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l’eroe melodrammatico 167


quanto al contrassegno comune di coteste due idee nella genesi del melodramma, bisogna subito rilevare, che in esse l’ideale non è punto sentito come non raggiunto, né la natura come perduta. Invece, secondo questo sentimento insito nel melodramma, vi è stato un tempo primordiale umano, in cui l’uomo viveva nel cuore della natura e in questo stato naturale aveva, insieme, raggiunto l’ideale dell’umanità in una bontà e artisticità paradisiache: dal quale uomo perfetto noi tutti deriveremmo, anzi ne saremmo tuttora la copia fedele; solo che per ritrovare e riconoscere in noi stessi l’uomo primitivo, bisognerebbe che ci alleggerissimo e affrancassimo di qualche cosa di noi stessi, in virtù di una volontaria rinunzia a una dottrina superflua, a una cultura esuberante. L’uomo colto del Rinascimento nella sua imitazione melodrammatica della tragedia greca intese di risalire a un siffatto accordo di natura e ideale, a una realtà idilliaca di vita; si valse della tragedia greca come Dante di Virgilio, per farsi guidare fino alle porte del Paradiso; ma di là continuò ad andare innanzi indipendente, e da una imitazione della suprema forma d’arte greca passò a un «ripristinamento di tutte le cose», a una ricostituzione del mondo artistico originario dell’uomo. Quale confidente bontà di cuore in questi sforzi ardimentosi, proprio nel seno della cultura teoretica! Bontà, che si spiega unicamente con la credenza consolatrice, «che l’uomo in sé» è l’eroe melodrammatico eternamente virtuoso, è