La Sovrana del Campo d'Oro/III
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | II | IV | ► |
CAPITOLO III
Il colpo maestro dello scrivano
S. Francisco (parliamo dell’inizio del secolo) ha una colonia cinese abbastanza numerosa, malgrado sia proibita per un ventennio l’immigrazione del popolo giallo, ed un quartiere completamente celestiale, che ha perdute le sue naturali attrattive in seguito alle troppe cure che vi hanno dedicate le autorità municipali californiane.
Ha ancora case e tempietti di stile cinese, ha le sue botteghe di orefici e d’incisori di giada; di chimici che tengono in mostra coccodrilli impagliati, ed i suoi negozi di tè; tuttavia non rappresenta più un vero lembo di terra celestiale. La troppa regolarità delle vie, le eccessive cure, l’hanno guastato.
All’estremità della baia di S. Paolo, fra le colline che la circondano, si trovano invece tre villaggi che hanno conservato il loro carattere gelosamente. Nei tempi ordinari non hanno mai più di cinquecento abitanti; invece durante la stagione della pesca, la popolazione aumenta fino al migliaio.
Gli abitanti vivono in comune e pescano in comune, ed ogni villaggio ha un capo da tutti riconosciuto e rispettato, che vive con un certo lusso e si arricchisce rapidamente alle spalle dei suoi amministrati, avendo diritto ad un reddito di cento e tredici centesimi e venti terzi sui guadagni della pesca.
Quegli abitanti vivono esclusivamente col ricavato dei granchi, che prendono in buon numero durante la buona stagione, nelle acque profonde della baia, e che vendono poi a S. Francisco.
I villaggi sono formati da misere catapecchie, coi tetti a punte arcuate, disposti un po’ a casaccio a causa della pendenza del suolo, che non fu livellato essendo durissimo, però vi regna una certa pulizia. Di notevole non hanno che gli altari dedicati al dio... granchio, la divinità protettrice della comunità, ed i cimiteri che sorgono a breve distanza e dove vengono deposti momentaneamente i morti.
Diciamo momentaneamente, poichè i cinesi a tutto si sottomettono fuorchè all’idea di venire sepolti per sempre in terra straniera, temendo che la loro povera anima si smarrisca nel regno infinito dello spazio celeste.
Cosicchè, per evitare quel pericolo, prima ancora di lasciare la patria, ogni cinese prende cura di assicurare il proprio cadavere o meglio le proprie ossa, presso compagnie speciali le quali garantiscono il ritorno in patria della salma.
Dopo tre anni, il suo cadavere, in qualunque luogo si trovi, viene esumato da incaricati speciali, chiuso in una bara o anche semplicemente in una latta da petrolio, trattandosi di sole ossa, ed imbarcato pel celeste impero. D’altronde il prezzo del trasporto è poco elevato, pagandosi due sterline per ogni latta.
Quando il Re dei Granchi, l’ingegnere e lo scrivano giunsero al villaggio, stava per calare la notte, ma il lavoro dei pescatori non era cessato.
Nelle vie tortuose, fra un numero infinito di gatti e di cani, destinati presto o tardi a finire in pentola, parecchie dozzine di celestiali semi-nudi stavano preparando veri ammassi di granchi pescati nella giornata.
Mentre alcuni li immergevano in enormi pentoloni, colmi d’acqua bollente e altri li facevano passare sotto grossi rulli di legno per sbarazzarli del guscio, alcuni vecchi li riducevano in polpa schiacciandoli entro ceste di vimini, per essere imbarcati l’indomani e portati alla colonia cinese di S. Francisco.
Il Re dei Granchi passò fra i pescatori con aria altezzosa, senza degnarsi di rispondere ai loro saluti e si fermò dinanzi ad una piattaforma su cui si ergeva un altare coperto di grossi granchi offerti alla divinità, con nel mezzo un alto vaso di bronzo.
Si levò da una tasca una fialetta contenente dell’acquavite di riso, la versò in una tazzina di porcellana, l’agitò per qualche istante con un bastoncino, poi la gettò entro il grosso vaso.
— Che cosa fate, mastro Simone? — chiese lo scrivano.
— Rendo omaggio al dio Granchio, — rispose il negro fra il serio ed il faceto. — È una cerimonia che non devo trascurare od i miei pescatori domani non avrebbero fortuna.
— E quei grossi granchi, che cosa fanno lì? Li lasceranno marcire?
— Quando tutti si saranno ritirati il sacerdote se li prenderà, le offerte spettando a lui.
— Mangia pel dio.
— Fanno meglio al suo ventre che a quello della divinità, — rispose il negro. — Ecco la mia dimora. Avete paura d’entrare?
— No, — disse lo scrivano, rispondendo anche pel giovane ingegnere, che era sempre muto e pensieroso.
L’abitazione del Re dei Granchi non era una informe bicocca, come quelle dei poveri pescatori. Era invece una elegante casetta a due piani, di puro stile cinese, con doppi tetti a punte arcuate e sormontata da una torricella di legno, colle grondaie adorne di campanellini.
Introdusse i due californiani in un salotto a pianterreno, col pavimento lucido, ammobiliato semplicemente, ma nello stesso tempo elegantemente, con leggeri tavolini laccati pieni di mostriciattoli di bronzo e d’avorio e di bottigliette di cristallo di forme strane ed a vari colori, con sedie di bambù e paraventi ricamati in madreperla.
— Signor Harris, — disse volgendosi verso l’ingegnere, mentre empiva alcuni bicchieri d’un liquore colore dell’ambra, — volete che parliamo dell’asta?
L’ingegnere si passò una mano sulla fronte e si guardò intorno, come se fosse stupito di trovarsi in quel luogo. Pareva che si fosse svegliato in quel momento da un lungo sogno.
— Di miss Annie? — chiese con voce alterata.
— Sì, signor Harris. Sapete perchè vi ho pregato di venire qui?
— Non lo so.
— Per persuadervi dell’inutilità dei vostri sforzi e convincervi che poi perderete la battaglia.
— Che cosa ne sapete voi?
Il negro s’accostò ad una parete e mostrò un enorme cofano di legno cerchiato in ferro, coperto di caratteri cinesi.
— Qui dentro, — disse, — vi è l’eredità lasciatami da Kami, la vedova Regina dei Granchi, che io ho sposata e che è morta sei mesi or sono. Guardate un po’, signor Harris, se voi possedete tanto da potervi misurare con me all’asta di domani.
Si levò dalla fascia una chiave minuscola, aprì il cofano e, staccando la lampada che stava su un tavolino, mostrò ai due giovani una massa d’oro, in verghe, d’un valore certo enorme.
— Vi sono qui dei milioni, — disse il negro. — Ne possedete tanti, signor Harris? O vi date per vinto?
L’ingegnere alzò sul rivale, uno sguardo cupo, poi fece un gesto come per estrarre dalla tasca qualche cosa, ma lo scrivano, che lo sorvegliava fu pronto ad afferrargli il pugno stringendolo con suprema energia.
Il negro, che essendosi in quel momento voltato per riattizzare la lampada, non si era avveduto di quella mossa, riprese:
— Signor Harris, volete che facciamo un patto? Voi solo siete l’unico rivale pericoloso, perchè nessuno aggiungerà un centesimo ai centomila dollari che avete offerti per avere miss Clayfert. Rinunciate all’asta, ritiratevi ed io vi offrirò metà delle ricchezze lasciatemi dalla defunta Regina dei Granchi. Io voglio assolutamente quella fanciulla, e nessun pericolo, nessun ostacolo, mi tratterrà dal diventare suo sposo.
— Voi mi prendete per un miserabile affamato d’oro, mastro Simone! — gridò il giovane, con voce rotta pel furore che lo soffocava.
— Rifiutate? — chiese il negro con accento calmo.
— E ve la disputerò accanitamente.
Una vaga inquietudine comparve sul viso del Re dei Granchi.
— Sareste più ricco di quello che mi hanno riferito le mie spie? — chiese.
— Lo saprete domani. Signor Blunt, usciamo da qui od io scoppio.
Lo scrivano, il quale temeva che il colloquio terminasse a colpi di rivoltella, tanto era l’esasperazione del giovane ingegnere, fu lesto ad aprire la porta ed a spingerlo fuori.
— Ve ne andate? — chiese il negro.
— Sì, per non uccidervi, — rispose Harris.
— Potete servirvi della mia scialuppa. I miei uomini sono avvertiti e noi, signor Harris, ci rivedremo domani.
— Ti cogliesse questa notte il colera, — brontolò lo scrivano, scendendo i sentieri che conducevano al mare. — Approfitteremo però della sua imbarcazione, è vero, signor Harris? La via è lunga e non giungeremmo a S. Francisco prima della mezzanotte colle nostre sole gambe.
L’ingegnere fece col capo un cenno affermativo.
I quattro negri che formavano l’equipaggio, dovevano aver ricevuto l’ordine di ricondurli, poichè appena videro riapparire i due bianchi, s’alzarono salutandoli cortesemente, e si prepararono a prendere il largo.
— A S. Francisco, — disse lo scrivano, salendo sulla scialuppa e mettendosi a prora, dove già l’ingegnere erasi seduto.
— Sì, massa, — rispose il macchinista.
L’imbarcazione si staccò dalla riva e partì veloce come una freccia, dirigendosi verso l’imboccatura della baia di S. Pablo.
L’ingegnere non aveva più aperto bocca. Coi gomiti appoggiati sulle ginocchia e la testa stretta fra le mani, pareva che meditasse profondamente.
Lo scrivano aveva acceso un pezzo di sigaro e contava e ricontava sulle dita, occupato, a quanto sembrava, in un calcolo molto difficile. Il bravo giovane non sembrava però che fosse di cattivo umore, anzi, di quando in quando rialzava la testa e si lisciava con una certa compiacenza i baffetti irsuti e slavati, mentre un sorriso appariva sulla sua larga bocca.
— Bene, — disse ad un tratto. — Il piano di guerra è fatto. Un generale dello stato maggiore non sarebbe stato capace di tanto, ve lo assicuro, signor Harris.
L’ingegnere aveva abbassate le mani ed aveva guardato il giovane.
— Di quale piano di guerra parlate, signor Blunt? — gli chiese.
— Signor Harris, — disse lo scrivano accostandogli la bocca ad un orecchio, — non preoccupatevi e tornate allegro. Vi prometto di fare un bel tiro a quella pelle negra. Domani, all’asta, non avrete più quel competitore.
— Vorreste ucciderlo?
— Oh no!... Non desidero affatto aver da fare colla polizia; vi ripeto però che mastro Simone non comparirà domani nella sala del Club Femminile.
— Spiegatevi meglio.
— Lasciate che serbi il mio segreto, per ora. Accompagnatemi dal notaio, poi lasciatemi libero. Devo andare a trovare un mio amico farmacista...
— Non venite con me a Cartown?
— Giungeremo troppo tardi per poter essere ricevuti da miss Annie; questi negri hanno rallentata la marcia, e certo per ordine del padrone. Non saremo a S. Francisco prima di mezzanotte.... Ah!... Diavolo! Ed il notaio? Non avevo pensato a ciò e dovrò attendere fino a domani mattina per incassare i miei ventimila dollari, mentre questa sera avrei bisogno...
— Vi occorre del denaro, Blunt? Parlate liberamente.
— Una ventina di dollari almeno.
L’ingegnere aprì il portafoglio e levò un biglietto da cento.
— Prendete, Blunt, meglio averne di più che di meno. Se non vi bastassero, venite a casa mia.
— Ne ho ad esuberanza, — rispose il bravo giovane, arrossendo. — Ve ne darò diciannovemila e novecento domani, quantunque sia certo che nessuno si presenterà a lottare con voi.
— Ci sarà quel negro, — disse l’ingegnere con voce triste.
— No, ve l’assicuro.
— Spiegatemi il vostro piano, dunque.
— A domani e fidatevi di me, signor Harris. Dovesse essere quel dannato negro anche il diavolo, non sfuggirebbe al tranello che gli preparerò io. Ora silenzio e aspettate domani, tranquillo e sicuro della vostra vittoria.
La scialuppa che aveva sempre rallentato, come aveva previsto lo scrivano, non giunse a S. Francisco che un quarto d’ora prima della mezzanotte, troppo tardi ormai per recarsi dal notaio e soprattutto a Cartown.
I due giovani cenarono insieme in un bar, poi verso l’una si separarono dandosi appuntamento per l’indomani al Club Femminile.
Mancava mezz’ora all’apertura della sala del Club, quando Harry Blunt comparve fra la folla che si stipava dinanzi al palazzo, in attesa che l’emozionante asta venisse dichiarata riaperta.
Il giovanotto era irriconoscibile. Aveva gettati i suoi vestiti logori e si pavoneggiava in un bel costume da marinaio, di grosso panno azzurro cupo, con tanto di fascia rossa che gli saliva fino a mezzo petto e si era piantato sul capo un berretto da mozzo con un mezzo fiocco nel centro, assai vistoso.
Calzava poi stivali da mare, come se dovesse da un momento all’altro imbarcarsi su una delle tante navi che ingombravano la baia e teneva fra le labbra un grosso sigaro cubano che fumava con visibile soddisfazione.
Era seguito da due negri, vestiti anch’essi decentemente, e che dall’aspetto sembravano due facchini del porto in abiti da festa, che fumavano anch’essi dei Cuba.
Il giovanotto, dopo essere sgusciato fra la folla, si era fermato dinanzi ad una taverna di bell’aspetto, che rigurgitava di bevitori, in attesa forse che si aprisse il salone del Club Femminile.
Si trovava colà da cinque o sei minuti, quando uno dei due negri gli disse:
— Eccolo, massa.
Lo scrivano si era voltato vivamente. Sull’angolo della via era comparso mastro Simone, il Re dei Granchi, nel suo bizzarro costume di celestiale, seguìto da due cinesi, certo suoi sudditi.
Un sorriso di compiacenza era comparso sulle labbra del bravo giovane. Sprofondò le mani nelle tasche e mosse verso il Re dei Granchi, dicendogli con aria d’uomo annoiato:
— Giungete per tempo, mastro Simone. Ne avremo per un’ora ancora.
— Ah! Siete voi! — esclamò il negro che l’aveva subito riconosciuto. — Come sta il vostro amico? E’ sempre risoluto a lottare con me?
— Mi pare che abbia rinunciato alla sua idea, dopo che gli avete mostrato il tesoro della Regina dei Granchi. Io ho cercato di persuaderlo che sarebbe stato inutile ostinarsi, non avendo ricchezze tali da competere colle vostre. Il fatto è che non l’ho ancora veduto giungere, quantunque mi avesse pregato di aspettarlo in questo bar e di condurvi anche voi.
— Che cosa vuole da me? — chiese il negro, un po’ sorpreso.
— Io credo voglia farvi qualche proposta.
— Poteva farmela ieri sera.
— Era troppo irritato.
— Me n’ero accorto, — rispose il Re dei Granchi, mostrando una dentatura da caimano.
— Mastro Simone, accettate un bicchiere di gin?
— Anche una pinta, se vorrete.
— Venite dunque. Ah!... Sono con due amici, che pretendono di essere anche amici vostri.
I due negri che lo avevano seguìto si erano fatti innanzi.
— Sam e Zim, — disse il Re dei Granchi, tendendo loro la mano. — Abbiamo lavorato insieme sulle calate del porto.
— E’ vero, — risposero i due negri.
— Ebbene, andiamo a vuotare una pinta, — disse lo scrivano. Vi offro il bicchiere della partenza.
— Siete voi che partite? — chiese mastro Simone.
— Sì, questa sera salpo per l’Australia.
Entrarono nel bar, che come abbiamo detto, era affollato e si sedettero ad un tavolo che avevano trovato libero.
Lo scrivano ordinò due bottiglie del migliore gin, poi fece il giro della sala fingendo di cercare l’ingegnere.
— Non è ancora venuto, — disse, sedendosi presso il Re dei Granchi che aveva già empiti i bicchieri. — E’ bensì vero che ne abbiamo per un’ora, prima dell’apertura dell’asta. Orsù, beviamo e scacciamo la noia.
I negri, grandi bevitori, specialmente di forti bibite, non si erano fatti pregare e anche i due cinesi che accompagnavano il Re dei Granchi avevano attaccate le due bottiglie con molta lena.
Non erano trascorsi dieci minuti che altre due bottiglie, e questa volta di whisky, avevano surrogate le prime. Cominciavano ad essere tutti allegri, eccettuato lo scrivano, il quale fingeva di bere ingoiando solo qualche goccia di quegli ardenti liquori.
Ad un tratto estrasse un porta sigari di tartaruga che era pieno di Cuba e ne offerse al Re dei Granchi ed ai suoi due cinesi, dicendo:
— Me li ha regalati un capitano messicano giunto stamane da San Diego, che mi ha assicurato non trovarsene di eguali nemmeno all’Avana. Servitevi liberamente: ne ho due cassette a casa mia.
Mastro Simone ne prese uno e l’accese, tosto imitato dagli altri, e siccome anche il whisky era finito, comandò dei grogs per snebbiare un po’ i cervelli che cominciavano ad offuscarsi.
Avevano appena vuotate le tazze, quando si vide il Re dei Granchi lasciarsi sfuggire il sigaro e rovesciarsi sulla spalliera della sedia, come se una improvvisa ebbrezza lo avesse colto.
— Ohe, mastro Simone, — disse lo scrivano, fingendosi spaventato. — Che pessimo bevitore siete voi!
— Lasciatelo dormire un quarto d’ora, massa, — disse uno dei due negri. — L’asta non è ancora cominciata ed al momento opportuno lo sveglieremo.
— E vuotiamo un’altra bottiglia, — disse uno dei due cinesi.
— Sì, di ginepro, — rispose Blunt, sorridendo. — Il padrone del bar ne ha di quelle che si pagano due dollari l’una, ma che non si bevono nemmeno a Nuova York.
Quando la bottiglia giunse, i due cinesi dormivano al pari del Re dei Granchi ed i due negri facevano degli sforzi supremi per tenere aperti gli occhi.
— Eccoli smontati, — mormorò lo scrivano, stropicciandosi le mani.
Fece sturare il ginepro, quantunque ormai non vi fosse più alcun bevitore. Anche i due facchini avevano finito per addormentarsi.
Blunt chiamò il cameriere che lo aveva servito e mettendogli in mano due biglietti da dieci dollari, gli disse:
— Uno per le bottiglie, l’altro per te, purchè lasci dormire in pace questi ubriachi. D’altronde non ti daranno alcun fastidio.
— Non li disturberò, — rispose il garzone.
— Ed ora, — disse lo scrivano, — vedremo se quel furfante di Simone verrà a disputare miss Annie al signor Harris. Quando si sveglierà noi saremo a Cartown.
E si lanciò fuori del bar che era ormai vuoto, essendo già l’asta cominciata. Quando giunse nella sala del Club Femminile, dovette faticare non poco ad aprirsi il passo, tanta era la folla che si pigiava là dentro.
Si era appena inoltrato di qualche diecina di passi, quando udì il notaio gridare:
— Centomila dollari per la terza!...
Nessuno aveva risposto.
— La terza!... — ripetè il notaio. — L’asta è chiusa. Miss Annie appartiene al signor Harris.
Un urràh fragoroso rimbombò nella sala e durò qualche minuto, poi la folla si rovesciò attraverso le numerose porte che erano state spalancate.
Harry Blunt, col viso raggiante, si era precipitato verso il palco su cui aveva scorto l’ingegnere assieme al notaio.
— Signor Harris! — gridò. — Vittoria!... Vittoria!...
L’ingegnere, con un salto, era sceso giù dal palco, gettando le braccia al collo del bravo giovane.
— A voi devo la mia felicità! — esclamò con voce rotta.
— O meglio all’oppio, — rispose lo scrivano, ridendo.
— E mastro Simone?
— Dorme come un orso grigio, ma faremo bene ad andarcene alla lesta. Quel furfante è capace di farmi la pelle. E miss Annie?
— È già partita per Cartown dove mi aspetta. Venite, Blunt!... Ho la mia carrozza sulla piazza.
— Vi seguo, signor Harris.