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156 | la palingenesi di roma |
ti per la loro bellezza e rarità, non servono a nulla fuorché ad ornare, se non esistono gli altri beni necessari alla vita, che il denaro acquista. Ad un uomo perduto nel Sahara un pane ed un otre d’acqua sarebbero più preziosi, che un sacco di monete d’oro.
Senonchè se questo è vero, è pur vero che gli uomini immedesimano la ricchezza e il denaro, come se il denaro fosse la ricchezza, e di nulla sono più cupidi che di denaro, sia esso coniato in metallo prezioso o stampato in vilissima carta, al punto che reputano felice solo chi ne abbonda — uomini e tempi. Come si spiega questo strano fenomeno? Per quale ragione questi pezzi di argento e d’oro, queste polizze baroccamente istoriate che da sè e per sè non potrebbero soddisfare nessuno dei nostri bisogni, abbagliano l’uomo al punto, che il maggior numero immedesima in quelli la ragione stessa del vivere? Perchè, quando intorno sussista una civiltà raffinata e piena di beni svariati, il denaro è uno schiavo docile, pronto a tutti i servizi; mentre tutte le altre ricchezze si prestano ai voleri dell’uomo soltanto secondo la loro natura rigida e limitata. Chi possiede una terra, una casa, una bottega, un’officina, una merce qualsiasi, ne è nel tempo stesso il padrone e lo schiavo; perchè può servirsene solamente per i fini e gli uffici a cui la loro natura destina quelle cose. Se vuol servirsene ad altri fini ed uffici deve venderli, ossia convertirli in denaro. Chi possiede, denaro, può invece accumularlo o disperderlo, nasconderlo o ostentarlo, prestarlo o regalarlo, aiutare