischio ed i cani, sempre lieti di sgranchirsi le gambe, abbaiavano allegramente.
Dopo un lungo tragitto le slitte stavano per ritornare all’accampamento, quando scoppiò improvvisamente una così furiosa tormenta di neve da far perdere la direzione a tutti.
La neve cadeva fitta fitta turbinando, in causa del ventaccio.
Il capitano Cagni precedeva la carovana e lo seguiva subito S. A. R.
Le due guide, per non smarrirsi completamente, stavano per mandare innanzi i cani perchè richiamassero l’attenzione degli uomini rimasti all’accampamento, quando il capitano Cagni sentì improvvisamente mancare la terra sotto di sè.
I cani, nella loro pazza corsa, erano precipitati giù da un dirupo da un’altezza di sette od otto metri trascinando con loro la slitta ed il capitano.
Prima che questi avesse potuto alzarsi e dare il segnale di pericolo anche la slitta montata dal Duca precipitava e fu un vero miracolo se non gli cadde addosso.
Rimasero un momento intontiti, poi cercarono di uscire da quella specie di trappola, non avendo riportato che delle escoriazioni di poco conto.
La neve cadeva allora con rabbia estrema ed il freddo era diventato così intenso da costituire un vero pericolo. Un cane era morto, schiacciato da una delle due slitte.
Fortunatamente le guide non erano lontane e riuscirono a trarli dal cattivo passo.
Intanto gli uomini rimasti al campo, vedendo la tormenta aumentare, si erano messi in moto sonando le campane e accendendo delle fiaccole.
Quando gli esploratori giunsero alla tenda fu constatato che S. A. R. aveva il medio e l’anulare della mano sinistra congelati, e Cagni l’indice della mano destra.
Fu subito tentata, dal dottor Cavalli, la scongelazione, ma i rimedi a nulla valsero pel Duca. La carne ormai era diventata come morta ed il sangue non arrivava più fino alle estremità delle due dita.
Le due falangi furono di necessità amputate, operazione che il Duca subì con calma stoica, rimanendo a letto un solo giorno.
Ciò non impedì però che la festa di Natale fosse solennizzata con grande sfarzo: banchetto poco meno che luculliano, innaffiato da eccellenti bottiglie di champagne, musica e fuochi d’artificio.
Quanti augurii in quel giorno e quanti evviva all’Italia, al Re e alla buona Regina che, come nelle altre occasioni, si era ricordata di quei bravi marinai, regalando loro delle scatolette contenenti svariati doni di valore, sino allora gelosamente custoditi dal Duca.
Tre orsi catturati.