La Palingenesi di Roma/Appendice/II. Il materialismo storico e Roma antica
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II.
IL MATERIALISMO STORICO E ROMA ANTICA.
Quando apparve la traduzione francese dei due primi volumi di «Roma» alcuni giornalisti d’oltre Alpi, uomini d’ingegno ma un po’ precipitosi nel giudicare, come è spesso quella professione, scrissero, e con sincera intenzione di elogio, che l’autore aveva studiato Carlo Marx. Imbattutisi per la prima volta in una storia antica, che raccontava di commerci, di dissesti, di fallimenti, di usure, e di altre cose consimili, reputate da molti invenzioni moderne; avendo sentito dire che Carlo Marx aveva fatto degli interessi economici l’asse intorno a cui giri la storia universale, s’erano messi in mente di far onore all’opera, ascrivendola ad una famiglia così moderna e così illustre. Senonchè è difficile immaginare un più grosso sproposito, e che sia prova più manifesta di ignoranza totale, sia in ciò che concerne la storia in genere, sia per ciò che tocca il materialismo storico. Ragione per cui l'errore fu largamente ripetuto.
Il materialismo storico non è una scuola, perchè una scuola suppone maestri e discepoli, e qui i discepoli almeno mancano; è una pura dottrina, campata nei cieli della speculazione, un po’ confusa e nebulosa, come tutto ciò che è uscito dalla mente frammentaria di Carlo Marx. Nessuno storico l’ha ancora applicata in nessuna opera di polso. Ma come dottrina si presenta negli scritti del suo autore e dei suoi discepoli e commentatori in due vesti: più generale la prima, più particolare la seconda. La dottrina più generale vuole che i fenomeni della storia, la religione, la politica, il diritto, l’arte e via dicendo, siano una specie di drappeggiamento sontuoso, sotto cui si nasconde la greggia ed unica realtà degli interessi economici. Ma del materialismo inteso così io penso che sia una dottrina puerile, da non poter essere presa sul serio; immaginarsi se si potranno trovare le sue «formule» e i suoi «derivati» nell’opera mia! Che ogni istituzione o associazione umana di qualsiasi natura, politica, religiosa o intellettuale, debba tenere un libro di conti; che tutte le relazioni tra gli uomini di ogni specie, dalla famiglia allo Stato e alla Chiesa, siano regolate anche da una ragione di dare e avere, non vuol dire, che l’anima di quelle associazioni e istituzioni viva nel libro dei conti; vuol dire soltanto che, qualunque cosa gli uomini facciano, pensino o vogliano, hanno bisogno di nutrirsi e di vestirsi; che il prete deve vivere dell’altare, come il pittore del pennello, e il matematico delle formule. Più seria è la dottrina particolare e ristretta, che assume la trasformazio-'ne degli istrumenti del lavoro a motore occulto della storia. Inteso così, il materialismo storico potrebbe essere una dottrina feconda e fare scuola, il giorno che raccogliesse intorno a sè discepoli valorosi, purché circoscritta alla storia dell’Europa negli ultimi due secoli, che sola può comportarne la applicazione. Negli ultimi due secoli la storia dell’Europa è veramente condotta da due demiurghi: le dottrine razionali della società e dello Stato, che minano sotto sotto Dio; le macchine mosse dal vapore e dall’elettricità, che minano sotto sotto tutti gli antichi ideali di perfezione. Nessuno scrittore capirà il secolo XIX, sinché non riesca a scoprire questi due demiurghi, discesi da due cieli differenti della storia, all’opera insieme e senza saper l’uno dell’altro. Il materialismo storico potrebbe studiarne con profitto uno; e quindi scoprire una parte della verità.
Senonchè questa dottrina non ha posto nè ufficio nella storia antica, dalla quale il secondo demiurgo è assente; ed è addirittura infantile di supporre che abbia potuto applicarla proprio l’autore, che ha indicato del secolo XIX e nel trapasso della civiltà qualitativa alla quantitativa, dall’ideale di perfezione all’ideale di potenza, il maggior rivolgimento della storia universale. Solo questo rivolgimento ha chiamato in terra, un paio di secoli fa, il demiurgo, che il materialismo vorrebbe presente in tutti i luoghi e in tutte le epoche; e le cui formidabili spinte e audacie e crudeltà gli uomini non conobbero, sinché la civiltà fu per sua natura qualitativa. Intorno alla tecnica dei Greci e dei Romani ci somministrano numerose, per quanto slegate e frammentarie notizie, gli scrittori, le leggi, i rottami di attrezzi e di macchine — aratri, mulini, telai, forni, stampi e via dicendo — raccolti negli scavi, e i disegni scolpiti nei bassorilievi. Ma da secolo a secolo, da paese a paese, non si riesce a scoprire differenze visibili e quindi progresso, come l’intendiamo noi, fuorché nelle macchine di guerra. Gli strumenti della industria e della agricoltura non mutano, a distanza di secoli; le forze motrici sono sempre i muscoli umani, alcuni animali, il vento e l’acqua; il vapore è un gingillo. In tutta la letteratura antica ho trovato una sola pagina, in cui l’ammirazione del progresso, oggi così fervida, sia presentita: la prefazione del libro diciannovesimo della Historia naturalis, in cui Plinio il vecchio, raccontando che il Mediterraneo ai suoi tempi è solcato in ogni verso non più da navi a remo ma da navi a vela, dopoché l’abbondanza del lino coltivato in Occidente ha fatto della tela un oggetto di consumo corrente, vanta la velocità delle navi spinte del vento, i viaggi affrettati, lo spazio vinto, con parole, che un moderno potrebbe ripetere, ritoccandole appena, del vapore. Ma se gli strumenti non mutavano, mutavano, e molto, i manufatti da epoca ad epoca; secondo che la mano di una generazione e di un popolo era più abile o meno, più arduo o più facile il modello di perfezione a cui i differenti secoli e le diverse nazioni guardavano, più fino e più rozzo il gusto che commetteva i lavori e li giudicava.
Immaginare una storia «materialistica» di Roma sarebbe come voler scrivere una storia cattolica o protestante dei Faraoni. Ma come è nato allora questo svarione di critici orecchiuti e orecchianti? Nella storia degli ultimi due secoli della repubblica c’è un paradosso apparente: più Roma e l’Italia arricchiscono e più sono rovinate; più si ingrandiscono fuori, e più si indeboliscono dentro. L’aristocrazia romana si trova padrona di un immenso impero, quando non è più capace di governare e amministrare una città! Massime nell’ultimo secolo della repubblica ogni vittoria è una catastrofe. Parecchi storici avevano visto o intravisto, tra le cause di questo singolare dissolversi per troppo vincere, gli influssi della cultura greca — arti, filosofie, industrie, religioni, costumi, lussi, piaceri — sull’antica società latina, aristocratica, tradizionalista, bigotta e puritana. Ma questa causa non è la sola, ed è, per dir così, una causa seconda, derivata da un’altra, meno visibile e più profonda: l’oro delle conquiste. Fenomeno economico? Per chi cerca nella natura umana la ragione profonda della storia, questa azione della moneta è un altro esempio della padronanza e tirannia che tanti oggetti creati dall’uomo a servirlo esercitano sul loro autore. Che cosa è la moneta? Non è la ricchezza, ma una ricchezza; ossia uno dei tanti beni desiderati dall’uomo, ma in sè e per sè non dei più necessari, perchè i metalli preziosi, tanto pregiati per la loro bellezza e rarità, non servono a nulla fuorché ad ornare, se non esistono gli altri beni necessari alla vita, che il denaro acquista. Ad un uomo perduto nel Sahara un pane ed un otre d’acqua sarebbero più preziosi, che un sacco di monete d’oro.
Senonchè se questo è vero, è pur vero che gli uomini immedesimano la ricchezza e il denaro, come se il denaro fosse la ricchezza, e di nulla sono più cupidi che di denaro, sia esso coniato in metallo prezioso o stampato in vilissima carta, al punto che reputano felice solo chi ne abbonda — uomini e tempi. Come si spiega questo strano fenomeno? Per quale ragione questi pezzi di argento e d’oro, queste polizze baroccamente istoriate che da sè e per sè non potrebbero soddisfare nessuno dei nostri bisogni, abbagliano l’uomo al punto, che il maggior numero immedesima in quelli la ragione stessa del vivere? Perchè, quando intorno sussista una civiltà raffinata e piena di beni svariati, il denaro è uno schiavo docile, pronto a tutti i servizi; mentre tutte le altre ricchezze si prestano ai voleri dell’uomo soltanto secondo la loro natura rigida e limitata. Chi possiede una terra, una casa, una bottega, un’officina, una merce qualsiasi, ne è nel tempo stesso il padrone e lo schiavo; perchè può servirsene solamente per i fini e gli uffici a cui la loro natura destina quelle cose. Se vuol servirsene ad altri fini ed uffici deve venderli, ossia convertirli in denaro. Chi possiede, denaro, può invece accumularlo o disperderlo, nasconderlo o ostentarlo, prestarlo o regalarlo, aiutare i suoi simili o corromperli, convertirlo in sapere, in sfarzo, in piacere o in vizio. Il denaro è amico e nemico, maestro e lenone, creatore e distruttore, angelo e demonio. Se l’uomo comanda, il denaro lo servirà nell’una o nell’altra di queste opposte persone.
Questa sua natura è cagione che nessuna prova sia più ardua e pericolosa per un singolo uomo, come per un popolo ed una civiltà, che un’improvvisa abbondanza di denaro. Che cosa accade quando, per una ragione o per un’altra, il denaro viene improvvisamente ad abbondare in una nazione, mentre gli altri beni necessari alla vita, che si possono comperare con il denaro, non crescono, o diminuiscono? Noi possiamo rispondere facilmente a questo quesito, dopo il diluvio di falso denaro sotto cui la guerra ha sommerso in sette anni l’Europa. Coloro, nelle cui mani affluisce questa nuova abbondanza di denaro, potranno accaparrare una parte assai maggiore dei beni disponibili, che non prima; e siccome la somma totale di questi non è cresciuta, dovranno toglierli ad altri che prima ne godevano: a coloro i quali, per una ragione o per un’altra, non sono stati raggiunti e irrorati dall’alta marea del denaro... Quindi alterazione violenta delle fortune; ingiusto e improvviso arricchimento degli uni; improvviso ed ingiusto impoverimento degli altri. Inoltre — ed è il disordine più pericoloso — mentre gli impoveriti si ridurranno a vivere strettamente del necessario, gli arricchiti saranno spinti sempre più al lusso ed al vizio. Appunto perchè questo pericoloso servitore si offre di servirli a loro piacere, come angelo o come demonio, gli uomini sono vinti il più spesso dalla curiosità di vedere come serve un demonio. Quando gli uomini dispongono di troppo denaro, il loro senno vacilla; cresce il prezzo dei gioielli, dei vini, delle vesti preziose; sorgono da ogni parte ville e palazzi; lupanari e bische rigurgitano; danze e feste tripudiano.
L’ingiusto arricchimento infatua gli uni, come lo immeritato impoverimento inasprisce gli altri; la disciplina sociale si rallenta; il rispetto, la parsimonia, lo spirito d’ordine svaporano, si diffonde l’invidia delle altrui ricchezze, l’odio dei fortunati, una insaziabile cupidità. Non solo il denaro, passando da una mano all’altra, insegna l’ozio, la prodigalità, il lusso, la dissolutezza, la vanità, la ghiottoneria; ma più abbonda, più scarseggia, più ne cresce il bisogno perchè più rinvilia. I tempi si lagnano di impoverire, quanto più arricchiscono. Il denaro sembra come volatilizzarsi.
Questo spasimo tetanico, in cui si contorce oggi l’Europa, infettata dal falso denaro della guerra intriso di tanto sangue, per poco non soffocò Roma e l’Italia negli ultimi due secoli della repubblica romana. Non la carta e i torchi litografici, ma l’oro e l’argento furono allora il veicolo della malattia. L’Italia fu per due secoli devastata periodicamente da violente maree di oro e di argento, suscitate dalle guerre, che nei tempi antichi, per le ragioni esposte nel mio primo volume, snidavano dai ripostigli e trasportavano nel paese vincitore i metalli preziosi. Soffrì, in quei due secoli, di tutti i mali che ci tormentano oggi: la carestia crescente con l’abbondanza, l’alterazione iniqua delle fortune, la depravazione dei costumi, il tramonto delle tradizioni, l’obliterarsi della disciplina sociale, le turbolenze politiche e gli odi civili che, via via esasperandosi, proruppero alla fine in aperte e sanguinose rivoluzioni.
Ed ecco spiegato l’errore di coloro che hanno visto in questa visione della storia di Roma le formule e i derivati di un materialismo storico di fantasia, perchè la moneta vi comparisce come il principale agente del disordine di una grande epoca. Ma questa visione non è parente del cosidetto materialismo storico neppure in decimo grado. Vero è invece che la visione è mia. Senza dubbio questo spaventoso e meraviglioso fenomeno non è stato da me capito con quella pienezza e rappresentato con quella forza, di cui, dopo la guerra mondiale, mi sentirei oggi capace; e che spero di trasfondere un giorno in una edizione definitiva. Ho concepito questa parte dell’opera una ventina di anni fa, perduto in una pace così universale e profonda, che la memoria e la nozione stessa del terribile fenomeno si erano perdute; l’ho concepita, quasi direi, dal nulla e in piena solitudine, perchè nessuno dei predecessori aveva neppur presentito queste oscure verità e poteva quindi prestarmi aiuto. Non ostante un intensissimo sforzo di riflessione e di immaginazione, che ha durato anni, non ho veduto il fenomeno nella sua pienezza e in tutti i suoi particolari, così lucidamente come lo vedo ora; e qualche volta l’ho confuso un po’ con un altro fenomeno, che appartiene alla stessa famiglia ma è diverso: con la perturbazione che genera l’incremento della ricchezza, quando è figlia del lavoro. L’opera ha quindi bisogno di qualche ritocco. Ma sarò io giudicato vittima di un vano orgoglio, se dirò apertamente che, a mio giudizio, un critico equo e competente, invece di dottrineggiare fuori di tempo e luogo sul materialismo storico, avrebbe potuto, e forse dovuto, riconoscere un po’ di merito all’autore, che primo aveva avuto la visione di un fenomeno di cui si era perduta la memoria, venti secoli dopo che era avvenuto, venti anni innanzi che, ripetendosi in un intero continente, si rivelasse di nuovo alla obliviosa noncuranza degli uomini?
FINE.