La Regaldina/VII
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VII.
Era trascorso da poco tempo il giorno dei morti e sul largo viale che conduce al cimitero, la schiera dei devoti cominciava a diradare il quotidiano pellegrinaggio.
Ippolito se ne tornava solo dall’aver visitata la tomba della madre. Cogli anni il suo dolore aveva acquistata quella dolcezza ineffabile che invita a trattenersi volentieri col pensiero dei cari estinti; e a lui questa dolcezza tornava più soave ancora per la fusione di un altro pensiero fatto ormai suo compagno indivisibile.
Alla sua vita, così povera di gioie, era bastata fino ad ora l’ebbrezza ideale di un amore nutrito in segreto; ma col progredire della passione crescevano i desiderii e gli era penoso quel dover tacere sempre e quasi nascondersi agli occhi di colei che egli amava. D’altra parte, come spiegarsi? E a qual pro? La sua misera condizione non gli permetteva di creare una famiglia; la sua giusta dignità d’uomo gli faceva uno scrupolo di associare altri esseri alla sua povertà. Lo stesso suo carattere inchinevole alla mestizia lo rendeva diffidente di sè stesso, quasi pauroso dell’avvenire.
Quante volte egli si era proposto questo problema: Posso prendere una compagna? — E tutte le volte, dopo lunghe lotte con sè stesso, la conclusione era stata sempre la stessa, inesorabile: No.
Egli invidiava qualche volta la spensierata gaiezza dei giovani, che vanno leggermente incontro all’amore, come i fanciulli van dietro alle farfalle. Ma dell’amore egli aveva un troppo alto concetto, e la forza stessa del sentimento lo paralizzava.
Tuttavia nel cuore accarezzava suo malgrado la dolce speranza; egli voleva pure battere a tutte le porte prima di darsi per vinto. Chi sa? — Forse con un lavoro assiduo, con una economia rigorosa, che gli permettesse di mettere da parte una certa somma, avrebbe potuto aspirare a una posizione migliore, e allora....
Tale lontana lusinga lo cullava quella sera più del consueto. Fissando lo sguardo sulla catena di monti, che cinge l’orizzonte dietro al cimitero, gli parve venisse da quello spazio di cielo una più ampia speranza; si sentiva quasi felice.
Giunto alla sua casetta, chiese della sorella; Matilde non c’era.
Non poteva essere dai Regaldi, perchè la zia e la nipote dovevano appunto quella sera assentarsi, però il caso non era tanto strano da sorprendere Ippolito; egli pensò alla signora Luigia, o a qualche altra vicina, e siccome aveva del lavoro d’ufficio molto urgente, accese la lucernetta, e si pose a scrivere.
Vicino a lui due figure di donna gli sorridevano; quelle due figure che lo accompagnavano sempre, che gli parlavano, l’una colla dolcezza dei ricordi, l’altra colla soavità della speranza. E vedeva il serio profilo della madre allontanarsi tratto tratto, quasi per lasciarlo più solo nell’ebbrezza del suo casto amore, e sentiva due labbra innocenti rispondere al bacio, che gli tremava sulle labbra.
— La signorina non è ancora rientrata; disse affacciandosi all’uscio la vecchia domestica.
Ippolito arrossì, confuso di essersi lasciato cogliere in un momento di debolezza.
— Non è andata dalla signora Luigina?
— Non credo, perchè ho visto poco fa la signora Luigina che tornava dalla benedizione.
I sogni rosei svanirono d’un tratto. Un pensiero inquieto corrugò la fronte del giovine.
— E non sapete dove possa essere?
La vecchia si strinse nelle spalle e atteggiò il volto a un sorriso ambiguo, che finì di togliere a Ippolito ogni calma.
La domestica non si moveva dalla soglia; pareva volesse dire qualcos’altro, ma aspettasse di essere interrogata.
— È strano! — mormorò Ippolito.
Allora ella si attaccò a questa esclamazione per aggiungere:
— Non tanto strano.
— Come?
Padrone e domestica si avvicinarono con un movimento simultaneo.
— La signorina è scomparsa tante altre sere, quando lei scriveva nella sua camera....
In un minuto Ippolito si rifece padrone e freddamente interruppe:
— Basta. Mia sorella può assentarsi come e quando le piace; non le mancano amiche nel paese. Anzi penso ora, ch’ella m’aveva parlato della figlia del dottore; è là certamente.
Si levò in piedi, asciugò la penna, chiuse e riunì le sue carte; una macchia di inchiostro era caduta fresca fresca sul tappeto del tavolo; egli stracciò un pezzetto di carta assorbente e ne tolse la parte più grossa. Sembrava perfettamente tranquillo.
Disse alla domestica di non ispegnere la lucerna perchè tornava subito, essendo il dottore a due passi. Calcò il cappello in testa e uscì.
In fondo alla corte, la porticina del giardino era aperta, e sul sentiero bianco, battuto dalla luna un’ombra di uomo si allontanava strisciando contro la siepe; Matilde veniva avanti adagino, colla testa bassa.
— Matilde!
Ella si fermò di botto tentando nascondersi, ma il giovine la raggiunse e prendendola per un braccio ripetè:
— Matilde!
Non aveva voce; quel nome gli uscì strozzato dall’ugola. Lei fu più forte.
— Sei già tornato? chiese fingendo indifferenza.
— E tu dove sei stata?
— Lo vedi; in giardino.
— A quest’ora?
— Gusti!
Era coperta da uno sciallo nero, che le nascondeva la faccia.
Ippolito le prese la mano e se la pose sotto il braccio — tremava leggermente.
— Le sere incominciano a farsi fredde — disse lei.
Lui non rispose: tanta audacia lo confondeva.
La domestica, che aveva udito le loro voci, si fece sulla porta con un lume in mano.
— Andate pure a letto: disse Ippolito.
Entrarono nel salottino, dove ardeva ancora la lucerna. Matilde si gettò in una poltroncina, sempre ravvolta nel suo scialle, col volto sprofondato sul petto, immobile.
Ippolito fece qualche passo intorno al tavolo, si fermò, tentò due o tre volte di parlare, ma sentiva quel nodo nella strozza; finalmente prese coraggio dal suo stesso dovere, sedette accanto alla sorella e con accento dolce, con tenerezza di padre mista all’indulgenza d’un amico:
— Eri sola in giardino? — chiese.
Un lungo silenzio precedette la risposta di Matilde, che non fu poi una risposta.
— Che te ne importa?
— Dimmi qualunque cosa, Matilde, ma non chiedere che cosa mi importa di te. Ho io bisogno di ripetere che ti considero, più che sorella, figlia mia? Quante volte ho desiderato di poterti ispirare quella fiducia, che fonde due cuori in un cuor solo?
— I nostri caratteri sono troppo opposti; non mi puoi comprendere.
— C’è l’affetto che fa comprendere tutto.
— Allora mettilo alla prova.
Ella parlava con durezza, conoscendo la timidità del fratello, trovandosi molto contrariata dall’andamento grave del dialogo, sperando di stancarlo colle sue risposte brusche.
— Senti, Matilde, parliamoci come se ci fosse presente la nostra povera mamma. Io faccio per te quello che posso; ti sarò sempre appoggio, conforto, difesa nell’orfana vita che ti ha preparata il destino; io rinuncio per te ad ogni sogno giovanile, io sono disposto a qualunque sacrificio, ma ho bisogno della tua confidenza. Se mai, un giorno, il mio affetto non ti bastasse più, se altro orizzonte si schiudesse ai tuoi pensieri, Matilde, sii sincera col tuo unico fratello, colla sola persona, forse, che ti ama profondamente.
Il respiro di Matilde, un po’ ansante, tradiva una forte emozione; teneva ostinatamente la testa abbassata ma un tremito l’agitava tutta. Ippolito confermandosi nel sospetto e sentendo crescere co’ suoi doveri i suoi diritti le si avvicinò più ancora, tanto da prenderle le mani e tenerle ferme sui suoi ginocchi.
— Tu soffri, mi nascondi qualche cosa; oh! vorrei avere la penetrazione e la delicatezza di una donna per indovinare il tuo segreto. In questo momento, Matilde, vorrei essere tua madre! Ma guardami, parla, tu piangi?...
Sì, Matilde piangeva vinta dalla dolcezza del fratello, incapace di dominarsi più a lungo. Lo scialle scivolato per terra, lasciava scoperta la sua faccia orribilmente pallida, solcata intorno agli occhi da due cerchi bruni. Il suo pianto era così disperato, così violento, che Ippolito la prese fra le braccia; ma ella si svincolò e, volgendosi verso il muro, coperse col fazzoletto la bocca fatta umida.
— Dio mio che avvenne?
Ippolito gelato dal terrore, prese la lucerna e l’avvicinò al volto della sorella; i loro sguardi si incontrarono e nel raggio di quelle pupille sofferenti gli si svelò il triste mistero.
— Matilde, Matilde, che hai tu fatto?
Cadde, come fulminato. Lei esaltata, gli si prostrò ai ginocchi singhiozzando come una pazza, abbandonandosi a tutte le violenze del suo temperamento nervoso.
Ma per lungo tempo Ippolito non diede segno di vita; accasciato colla fronte fra le mani sembrava impietrito dal dolore. Quando sollevò la faccia torse istintivamente gli sguardi dalla sorella; ella se ne accorse e riprese a singhiozzare più forte. Tutta la sua baldanza era dileguata.
— Perdonami, perdonami! — gemeva stringendosi a lui, sentendo in quel momento la propria debolezza.
Perdonarle! Non era di perdono ch’egli avrebbe voluto mostrarsi generoso. Non c’era nessuna ira in lui, nessun pensiero di vendetta. Era preso da un dolore immenso e senza nome.
Non le disse nulla, non le fece alcun rimprovero, non si lagnò, non maledì; ma il suo silenzio angoscioso parlava più che qualunque espressione. Un momento solo, nella fiera tempesta del suo animo, Ippolito vide passare come una meteora luminosa le due care visioni che egli amava, e allora una lagrima non vista cadde anche dai suoi occhi, bruciandogli le guancie.
— Ippolito, Ippolito, dimmi qualche cosa!
Era lei che voleva parlare; era lei che si faceva umile, dolce; era lei che pregava. Parole sconnesse uscirono dalle sue labbra miste ai singhiozzi; era sempre in ginocchio, per terra, colla fronte china sulle mani del fratello.
Ippolito, scuotendosi e tornando in sè come uno che caduto fieramente riprende i sensi, vide quella non più fanciulla, ma donna, prostrata davanti a lui e si sentì invaso da una profonda compassione. La rialzò, spingendola dolcemente sulla poltroncina e facendo uno sforzo supremo:
— Chi è? — disse: non altro.
In quella scena muta, terribilmente espressiva, si intendevano quasi senza parlare. Nella grande delicatezza del suo cuore Ippolito aveva evitato tutte le spiegazioni, tutti i dettagli inutili, che non avrebbero servito ad altro che a far crescere il rossore sulla fronte d’entrambi. Ma questa domanda breve, decisiva, egli non poteva ometterla: chi è?
Matilde esitò, e solamente dopo la seconda interrogazione rispose a voce bassa:
— Rodolfo Regaldi.
Anche allora Ippolito non fece interrogazione di sorta. Il come, il quando, il perchè erano questioni secondarie, che scomparivano davanti all’importanza enorme del fatto.
— Il peggio — soggiunse Matilde mordendo un lembo del suo scialle — è che egli non può sposarmi subito.
Ippolito balzò in piedi, livido.
— Non può?... lo deve e lo farà!
La sua fisionomia di giovine timido era trasfigurata; gli ardeva negli occhi una fiamma.
Matilde ebbe paura.
— Calmati — disse — usiamo prudenza; se la Tatta se ne accorgesse, se Daria....
Questo nome dolcissimo caduto in mezzo a tanta procella risvegliò più acuto in Ippolito il senso del dolore, ma valse pure a frenare lo sdegno. Riprese in un momento la sua corazza di impassibilità e osservando che l’ora della notte era molto avanzata, consigliò Matilde di andarsi a riposare.
Il loro saluto fu mesto assai; nè Ippolito rimasto solo pensò a coricarsi, che troppo affanno gli stringeva il cuore. Stette lì su quella medesima sedia, a quello stesso tavolo dove poche ore prima gli era parso di essere felice; vi stette finchè i primi bagliori dell’alba, facendo impallidire la fiamma della lucerna, lo avvertirono che era tempo di mettersi all’opera.