La Nascita della Tragedia/Capitolo XVIII
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Capitolo XVIII.
È un fenomeno eterno: la volontà avida di esistenza trova sempre il modo di tenere attaccate alla vita, per mezzo di un’illusione sparsa sulle cose, le sue creature, e di costringerle a vivere ancora. Questo vi è tenuto legato dal piacere socratico della conoscenza e dalla persuasione di poter medicare col sapere l’eterna piaga dell’esistenza; quello è irretito dal velo della bellezza che l’arte gli fa ondeggiare davanti agli occhi; quell’altro dalla consolazione metafisica, che sotto il turbine dei fenomeni l’eternità della vita fluisce indistruttibile: e taccio delle illusioni più comuni e quasi anche più forti, che la volontà tiene pronte ogni istante. Cotesti tre gradi d’illusione sono in generale propri delle nature nobilmente dotate, che con più profondo disgusto sentono il peso e la gravezza dell’esistenza, e che perciò non si affrancano da tale disgusto se non con attrattive ricercate e fini. Di siffatte attrattive consta tutto ciò che chiamiamo cultura; e secondo la proporzione della mescolanza abbiamo una cultura prevalentemente socratica oppure artistica oppure tragica; o, se ci è consentita l’esemplificazione storica, abbiamo la cultura alessandrina, o l’ellenica, o l’indiana (brahmanica).
Tutto il nostro mondo moderno è preso alla rete della cultura alessandrina, e riconosce come ideale l’uomo teoretico munito delle supreme forze conoscitive e dedito al servigio della scienza: di lui è prototipo e progenitore Socrate. Tutti i nostri mezzi educativi si uniformano originariamente a cotesto ideale: ogni altra esistenza deve faticosamente aprirsi una via subalterna, come esistenza permessa, ma non già intesa al vero fine. Ciò posto, in un senso che quasi atterrisce, l’uomo colto per una lunga età è stato riconosciuto solamente nella forma dell’uomo erudito: perfino le nostre arti poetiche hanno dovuto svilupparsi da imitazioni erudite; e nell’effetto sostanziale della rima verifichiamo tuttora la derivazione della nostra forma poetica da esperimenti artistici espressi in un linguaggio non già spontaneo, ma propriamente ed essenzialmente erudito. A un greco schietto riescirebbe affatto incomprensibile il moderno uomo di cultura, che pure è per sé stesso intelligibile, cioè Faust, l’inappagabile Faust, che esasperato dall’istinto del sapere si lancia con tutte le sue facoltà nelle braccia della magia e del diavolo; Faust, che ci basta di porre a confronto con Socrate, per avvederci, che l’uomo moderno principia a presentire i limiti di quella gioia socratica del conoscere, e dal vasto e procelloso pelago del sapere domanda ormai un approdo. Quando una volta Goethe, col pensiero a Napoleone, disse ad Eckermann: «Sì, mio buon amico, c’è auche una produttività dell’azione», egli in guisa amabilmente ingenua richiamò in sostanza il fatto, che per l’uomo moderno l’uomo non teoretico è qualcosa d’incredibile e di stupefacente; tanto che occorre la sapienza di un Goethe per ammettere come concepibile, scusabile anzi, una forma di esistenza siffattamente singolare.
Né bisogna nascondersi ciò che si asconde nel seno di cotesta cultura socratica! L’ottimismo che si presume illimitato! Né bisogna spaventarsi, se i frutti di tale ottimismo maturano, se la società, lievitata fin negli strati infimi da una cultura di tal fatta, fermenta a poco a poco in sobbollimenti e pretese violenti, se la fede nella felicità terrena di tutti, la fede nella possibilità di una tale cultura scientifica universale si cangia a mano a mano nella minacciosa pretensione di una siffatta felicità terrena alessandrina, nella scongiurazione di un deus ex machina euripideo! Si noti: la cultura alessandrina esige, per durare, una casta di schiavi; ma nella sua concezione ottimistica dell’esistenza nega la necessità di tale casta, e perciò, usando l’effetto delle sue belle parole lusingatrici e contentatrici di «dignità dell’uomo» e «dignità del lavoro», cammina a poco a poco verso una orribile annichilazione. Non vi è nulla di più spaventoso di una casta barbarica di schiavi, che ha imparato a riguardare la propria esistenza come un’ingiustizia, e si prepara a trarne vendetta non solo per sé, ma per tutte le generazioni. Chi mai oserebbe, davanti a tali nembi minacciosi, ricorrere con animo sicuro alle nostre pallide e stanche religioni, che nelle loro fondamenta sono esse stesse degenerate in religioni erudite? Tanto ciò è vero, che il mito, presupposto necessario di ogni religione, è già mutilo da per ogni dove, e anche in questo campo il dominio è stato preso dallo spirito ottimistico, che noi or ora abbiamo designato come il germe distruttivo della nostra società.
Mentre la malsania posata nel seno della cultura teoretica principia a poco a poco ad opprimere l’uomo moderno, il quale, inquieto, nel tesoro delle sue esperienze dà mano ai mezzi di stornare il pericolo, senza neppur credere all’efficacia di tali mezzi; mentre egli comincia, dunque, a presentire le sue proprie conseguenze, ecco che grandi menti conformate all’universalità hanno saputo, con un tatto incredibile, giovarsi degli strumenti della stessa scienza per esporre la relatività della conoscenza in generale, e per negare definitivamente la pretesa della scienza a valore e fine universali; dimostrazione, in forza della quale fu riconosciuta per illusoria l’idea che, armata del principio di causalità, presumeva di poter penetrare l’intima essenza delle cose. Alla prodigiosa valentia e sapienza di Kant e di Schopenhauer era riserbata la più ardua vittoria, la vittoria sull ottimismo, ascoso nell’essenza della logica, e che è, insieme, lo sfondo della nostra cultura. Laddove l’ottimismo, fondandosi sulla sua fede delle aeternae veritates indiscutibili, aveva creduto alla conoscibilità e alla esauriente penetrazione di tutto l’enimma dell’universo, e aveva considerato lo spazio, il tempo e la causalità come leggi del tutto assolute di valore universalissimo, Kant palesò che queste servono propriamente a niente altro, che ad elevare il mero fenomeno, l’opera di Maja, ad unica e suprema realtà, a sostituirlo all’intima e vera essenza delle cose, e quindi a impossibilitare l’effettiva conoscenza di questa vale a dire, per servirci del motto di Schopenhauer, a addorraire più forte il sognatore (Il mondo come v. e r., I, § 498). Tale dottrina dà avviamento a una cultura, che io oso definire tragica, essendone questo il contrassegno più importante, che al posto della scienza come fine supremo insedia invece la sapienza, la quale, punto illusa dagli sviamenti delle scienze, offre allo sguardo pacato l’immagine intera e complessa del mondo, e con sentimento simpatico di amore cerca di abbracciarne come proprio dolore l’eterno dolore. Figuriamoci una generazione venuta su con questa intrepidità di sguardo, con questo impeto eroico pel prodigioso; figuriamoci il passo ardimentoso di questi uccisori di draghi, la superba temerità con cui voltano le spalle a tutte le pusillanimità dottrinali dell’ottimismo per «vivere risolutamente» in tutto e per tutto: non sarebbe necessario che l’uomo di siffatta cultura, per la sua propria educazione alla fortezza e al terribile, domandasse un’arte nuova, l’arte della consolazione metafisica, la tragedia, come l’Elena a lui dovuta, ed esclamasse come Faust:
E non dovrei io, la più anelante delle potenze,
Condurre alla vita la più sublime delle apparizioni?
Ma dopo che la cultura socratica è scossa dai due lati e riesce appena con mano tremante a tenere lo scettro della sua infallibilità, da un lato per la paura delle sue proprie conseguenze, che principia per l’appunto a presentire, dall’altro perché essa stessa non è più persuasa dell’eterna validità dei suoi fondamenti con l’ingenua confidenza di prima, ecco che è ben triste lo spettacolo offerto dalla danza del suo pensiero, che sempre corre anelante a nuove forme per abbracciarle, e poi d’un subito le abbandona rabbrividendo, come fa Mefistofele con le lamie tentatrici. È proprio cotesto il contrassegno di quel «fallimento», del quale ognuno suole parlare come del peccato originale della cultura moderna: che l’uomo teoretico si sgomenta davanti alle sue conseguenze, e, insodisfatto, non si arrischia più di affidarsi al formidabile fiume ghiacciato dell’esistenza: corre qua e là affannato sulla riva. Egli non vuol più saperne affatto, nulla più che vedere con l’atrocità naturale delle cose. Tanto lo ha effemminato il pensare ottimistico. Inoltre egli sente, che una cultura eretta sul principio della scienza, deve andare in rovina quando principia a diventare illogica, vale a dire a involarsi alle sue conseguenze. La nostra arte rivela questo travaglio universale: invano si cerca un appoggio a tutti i grandi periodi e i geni produttivi, invano si raccoglie a consolazione dell’uomo moderno tutta quanta la «letteratura universale», e lo si circonda degli stili e degli artisti di tutte le età, affinché egli, come Adamo agli animali, dia loro un nome: nulladimeno egli continua a essere l’eterno affamato, il «critico» senza gioia né forza, l’uomo alessandrino, che in fondo è un bibliotecario e un correttore, e si acceca miseramente sulla polvere dei libri e gli errori di stampa.