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il mero divertimento 169


le cui origini in genere non rimontano al dominio estetico, e che invece si è piuttosto intrusa nel campo artistico da una sfera semimorale, e solamente qua e là può talvolta mascherare la sua ibrida nascita? Di quali succhi si nutre cotesto parto operistico parassitico, se non di quelli dell’arte vera? Non è presumibile, che tra le sue seduzioni idilliache, tra le sue arti lusingatrici alessandrine, il cómpito supremo dell’arte, quello davvero serio e degno del nome, quello, cioè, di liberare gli occhi dalla vista dell’orrore delle tenebre e redimere il soggetto, mercè il balsamo salutare dell’apparenza, dallo spasimò degl’impulsi della volontà, non abbia a degenerare in una vuota e dissipante tendenza al mero divertimento? Che cosa ne sarà delle verità eterne dello spirito dionisiaco e dell’apollineo in un cosiffatto misto di stili, quale io ho dimostrato essere la natura dello stile rappresentativo? Nel quale la musica è riguardata come il servitore, il libretto come il padrone, la musica è comparata al corpo, il libretto all’anima? Nel quale la meta più alta è volta nel miglior caso a una pittura musicale descrittiva, nella guisa medesima come avvenne anticamente nel nuovo ditirambo attico? Nel quale è sottratta completamente alla musicarla sua vera dignità, quella di essere lo specchio dionisiaco dell’universo, tanto che altro non le resta se non, da schiava del fenomeno, imitarne le forme apparenti e destare un diletto esteriore col gioco delle linee e delle proporzioni? Un’indagine rigorosa rivela, che cotesta irreparabile