La Nascita della Tragedia/Capitolo XIX

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Capitolo XIX.

L’opera in musica. — Lo stile rappresentativo e il recitativo. — Il pessimismo della Chiesa. — Il melodramma é l’espressione del laicato. — L’eroe melodrammatico. — Il mero divertimento. — La musica tedesca. — Lo spirito tedesco e la grecità.

L’intima portata di questa cultura moderna non si caratterizza più sagacemente, che definendola la cultura dell’opera in musica; giacché in tale campo siffatta cultura ha palesato con una ingenuità tutta sua il proprio volere e il proprio conoscere, empiendoci di stupore, quando raffrontiamo la genesi dell’opera e i casi dello sviluppo operistico con le eterne verità dello spirito apollineo e del dionisiaco. Principio col ricordare l’origine dello stile rappresentativo1 e del recitativo. È credibile, che cotesta musica operistica interamente commerciale, incapace di religiosità, sia stata accolta e carezzata da tutta un’età con un favore fanatico, quasi come la rinascita di tutta la vera musica, dalla quale era sorta dianzi la musica ineffabilmente sublime e santa di Palestrina? E, d’altra parte, chi addebiterebbe unicamente al lusso avido di piaceri della società fiorentina e alla vanità dei suoi cantori drammatici la voga ardente con cui si diffuse la passione pel melodramma? Che nella [p. 162 modifica] medesima età e presso il medesimo popolo sorgesse irresistibile, a fianco delle alte navate delle armonie di Palestrina, alle quali aveva dato mano l’intero medioevo cristiano, il fanatismo per un genere semimusicale, io non so spiegarmelo se non come una tendenza estrartistica cooperante con la natura stessa del recitativo.

L’ascoltatore, che sotto il canto vuol sentire chiara la parola, il cantante lo soddisfa col fatto, che parla più che non canti, e che con questo mezzo canto rafforza l’espressione patetica della parola; solo che con tale rafforzamento del pathos, mentre facilita l’intendimento della parola, riduce quasi al niente l’altra metà che rimane della musica come musica. Il vero pericolo che lo minaccia, è di dare inopportunamente alla musica una preponderanza che rovina insieme il pathos del discorso e la chiarezza della parola, mentre, dall’altro canto, è trascinato dall’istinto dell’esecuzione musicale e dall’esibizione virtuosa della voce. Qui viene in suo soccorso il «poeta», che sa offrirgli abbastanza rinfranchi d’interiezioni liriche e ripetizioni di parole e di frasi e via dicendo; tutti punti nei quali il cantante può adagiarsi nell’elemento puramente musicale senza darsi pensiero della parola. Questa vicenda di discorso passionatamele compenetrante, ma solo mezzo cantato, e d’interiezione interamente cantata, che è insita nella natura dello stile rappresentativo; questa sollecitudine, istantaneamente cangiante, di fare effetto ora sul concetto e l’immaginativa, ora sulla facoltà [p. 163 modifica] musicale dell’ascoltatore, è qualcosa di così completamente innaturale e così intimamente contraddittorio con gl’istinti artistici dello spirito dionisiaco del pari e dello spirito apollineo, che si è dovuto inferirne un’origine del recitativo, la quale non ha niente che vedere con nessun istinto artistico. Secondo che lo abbiamo descritto, bisogna definire il recitativo come un misto di espressione epica e di espressione lirica, ma un misto senza l’intima consistenza che tra elementi tanto disparati non è dato minimamente raggiungere, bensì un accozzamento affatto esteriore, a mosaico, quale non se ne ha il minimo esempio nel dominio della natura e dell’esperienza. Ma non era questa l’idea degl’inventori del recitativo; piuttosto essi medesimi, e con loro i contemporanei, credevano, che con lo stile rappresentativo fosse svelato alfine il segreto della musica antica, quel segreto, col solo ausilio del quale era lecito spiegare l’effetto portentoso di un Orfeo, di un Anfione, se non anche della stessa tragedia greca. Il nuovo stile era tenuto come la rievocazione della musica più effettuosa, dell’antica musica greca; anzi, data la concezione generale e tutta popolare del mondo omerico come mondo primitivo, era consentito abbandonarsi al sogno di un ritorno agli esordi paradisiaci dell’umanità, nei quali anche la musica fosse necessariamente dotata di quella insuperabile purezza e potenza e innocenza, di cui i poeti sapevano parlare in modo così commovente nei loro poemi pastorali. Proprio qui noi scorgiamo [p. 164 modifica] l’intimo divenire di questo genere artici peculiarmente moderno, il melodramma: una potente esigenza conquista la propria arte un’esigenza d’indole inestetica; è la nostalgia dell’idillio, la fede nell’esistenza primitiva di un uomo naturalmente artistico e buono. Il recitativo significava appunto il rinvenimento del linguaggio di quell’uomo primordiale, il melodramma il ritrovamento del paese di quell’essere idilliacamente o eroicamente buono, il quale in tutte le sue azioni segue, insieme, un istinto artistico naturale, canta sempre almeno un poco qualunque cosa abbia da dire, per poi subito cantare a piena voce al più leggero moto del sentimento. A noi ora riesce indifferente, se con questa immagine rievocata dell’artista paradisiaco gli umanisti di allora abbiano combattuta l’antica idea ecclesiastica dell’uomo naturalmente peccatore e perduto; talché il melodramma deva intendersi come il contrapposto domina dell’uomo buono, col quale fu insieme trovato il rimedio confortante contro il pessimismo della Chiesa, a cui erano irresistibilmente attratti proprio i ben pensanti del tempo. Ci basti l’aver riconosciuto, che il fascino particolare e quindi la genesi di cotesta nuova forma artistica proviene da un bisogno completamente anestetico, dalla glorificazione ottimistica dell’uomo in quanto uomo, dalla concezione dell’uomo primitivo come dell’uomo buono e artistico per natura, il qual principio essenziale dell’opera in musica si é trasformato a mano a mano in una minacciosa e tremenda pretensione, che, [p. 165 modifica] davanti ai movimenti socialistici dei nostri tempi, non possiamo più non udire. «L’uomo buono primitivo» vuole i suoi diritti: quale avvenire paradisiaco!

Aggiungo una riprova del pari evidente alla mia idea, che il melodramma è fondato sugli stessi principii della nostra cultura alessandrina. L’opera in musica è il parto dell’uomo teoretico, del laico critico, non già dell’artista; che è, nella storia di tutte le arti, uno dei fatti più singolari. Fu l’esigenza di ascoltatori propriamente amusicali quella che imponeva soprattutto che s’intendesse netta la parola; di modo che una rinascita dell’arte dei suoni era da attendersi solo nel caso che si fosse inventato un modo di cantare, in cui il testo delle parole dominasse sul contrappunto come il padrone sul servitore. Giacché le parole, come si riteneva, erano di tanto più nobili del sistema armonico di accompagnamento, di quanto l’anima è più nobile del corpo. Tale fu la rudità laicamente amusicale d’idee con cui sui primordi del melodramma fu maneggiata la connessione della musica con l’azione e la parola; tali gl’intendimenti dell’estetica con cui furono fatti i primi esperimenti negli alti circoli laici di Firenze dai poeti e cantanti ammirati e protetti. L’uomo artisticamente impotente si costruisce un genere d’arte posticcia, precisamente perché è un uomo congenitamente non artista. Appunto perché non ha alcun sentore della profondità dionisiaca della musica, egli trasforma a sua posta il godimento musicale in una rettorica [p. 166 modifica] intellettuale della passione verseggiata e suonata nello stile rappresentativo, e in un voluttuoso diletto delle arti del canto; perché non può contemplare alcuna visione intima, chiama a suo servigio i macchinisti e gli artisti decoratativi; perché non sa concepire la vera natura dell’artista, rievoca secondo il proprio gusto «l’uomo primitivo artistico», vale a dire l’uomo che nella passione canta e verseggia. Egli si risogna un’epoca, in cui basta la passione a partorire canti e poesie, quasi che l’affetto sia mai stato in grado di produrre alcunché di artistico. Il presupposto dell’opera è una falsa credenza nel processo artistico, è propriamente la credenza idilliaca, che ogni uomo sensibile sia peculiarmente artista. L’opera in musica, nel senso di cotesta fede, è in arte l’espressione del laicato, il quale detta le sue leggi col sereno ottimismo dell’uomo teoretico.

Se desiderassimo di raccogliere in un concetto le due idee, ora esposte, determinanti l’origine del melodramma, ci rimarrebbe unicamente a parlare di una tendenza idilliaca del melodramma; tema sul quale non avremmo altro a fare che giovarci della dicitura e della esplicazione di Schiller. Egli dice: «O la natura e l’ideale sono un oggetto di afflizione, quando sono rappresentati, quella come perduta, questo come non raggiunto; oppure sono un oggetto di allegrezza, in quanto vengono rappresentati come reali. Nel primo caso si ha l’elegia in senso stretto, nel secondo l’idillio nel senso più ampio». Ora, [p. 167 modifica] quanto al contrassegno comune di coteste due idee nella genesi del melodramma, bisogna subito rilevare, che in esse l’ideale non è punto sentito come non raggiunto, né la natura come perduta. Invece, secondo questo sentimento insito nel melodramma, vi è stato un tempo primordiale umano, in cui l’uomo viveva nel cuore della natura e in questo stato naturale aveva, insieme, raggiunto l’ideale dell’umanità in una bontà e artisticità paradisiache: dal quale uomo perfetto noi tutti deriveremmo, anzi ne saremmo tuttora la copia fedele; solo che per ritrovare e riconoscere in noi stessi l’uomo primitivo, bisognerebbe che ci alleggerissimo e affrancassimo di qualche cosa di noi stessi, in virtù di una volontaria rinunzia a una dottrina superflua, a una cultura esuberante. L’uomo colto del Rinascimento nella sua imitazione melodrammatica della tragedia greca intese di risalire a un siffatto accordo di natura e ideale, a una realtà idilliaca di vita; si valse della tragedia greca come Dante di Virgilio, per farsi guidare fino alle porte del Paradiso; ma di là continuò ad andare innanzi indipendente, e da una imitazione della suprema forma d’arte greca passò a un «ripristinamento di tutte le cose», a una ricostituzione del mondo artistico originario dell’uomo. Quale confidente bontà di cuore in questi sforzi ardimentosi, proprio nel seno della cultura teoretica! Bontà, che si spiega unicamente con la credenza consolatrice, «che l’uomo in sé» è l’eroe melodrammatico eternamente virtuoso, è [p. 168 modifica] il pastore eternamente flautizzante o cantante, che alla fine deve pur sempre ritrovarsi eroe e pastore, dato che effettivamente per un certo tempo smarrisca sé stesso dove si sia; bontà, che è unicamente il frutto dell’ottimismo, che sale qui dal fondo della concezione socratica del mondo come una colonna di fumo odoroso, allettativa perché storditiva.

Il sembiante del melodramma non è minimamente ombrato, dunque, dal dolore elegiaco di un’eterna perdita; piuttosto è allietato dalla serenità di un eterno riacquisto, dalla tranquilla giocondità di una realtà idilliaca, o che per lo meno si può immaginare ogni momento come effettiva realtà; salvo forse ad accorgersi, che cotesta presunta realtà non è altro che un trastullamelo fantasticamente balordo, al quale, chiunque è in grado di commisurarlo con la formidabile serietà della vera natura e di raffrontarlo con le vere scene primitive dei primordi dell’umanità, dovrebbe gridare con disgusto: Via, via il fantasma! Nulladimeno si cadrebbe in errore, se si credesse che un folleggiale balocco, come è il melodramma, si possa cacciarlo via semplicemente con un gagliardo esorcismo, come uno spettro. Chi intende di distruggere il melodramma, deve intraprendere la lotta contro quella serenità alessandrina, che in esso esprime con tanta ingenuità la sua idea favorita; serenità di cui l’opera in musica è la forma d’arte specifica. Ma che cosa c’è da attendersi a vantaggio della stessa arte dall’influenza di una forma artistica, [p. 169 modifica] le cui origini in genere non rimontano al dominio estetico, e che invece si è piuttosto intrusa nel campo artistico da una sfera semimorale, e solamente qua e là può talvolta mascherare la sua ibrida nascita? Di quali succhi si nutre cotesto parto operistico parassitico, se non di quelli dell’arte vera? Non è presumibile, che tra le sue seduzioni idilliache, tra le sue arti lusingatrici alessandrine, il cómpito supremo dell’arte, quello davvero serio e degno del nome, quello, cioè, di liberare gli occhi dalla vista dell’orrore delle tenebre e redimere il soggetto, mercè il balsamo salutare dell’apparenza, dallo spasimò degl’impulsi della volontà, non abbia a degenerare in una vuota e dissipante tendenza al mero divertimento? Che cosa ne sarà delle verità eterne dello spirito dionisiaco e dell’apollineo in un cosiffatto misto di stili, quale io ho dimostrato essere la natura dello stile rappresentativo? Nel quale la musica è riguardata come il servitore, il libretto come il padrone, la musica è comparata al corpo, il libretto all’anima? Nel quale la meta più alta è volta nel miglior caso a una pittura musicale descrittiva, nella guisa medesima come avvenne anticamente nel nuovo ditirambo attico? Nel quale è sottratta completamente alla musicarla sua vera dignità, quella di essere lo specchio dionisiaco dell’universo, tanto che altro non le resta se non, da schiava del fenomeno, imitarne le forme apparenti e destare un diletto esteriore col gioco delle linee e delle proporzioni? Un’indagine rigorosa rivela, che cotesta irreparabile [p. 170 modifica] influenza del melodramma sulla musica coincide direttamente con l’intero sviluppo musicale moderno: l’ottimismo latente nella genesi del melodramma e nell’essenza della cultura da questo rappresentata, è, con inquietante celerità, riuscito a spogliare la musica della sua missione universale dionisiaca e a imprimerle il suo carattere fantasmagorico, di mero divertimento; cangiamento, al quale in certo modo è dato paragonare solo la metamorfosi dell’uomo eschileo nell’uomo della serenità alessandrina.

Ma se finora, in forza dell’esemplificazione addotta, abbiamo posto la sparizione dello spirito dionisiaco in rapporto diretto con una trasmutazione e degenerazione, che molto stupisce ma che non era stata ancora spiegata, dell’uomo greco; quali speranze mai non dovrebbero sorgere in noi, quando auspicii affatto certi e sicuri ci garentissero nel nostro mondo di oggi il processo inverso, il graduale risveglio dello spirito dionisiaco! Non è possibile che la divina forza di Eracle giaccia eternamente asservita alle voluttà di Onfale. Una potenza è sorta dal fondo dionisiaco dello spirito tedesco, la quale nulla ha di comune con le condizioni primordiali della cultura socratica, né si spiega con queste né si giustifica, anzi è sentita da cotesta cultura come un fatto terribilmente inesplicabile, come prepotentemente ostile: ed è la musica tedesca, quale dobbiamo intenderla principalmente nella sua gagliarda ascesa luminosa da Bach a Beethoven, da Beethoven a Wagner. Che cosa sarà [p. 171 modifica] in grado d’imprendere, nel caso più favorevole, la socratica avida di conoscenza dei nostri giorni, con questo demone sorgente da inesauribili abissi? Né nel composto merlettato e rabescato della melodia operistica, né aiutandosi con la tavola pitagorica della fuga e della dialettica contrappuntistica si troverà la forinola, alla cui luce tre volte potente si riescirebbe a sottomettere il demone e a costringerlo a parlare. Quale spettacolo, questo dei nostri esteti che dimenano la rete della loro propria «bellezza» dietro il genio musicale tumultuante in un fervore di vita imprendibile e incomprensibile, e si scalmanano a ghermire movimenti, che vanno giudicati tanto poco coi criteri della bellezza eterna quanto del sublime! Bisogna guardarli da vicino, in petto e in persona, cotesti bigotti della musica, quando gridano senza tregua bellezza! bellezza! per farci un’idea, se hanno l’aria di educati nel seno del bello e di schifiltosi beniamini della natura, oppure se piuttosto non cercano un fallace ammanto alla propria rozzezza, un paravento estetico alla propria meschinità tanto povera di sentimento: penso, per esempio, a Otto Jahn. Davanti alla musica tedesca bisogna ben guardarsi dal bugiardo e dall’ipocrita; perché in mezzo a tutta la nostra cultura è proprio dessa l’unico e alto spirito di fuoco puro e purificatore, da cui tutte le cose son mosse in una duplice via circolare, in su e in giù, come nella dottrina del grande Eraclito di Efeso: tutto ciò che ora chiamiamo cultura, educazione, civiltà, dovrà pur comparire un giorno davanti all’infallibile giudice Dioniso. [p. 172 modifica]

Riflettiamo, inoltre, che allo spirito della filosofia tedesca uscito dalla stessa fonte venne fatto, con Kant e Schopenhauer, di distruggere il pago piacere di vivere proprio della socratica scientifica, dimostrandone i confini, e che, in forza di questa dimostrazione dei confini della scienza fu iniziata una concezione dei problemi etici è dell’arte infinitamente più profonda e più grave che ci è lecito definire come sapienza dionisiaca intesa per concetti: dove ci mena il mistero di questa unità tra la musica tedesca e la filosofia tedesca, se non a una nuova forma di esistenza, di cui possiamo presagire il contenuto solo presentendolo dalle analogie elleniche? Giacché per noi, situati sulla linea di confine di due diverse forme di esistenza, il modello greco ha questo incommensurabile valore, che in esso sono anche impressi tutti i gradi e le lotte di transizione a una forma classico-istruttiva; salvo che il corso analogo di vita che noi andiamo seguendo è, per così dire, in ordine inverso alle grandi epoche principali della vita ellenica; per esempio, oggigiorno sembra che noi andiamo a ritroso dall’età alessandrina al periodo storico della tragedia. Perciò è viva in noi la sensazione, che la nascita di un evo tragico non abbia quasi a significare altro per lo spirito tedesco, che un ritorno a sé stesso, un felice ritrovarsi, dopo che per una lunga età le mostruose potenze penetrate di fuori, vivendo esso reietto nella piena barbarie della forma, lo avevano ridotto alla schiavitù della forma loro. Ma ecco che [p. 173 modifica] finalmente, ritornato alla fonte originaria del suo essere, può osare di farsi avanti a tutti i popoli, ardimentoso e libero, strappata la danda della civiltà romanica; purché impari ad apprendere incessantemente solo da un popolo, dal quale il saper apprendere è già per sé stesso un’alta gloria e un singoiar pregio di peregrinità: dal popolo greco. E quando di questi sommi maestri abbiamo avuto mai più bisogno di adesso, che sentiamo palpitare in noi la rinascita della tragedia, e siamo in pericolo né di sapere donde viene, né di riuscire a spiegarci dove mena?

Note

  1. Nel testo è italiano; dice anzi stilo.