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— Ippolito! gridò la fanciulla.
Un giovine vestito di nero si affacciò, restando ritto sulla soglia, cogli occhi asciutti, colla fronte spazzata dal vento, che gli sollevava i capelli mettendo in piena luce un volto freddo, coperto sulle labbra e sul mento da una lanuggine bionda.
— Ippolito! Ippolito mio!
C’era una stonatura fra le parole e l’accento; la Tatta che non aveva certo imparata sui libri la fisiologia del cuore umano, ma che la capiva per istinto, l’avvertì subito e piegò il labbro ad un sorriso sardonico.
Il giovine non si mosse e non disse nulla; ricambiò automaticamente l’abbraccio della sorella, che, staccatasi da lui, corse verso la Tatta, decisa questa volta a seguirla.
La domestica le accompagnò giù della scala col lume in mano, vacillante ad ogni soffio di vento.
— Misericordia che brutta notte!
Matilde sulla soglia pensò che aveva dimenticato il fazzolettino. Rifece la scala e andò a prendere la sua pezzuola, tremando un poco, guardando paurosamente l’uscio della camera, dove stava la madre morta, senza avere il coraggio di entrare a darle l’ultimo bacio.
— Metta il cappuccio, signorina! — gridò la serva stando abbasso. — È un tempo da lupi.