La Pelarina/Nota storica

Nota storica

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Parte III

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NOTA STORICA

Dal dramma pastorale una vena di riso comico penetrò naturalmente nel melodramma del Seicento, sia in quello di genere eroico o mitologico, sia in quello romanzesco, nelle scene del satiro e in quelle dei servi (Belloni, Il Seicento, Milano, 1899, pag. 322 e sgg.). Di gran lunga più importanti e più caratteristiche le ultime, che nei teatri musicali di Venezia si svolgono per lo più alla fine degli atti e tendono a rendersi indipendenti dall’opera seria, a guisa d’intermezzi (Belloni cit; inoltre v. D’Arienzo, Origini dell’Opera Comica, in Rivista Musicale Italiana, vol. II, 1893, pag. 613; e T. Wiel, prefazione ai Teatri musicali veneziani del Settecento, Venezia, 1897, pag. XXI; e F. Piovano, Baldassare Galuppi, in Rivista Musicale Italiana, a. XIII, 1906, fase. 4, pag. 678; e specialmente A. Della Corte, L’Opera Comica Italiana nel ’700, Bari, 1923, vol. I, pag. 13 e sgg., il quale tien conto degli studi del Kretzschmar, Die venetianische Oper und die Werke Cavalli’s uni Cesti’s, in Vierteljahrschrift für Musikwissenschaft, 1892 ecc. A Napoli vedi M. Scherillo, L’Opera Buffa Napoletana ecc., nuova ed. in Collezione Settecentesca, Palermo, 1916, pag. 28 e sgg.; e B. Croce, I Teatri di Napoli, Napoli, 1891, pp. 298-299).

Diffusissimo e frequentissimo è l’uso degli intermedi negli spettacoli teatrali. Uno dei più antichi ricordi trovasi in una lettera d’Isabella Gonzaga, che descrivendo le feste alla Corte di Ferrara per le nozze di Alfonso con Lucrezia Borgia nel carnevale del 1302, confessa d’essersi annoiata alla recita dell’Epidico plautino: “ma le moresche che fra li atti furono fatte, comparsero molto bene et cum grande galanteria”. Queste azioni spettacolose che s’introducevano fra un atto e l’altro delle commedie, erano accompagnate da canti e suoni e spesso da balli. Anche l’Eunuco, nel 1499, fu intramezzato da melodie. In Ispagna gli entremeses che si recitavano fra i vari atti delle comedias furono brevi farse popolari con musica e danza, e ne compose con molta vivacità lo stesso Cervantes; e farsette erano pure i pasos, o passaggi, di Lope de Rueda.

Ma in Italia, e propriamente a Firenze dov’era nato il melodramma, troviamo fin dal 1637 una vera commedia musicale od opera buffa, il Podestà di Colognole di Gio. Andrea Moniglia, musicato da Iacopo Melani, con cui s’inaugurò il famoso Teatro degli Immobili in via della Pergola (v. spec. Ademollo, I primi fasti del Teatro di Via della Pergola, Milano 1885): se vogliamo passare in silenzio l'Amfiparnaso “comedia harmonica” del modenese Orazio Vecchi, stampato nel 1597 (v. spec. Scherillo, 1. c., pp. 5-15) e la “comedia” Chi soffre speri di mons. Giulio Rospigliosi, rappresentata a Roma nel 1639 (Ademollo, I teatri di Roma nel sec. XVII, Roma, 1888, cap. III). Del Moniglia, archiatro del duca Cosimo III, ricordiamo pure, con musica del Melani, il Pazzo per forza (1658), il Vecchio burlato (1659), la Serva nobile (1660), Amore vuol ingegno (1662) ed altri drammi buffi e intermezzi stampati nelle tre parti delle sue Poesie drammatiche, (1689-1690: Isid. Carini, L’Arcadia dal 1690 al 1890, vol. I, Roma, 1891, pp. 553-565 e Allacci, Drammaturgia, ed. accresciuta, Venezia, 1755. Vedi G. Pavan, Serie cronologica delle opere rappresentale al Teatro degli Immobili ecc., [p. 52 modifica]Milano, Ricordi, 1901 e Janro [G. Piccini], Storia aneddotica dei teatri fiorentini: I. Il teatro della Pergola, Firenze, 1912). - Nel 1670 si recitò a Firenze il fortunato Girello dell’Acciaiuoli, ancora con musica del Melani (Ademollo, 1. c., pp. 121-2). Così di Giovan Cosimo Villifranchi volterrano si rappresentarono nella celebre villa di Pratolino, e altrove, la Serva favorita (1669), l’Ipocondriaco (1695), lo Speziale in villa, il Finto chimico ed altri drammi giocosi (Carini, l. c., 488-490 e Allacci). Lo stesso poeta, lettore di filosofìa e medicina a Pisa e a Firenze, cavò dalla popolare commedia di G. B. Ricciardi, Trespolo tutore, una burletta per musica. Nè si può tacere, negli ultimi tre lustri del Seicento, Girolamo Gigli di Siena, buffonesco sempre anche nei drammi in apparenza più seri. Nè si deve tacere Francesco Sbarra di Lucca, che fin dalla metà di quel secolo scrìsse intermezzi comici, forse sull’esempio del teatro spagnuolo, e un dramma giocoso nel 1667, le Disgrazie d’amore (G. Sforza, F. Sbarra ed i suoi drammi per musica, in Gazzetta letteraria, Torino, 1890, num. 34-35). E a Bologna non si udirono forse fin dal 1610 gl’intermezzi "affatto giocosi" di Luitprando Pochettini e nel 1664 lo "scherzo drammatico"di Lod. Cortesi, Amore vuol gioventù, musicato da G. B. Mariani e già recitato a Viterbo nel 1659? Ricorderò ancora nel 1661 i famosi Diporti d’amore in villa di Anton Maria Monti, musicati dal Laurenti; e nel 1696 Gl’inganni amorosi scoperti in villa di Lelio Maria Landi, musicati da Giuseppe Aldrovandini, perchè di genere rusticale. (Vedasi per tutti Ricci, I teatri di Bologna ecc., Bologna, 1888 e per gli ultimi C. G. Sarti, Il teatro dialettale bolognese, Bologna, 1895, cap. II).

Ma pur troppo nè codesto copioso e disordinato materiale de’ teatri di musica del secolo decimosettimo, nè quello dei teatri di prosa, fu studiato finora compiutamente; e l’articolo citato del D’Arìenzo sulle Origini dell’Opera comica offre poco di ciò che promette. Possiamo tuttavia affermare con sicurezza che la commedia musicale rappresenta nel Seicento un’eccezione: manca infatti ancora la vera commedia in Italia. A Venezia, la capitale nel Seicento del melodramma, accanto al genere mitologico, eroico, pastorale, romanzesco, manca il genere prettamente comico: anzi negli ultimi decenni del secolo vi si nota la tendenza a rendere più severa l’azione frenando e comprìmendo l’elemento comico, finchè Apostolo Zeno lo sbandì del tutto (Ortolani, Settecento ecc., pag. 376: v. Bel Ioni, 1. c., 329 e 331-332 e Wiel, l. c.; cfr. poi L. Pistorelli, I melodrammi di Ap. Zeno, Padova, 1894, pp. 48-49 e D.r Max Fehr, A. Zeno und seine Reform des Operntextes, Zurich, 1912). Forse la stessa riforma dello Zeno, che ha inizio nel 1695, contribuì nel principio del nuovo secolo, come avverte Della Corte, alla diffusione se non alla creazione dell’intermezzo (l. c., vol. I, pag. 26).

Nei teatri veneziani, almeno sulla fine del Seicento e nei primissimi anni del Settecento, le opere serie erano intramezzate e terminate da balletti, talora di genere buffo. Soltanto nel 1706 nel teatro di Sant’Angelo incontriamo, per gli intermezzi, due farsette musicali che ci fanno ricordare gli entremeses dei vecchi teatri madrileni. Notiamo subito che del dicembre 1707 è il più antico ricordo a Napoli d’opera buffa (Piovano, l. c., pp. 678, n. 3). Ma dove sorsero propriamente sì fatti intermezzi comici musicali? dove se ne introdusse l’uso? Nella cronaca dei teatri del Seicento, pubblici e [p. 53 modifica]privati, ricorre spesso il nome di intermezzi musicali, ma non sembra che si tratti mai di quelle caratteristiche farsette che a Venezia si recitarono da prima nel 1706, e poi per molti anni, quasi ininterrottamente, sostituendosi ai balli che invero non cessarono mai, anzi furoreggiarono dopo il 1732. Per la loro giocondità e per la facilità dell’esecuzione si diffusero subito ed ebbero fortuna in tutta la penisola tali intermezzi di spirito intimamente settecentesco; e ne durò la moda fino alla metà del secolo, quando furono sopraffatti dall’opera giocosa, ossia da un genere più compiuto di commedia per musica di cui erano stati, come dice il Goldoni, i precursori (Mémoires, P. I., ch. 36. "Commedie abbozzate" li chiama nelle memorie italiane, “suscettibili però di tutti i caratteri più comici e più originali”: vol. I della presente ed., pag. 95. So che il Della Corte, l. c., I, pag. 43, si oppone al Goldoni, ma il Goldoni pensa ai libretti, ha di mira principalmente la poesia, non la musica). Peccato che nessuno finora li abbia studiati e che le domande ch’io mi feci poco fa rimangano senza risposta, tanto più che s’ignorano troppo spesso gli autori dei libretti e della musica. Dal teatro dell’arte derivarono i travestimenti a cui ricorre la più parte dei personaggi, ma quanto al carattere dei personaggi stessi convien forse pensare alla commedia rustica musicale che abbiamo visto in Toscana e a Bologna, alle commedie popolari veneziane della fine del Seicento e più di tutto all’imitazione della commedia e della farsa letteraria francese. Difatti più d’uno dei soggetti ricorda il teatro di Molière (Toldo, L’oeuvre de Molière etc., Torino, 1910, pag. 425 e sgg.).

Conviene qui fissare (ciò che nessuno fece) le differenze caratteristiche fra l’intermezzo, diremo così, italiano e l’opera buffa o commeddeja pe museca napoletana. L’opera buffa è una commedia vera e propria, di carattere intimamente regionale, di materia in parte romanzesca; vive soltanto a Napoli, dove ha un teatro tutto suo, e parla il dialetto di Napoli, e rappresenta la vita popolare napoletana. Gli intermezzi, come dicemmo, sono ingenue farsette, ai sei, di quattro o anche di due sole scene, che ci richiamano alla mente certi dialoghi più o meno rusticali, noti nel Cinquecento col nome di farse, inframessi, mogliazzi ecc. Questi umili componimenti non si recitano da soli, ma servono a nempire le pause fra un atto e l’altro delle opere serie, con musica o senza. Sorgono qua e là, in varie regioni, ma hanno per centro principale Venezia, la patria dei teatri pubblici musicali del Seicento: e qualche volta si servono del dialetto veneziano. Non svolgono una vera azione, benchè abusino dei travestimenti, bensì cercano di rendere il carattere, per quanto caricato, dei personaggi che sono due, o al più tre. Anche per questo si distinguono dal teatro del secolo precedente e risentono, senza volere, l’esempio del teatro francese. Ricordiamo che a Parigi, nel 1715, sul teatro della Foire Saint-Germain appare per la prima volta il titolo d’opéra-comique. Non a caso il Goldoni insiste sulla importanza degli intermezzi:”Les traits comiques” dice nelle memorie francesi”que j’employois dans les Intermèdes, étoient comme de la graine que je semois dans mon champ pour y recueillir un jour des fruits mûrs et agréables” (P. I, fine cap. 35).

Nel catalogo del Wiel, per tali operette non completo, si possono contare sui teatri veneziani tra il 1706 e il 1734 una quarantina d’intermezzi: ma dal 1710 al 1718 soltanto tre. Molti furono replicati più volte a Venezia e fuori, [p. 54 modifica] come per esempio Melissa, Parpagnacco e Pollastrella, Pimpinone e Vespetta (è questo del modenese P. Pariati), Zamberlucco e Palandrana, Despina e Niso (musicato dallo Scarlatti). Serpilla e Bacocco oppure Il marito giocatore e la moglie bacchettona (musicato dall’Orlandini), l’Impresario delle Canarie (del Metastasio), Tabarano e Scintilla ossia la Contadina (del poeta napoletano Andrea Belmuro, musica del maestro Hasse), e il Vecchio pazzo per amore.

Di simili farsette scrissero anche il Gigli e il Fagiuoli in Toscana, altri a Roma, altri a Napoli dove fioriva fin dal 1707 l’opera buffa, in dialetto napoletano, creazione caratteristica dei sobborghi e della marina dell’incantevole città che rapi a Venezia nel Settecento la gloria del primato musicale.

Ma degli effetti della commedia sulla musica (v. in parte D’Arienzo. l. c., spec. anno 1897, pp. 421-459) e delle sorti della musica giocosa (Della Corte, op. cit.) non ci tocca parlare; nè dell’opera svolta a Roma e a Napoli dal grande maestro siciliano Alessandro Scarlatti (E. J. Dent. A. Scarlatti - His life and works, London 1905 e D. Alfred Lorenz, A. Scarlatti’s Jugendoper, Augsburg, 1927), nè dei maestri più oscuri in Italia fino al Pergolesi, dovendo la nostra attenzione rivolgersi soltanto agli umili componimenti poetici.

Sono quasi sempre scene ridicole d’amore con le solite caricature del vecchio innamorato, del contadino arricchito, della ragazza capricciosa, della virtuosa da teatro, della preziosa e così via. Ecco qui il Parpagnacco rec. a Venezia nel 1707, a Verona nel 1713, a Bologna e a Cento nel 1724. Sono tre intermezzi, ossia tre scene. Nella prima scena Pollastrella, benchè non le manchino amanti, vuol attirare Parpagnacco, il quale si vanta astrologo e nemico delle donne, ma viene da lui sprezzata; nella seconda anch’ella si finge astrologa d’amore, e il vecchio stolto cade innamorato cotto; nella terza Parpagnacco si presenta vestito da ganimede, ossia da "parigino spropositato", Pollastrella lo deride e lo scaccia senza pietà. C’è qua e là dello spirito, c’è il Settecento: "Non si vanti di beltà - Quella bella che non ha - Trenta amanti almeno in lista ecc.". Pollastrella annunzia Mirandolina, ne ha l’arte: "L’usanza vuol così: soglion le donne - Amar e disamar.... - Noi così comandiamo e con ragione - Perchè in fatto d’amore - Le maestre noi siamo e le padrone". Peccato che la forma sia rozza e i versi infelicissimi.

Nel Pimpinone del Pariati, uno dei migliori intermezzi, ricco di spirito settecentesco, qua e là vivo ancora (rec. a Venezia nel 1708, nell’11 a Ferrara, nel ’12 a Vicenza, nel ’14 a Modena, nel ’15 a Udine, nel 22 a Monaco nel ’40, a Lubiana) ecco già una serva padrona, la Vespetta, nelle due prime scene, (v. Della Corte, vol. I, pp. 41 e 55) e nella terza una moglie in calzoni e un marito bonario o alla moda. In Serpilla e Bacocco, che fu recitato a Venezia nel 1719, nel ’30 e nel ’41, a Bologna nel ’48 (col titolo Bacocco giocatore), a Monaco nel 1722, a Parigi nel ’29 (col titolo le Mari joueur et la femme bigotte: v. Léris, Dictionnaire portatif des théâtres, Paris, 1754) e di nuovo nel ’52, a Londra nel ’36 (col titolo The Gamester), troviamo un marito giuocatore, finto giudice, e una falsa bigotta (v. Della Corte, I, pag. 41 e S. Fassini, Il melodramma Italiano a Londra, Torino, 1914, pp. 116-117. Si ricordi la famosa commedia di Montfleury, La femme juge et partie, 1669, trad. dal Gigli: Il Ser Lapo o la Moglie [p. 55 modifica] giudice e parte, st. 1731). Nell’Impresario delle Canarie, che riempì nel 724 a Napoli, e nel "25 a Venezia gli intermezzi della Didone, ridiamo dei capricci e dei difetti, o meglio delle stravaganze, del teatro musicale (vol. XVII della presente “di pp. 352-353; e Croce, I teatri di Napoli cit., pp. 191-192; e Scherillo, L’Opera Buffa cit., pp. 146-150). In fine Tabarano (1731 e ‘46 a Venezia, 1738 e ‘44 a Bologna) è il contadino gentiluomo che Scintilla cerca bravamente di pelare per gir poi col suo Lucindo: ma egli si traveste da corsaro turco e scopre gli inganni della scaltra villanella (v. Croce, l. c., pag. 299, che attribuisce tale intermezzo al Saddumese, non al Belmuro).

Questi e altri, forse più umili, erano gli esempi che aveva il Goldoni quando a Feltre, nel carnevale del 1730, e forse a Venezia, nel 32, cominciò a scrivere i suoi primi intermezzi.

Fin dal maggio del 1729 incontriamo a Feltre Carlo Goldoni. “Io non mi scorderò mai di un paese” scrisse più tardi nelle sue memorie l’autore dei Rusteghi,”dove sono stato sì bene accolto, e dove ho soggiornato sedici mesi col maggior piacere del mondo” (vol. 1 della presente ed., p. 47). Aveva allora ventidue anni. L’ufficio di Coadiutore ossia di Vicecancelliere Criminale presso il podestà N. U. Paolo Spinelli, gli permetteva molti svaghi, com’egli stesso piacevolmente racconta: quello, fra gi altri, di istruire “una compagnia di giovani dilettanti” per alcune recite nel teatro del Palazzo Pretorio durante il carnevale. Furono scelti due drammi del Metastasio che si recitavano anche senza la musica, la Didone ed il Siroe (Mémoires, P. I, ch. 20: in luogo del Siroe nelle memorie italiane dice l’Artaserse, che proprio in quel carn. fu rappr. a Venezia): ai quali il giovane Coadiutore aggiunse due intermezzi di sua fattura, il Buon Vecchio e la Cantatrice, l’uno “comico” o sia giocoso e l’altro “critico” o sia satirico.

“È questa la prima volta” ricorda il Goldoni “ch’io esposi qualche cosa del mio sul teatro, e là principiai a gustare il piacer dell’applauso e del pubblico aggradimento”’ (vol. I cit. pag. 48). Il Buon vecchio o il Buon padre (come lo chiama nelle memorie in lingua francese) "consisteva in tre personaggi: un Pantalone, padre semplice, una figlia accorta ed un amante intraprendente. Io faceva quest’ultimo personaggio", racconta pure il grande commediografo, ‘mascherato con diversi abiti, e coll’uso di più linguaggi, tutti però italiani". L’amico Vettor Faggen, 2 MONDO, Vittore Facen, sosteneva “mirabilmente il personaggio di Pantalone” (vol. I, pp. 48-49). Due amanti che con qualche astuzia, con qualche travestimento, riescono nell’intento di sposarsi, non erano in verità cosa nuova sul teatro. Quanto a Pantalone, che non è più il solito vecchio innamorato, rivale dei propri figli, come nella commedia dell’arte, ma ha cambiato costume ed affetti, probabilmente inizia già il vero Pantalone goldoniano che ritrovammo nella Finta ammalata e in tante altre commedie. E poi da osservare come il Goldoni fin dal suo primo tentativo facesse uso del dialetto veneziano.

Dell’arte di questa farsetta che si dovette recitare fra un atto e l’altro [p. 56 modifica]della Didone, non possiamo giudicare. "Perduto ho poscia interamente il primo Intermezzo, per la poca cura ch’io avea delle cose mie": confessa il Goldoni. Certo non fu mai stampato. Un copione del Buon vecchio e della Cantatrice è fama si conservasse a Feltre, nella biblioteca del Conte Iacopo Dei, ma di queste tradizioni orali è lecito dubitare (C. Musatti, I drammi musicali di C. Goldoni, Venezia, 1902, p. 9: estratto dall’Ateneo Veneto, a. XXV, vol. I, fasc. I): vero è che don Antonio Vecellio, nel volume quarto della Storia di Feltre (Feltre, Tip. Castaldi, 1886), aggiunto all’opera del padre Cambruzzi, s’accontentò di riferire nudamente il racconto del Goldoni, dalle memorie francesi. Era il Buon padre scritto in versi? Così generalmente si crede e così farebbe supporre il titolo di intermezzo. Ma nel Catalogue des pièces de théâtre de M. Goldoni che il vecchio commediografo stampò in fine dei Mémoires, leggiamo con meraviglia: "Il Buon Padre (le Bon Père), Comédie en deux Actes, en prose”. Distrazione senile?

Diverso fu il destino della Cantatrice. Qualcuno conservò il copione e l’autore se la vide "qualch’anno dopo rappresentare in Venezia col titolo di Pelarina, che significa in veneziano una Donna che pela, cioè che pilucca gli amanti" (vol. I, p. 48). " Un jeune Avocat s’en étoit emparé; il la donnoit comme son ouvrage, et il en recevoit les compliments, mais ayant osé la faire imprimer sous son nom, il eut le désagrément de voir son plagiat démasqué": così le memorie francesi. In quelle che il Goldoni scrisse molto tempo prima in italiano per l’edizione Pasquali, apprendiamo il nome del plagiario: era costui Antonio Gori veneziano (vol. I presente ed., pp. 102 e 103). Tuttavia la Pelarina nella stampa del 1734 non porta nessun nome d’autore, e non possiamo affermare che il testo corrisponda a quello della Cantatrice: il Goldoni attenua l’accusa dicendo che il Gori "avea lavorato l’intermezzo della Pelarina sul piano della Cantatrice”; ma non protestò quando prima il Tevernin, poi l’Olzati e il Savioli la stamparono fra le altre sue Opere giocose. La ristampò anche lo Zatta, al quale il Goldoni pare mandasse da Parigi fin dal 1788 "la collezione completa de’ manoscritti" (v. lettera nel tomo I di quell’ed.). Tuttavia nel citato Catalogue, in fine dei Mémoires, si ricorda la Cantatrice, non la I: "Intermède en deux Actes et en vers". Era dunque la I in due sole parti? Quanto è rimasto nella Pelarina dell’operetta composta dal giovane Goldoni a Feltre, e quanto appartiene al Gori? Nessuno può rispondere a tali domande.

Certo il Gori tentò di rivendicare la paternità della Pelarina stampata nel ’34, e premise, senza segnarle col proprio nome, queste parole, a mo’ di avvertenza, nella Momoletta che uscì pure anonima l’anno dopo (Venezia, Valvasense, 1735): " Curioso Lettore. Chi ti fece vedere su le scene: Il Marito all’ultima moda, Il Maestro di Musica, Il Conte Coppano, Pelarina, Tulipano, e gl’Ovi in puntiglio, ti fà ora vedere Momoletta, confessandoti sinceramente che Il Pomponio, La Pupilla e la Birba sono d’altro Autore, le lodi del quale non intende usurparsi. Ti sia grata quanto fu necessaria a chi scrive, una tale sincerità: dona, come agl’altrì donasti, anco a questo Intermezzo il tuo compatimento, e vivi felice”.

Non v’ha dubbio che la Cantatrice fu composta dal Goldoni nei primi mesi del 1730, mentre il suo cuore ardeva per la cara Angelina che poi [p. 57 modifica]abbandonò. “In questo per me sì amabile divertimento passai in Feltre felicemente l’inverno e parte della primavera”: scrisse poi il commediografo veneziano (vol. I cit., p. 48). L’edizione Zatta dice, nel sottotitolo: “Intermezzo di tre parti per musica rappresentato per la prima volta a Feltre, l’anno MDCCXXIX”. Era questa notizia negli appunti spediti dal vecchio commediografo al tipografo, da Parigi? Si può intendere che sia indicato l’anno veneto, il quale durava fino ai 28 febbraio del 1730, o l’anno comico, il quale finiva col carnovale. Forse le recite si replicarono più volte, ma non credo avessero luogo nel mese di giugno come avrebbe affermato, in una noticina, il misterioso copione del Conte Dei (Musatti, l. c. Il Bustico nel suo studio sui Drammi, cantate, intermezzi musicali di C. Goldoni, estratto dalla Rivista delle Biblioteche e degli Archivi, a. III, 1925, p. 25, cita a questo proposito per inavvertenza la Bibliografia Bellunese del Buzzati, che della Cantatrice non fa menzione).

Già nel 1727 un intermezzo intitolato la Cantatrice era uscito dalla penna di Sebastiano Biancardi napoletano, più noto col nome di Domenico Lalli (Ortanio in Arcadia) e fu cantato sul teatro di S. Samuele a Venezia con musica del maestro Pescetti; e nel giugno del ’29 fu ivi ripetuto, per la Sensa (v. Allacci, Drammaturgia, e Wiel, l. c., e Piovano, Rivista musicale cit., 1906, fasc. 4, pp. 688-689). Ma un dialogo in dialetto bolognese, La Cantatriz, troviamo fin dal 1703 nei Rimedi per la sonn da liezr alla banzola, di Lotto Lotti, spesso ristampati (C. G. Sarti, Il teatro dialettale bolognese cit., pp. 76 e 80 sgg.); nel 1715 uscì per la prima volta a Lucca la Dirindina, farsetta (o intermezzo) per musica del bizzarro scrittor senese Girolamo Gigli; e nel 1720 il carattere della cantatrice o virtuosa, con accanto la Signora Madre, vediamo argutamente tratteggiato da Benedetto Marcello nel celebre Teatro alla moda. Si ricordi poi la Dorina metastasiana nell’Impresario delle Canarie (Napoli, 1724). Pure a Napoli, nel teatro dei Fiorentini, si cantò nel carnovale del 1728 un’opera buffa o “commeddea pe museca” in tre atti, la Cantarina, d’ignoto autore (Croce, l. c., p. 243 sgg.) L’argomento era dunque di moda in quelli anni; altre canterine e cantatrici e virtuose apparvero in gran numero nel teatro, nel romanzo, nella poesia giocosa del Settecento, e più d’una incontrammo nelle commedie stesse del Goldoni: nella Bancarotta, nel Teatro Comico, nell’Impresario delle Smirne e perfino nella Locandiera.

Ma nella Pelarina non ravvisiamo che una sola faccia del tipo tradizionale delle virtuose di teatro: l’avidità dell’avventuriera che, con l’aiuto della madre, spoglia lo sciocco innamorato. Artisticamente non vive, quantunque conosca già il suo potere femminile e l’arte di ricevere i regali senza ringraziare (Ortolani, Settecento ecc., p. 419). A Giulio Caprin parve quasi “un abbozzo” della ballerina Olivetta, nella Figlia obbediente (C. Goldoni ecc., Milano, 1907, p. 102): altri potrebbe ricordare la Clarice, nella Bancarotta. Ma il Goldoni e il Gori avevano in mente cert’altre rapaci arpie degl’intermezzi. Volpiciona, la madre, è più vivace nella seconda parte, travestita da Canacchiona: questa merciaiola ambulante delle callette veneziane precorre gli arguti immortali tipi popolari della commedia goldoniana. Tuttavia il personaggio più buffo, per quanto grottesco, è Tascadoro: d’una [p. 58 modifica]buffoneria troppo volgare, certamente, misto di rozzezza, di minchioneria, di vigliaccheria e d’avarizia. La signora Marchini Capasso, nel suo Goldoni e la commedia dell’arte (Napoli, 1912, p. 155), ci vede “una specie particolare di Pantalone vecchio, rimbambito e donnaiolo, a alle prese con l’astuzia femminile”’. Questo forse non è, nè Tascadoro mi sembra d’età cadente; e nemmeno la Pelarina ci offre “un quadretto di vita contemporanea”, ‘una graziosa pittura d’ambiente” (p. 54): ma è certo che scene e personaggi, come in tutti gli intermezzi del Settecento, mostrano per forza qualche affinità col teatro popolare dell’Arte.

È del Gori o è del Goldoni la satira del costume? Vedete come vestono gli amanti alla moda intorno al 1730: “Abito corto con larghi falconi, ecc.”. E han le saccocce piene "D’ampolline, di bussoli e di stucchi” (Parte I, sc. 2 Di spirito goldoniano pare la baruffa veneziana, resa in iscorcio: “Veduto ho talvolta - D’alcuni buletti - Le belle bravure ecc.”’ Parte II, sc. 1). Ma il Goldoni ci fece assistere poi a ben altre baruffe! Questo "senso popolaresco" che sarà “uno degli atteggiamenti perspicui della mente del G.” sia "per diretta osservazione”, sia forse "per l’influsso del teatro Tepolire veneziano" precedente alla commedia goldoniana, avverte nella Pelarina anche Mario Penna, benchè veda ben poco "di notevole” in questo intermezzo, "probabilmente opera dell’Avv. Gori” (Il noviziato di C. Goldoni, Torino, 1925, pp. 47-48).

La Pelarina fu stampata e recitata a Venezia nel 1734, credo nel carnevale (Mémoires, I, ch. 35). La parte di Pelarina fu interpretata, come ben pensa Cesare Musatti, da Zanetta Casanova, quella di Volpiciona (il madro) da Agnese Amurat; e il capocomico Imer fu Tascadoro. Autore della musica dobbiamo credere Salvatore Apolloni. Peccato che il Wiel nel suo diligentissimo e utilissimo catalogo dei teatri musicali veneziani del Settecento, abbia trascurato alcuni rari libretti che si trovano presso la biblioteca del Civico Museo Correr. Alle opere di "provenienza” Cicogna appartiene il libretto della Pelarina del quale abbiamo riprodotto l’intestazione (Venezia, Valvasense, 1734, in 16, pp. 32: un altro esemplare si trova nella raccolta di Manoel de Carvalhaes, ora presso l'Accademia di S. Cecilia, a Roma: un terzo nella raccolta privata di C. Musatti a Venezia). Ricordiamo come sulla fine del settembre di quell’anno se ne tornasse a Venezia, dopo due anni di lontananza, il nostro Goldoni proprio nel "calesso” di Giuseppe Imer, capocomico della compagnia di San Samuele. L’inimicizia col Gori scoppiò subito.

La Pelarina fu poi stampata nel 1753, nel tomo IV delle Opere Drammatiche Giocose di Polisseno Fegejo Pastor Arcade, Venezia, appresso Gio. Tevernin - In Merceria alla Provvidenza; ristampata a Torino nel 1757 dall’Olzati nella copia che fece dell’ed. Tevernin, e a Venezia nel 1770 da Agostino Savioli, nel tomo VIII delle Opere Drammatiche Giocose del Signor Dott. Carlo Goldoni; e finalmente ancora a Venezia dallo Zatta, nel 1794, nel tomo I dei Drammi Giocosi che facevano parte della grande raccolta delle Opere Teatrali del Goldoni. Non conta parlare delle ristampe nell’Ottocento.

G. O.