La Nascita della Tragedia/Capitolo VIII
Questo testo è completo. |
◄ | Capitolo VII | Capitolo IX | ► |
Capitolo VIII.
Il satiro e il pastore del tempo moderno sono parimente figli l’uno e l’altro di una nostalgia del primitivo e del naturale; ma con quale presa ferma e impavida il greco afferrò il suo uomo silvestre, e con che smaccata mollezza invece l’uomo moderno si trastulla con la carezzosa immagine del tenero pastorello effemminato e flautizzante! La natura non elaborata ancora da nessuna conoscenza, in cui non sono ancora spuntate le regole della civiltà: ecco ciò che il greco vide nel suo satiro, che perciò non ha ancora nulla di comune con la scimmia. Tutto al contrario: era proprio l’immagine primitiva dell’uomo, l’espressione delle sue passioni più alte e più veementi, quale entusiasta zelatore inebbriato dalla presenza del dio, quale compagno compaziente che ripativa le sofferenze del dio, quale interpetre della sapienza cavata dal più profondo cuore della natura, quale emblema dell’onnipotenza generativa della natura; proprio questo era ciò che il greco si era abituato a considerare con divoto stupore. Il satiro era qualcosa di altissimo e di divino: tale dovè singolarmente sembrare all’occhio velato di dolore dell’uomo dionisiaco. Il pastore abbigliato, finto, lo avrebbe offeso: con sublime appagamento saziava l’occhio sugli aperti lineamenti della natura inviolatamente grandiosi: qui l’illusione della civiltà era spazzata via dall’immagine primordiale dell’uomo, qui si svelava l’uomo schietto, il satiro barbuto, giubilante al suo dio. Davanti a lui l’uomo incivilito rimprosciuttiva in una bugiarda caricatura. Anche rispetto a questi inizi dell’arte tragica Schiller ha ragione: il coro è un muro vivente contro la realtà irrompente, perché esso, il coro dei satiri, ritrae al vivo l’esistenza più veracemente, più realmente, più compiutamente che non faccia l’uomo incivilito, che comunemente si pretende di essere l’unica realtà. La sfera della poesia non è fuori del mondo, come l’impossibile fantasticheria di un cervello poetico: vuol essere precisamente il contrario, l’espressione, cioè, non imbellettata della verità, e appunto per questo deve respingere lungi da sé il menzognero ornamento della pretesa realtà dell’uomo incivilito. Il contrasto tra questa vera e propria verità naturale e la menzogna della civiltà atteggiatesi a unica realtà, è lo stesso che quello tra l’eterno nocciolo della cosa, della cosa in sé, e tutto quanto il mondo fenomenico; e come la tragedia con la sua consolazione metafisica indica la vita eterna di quel nocciolo esistenziale in mezzo al continuo trapasso dei fenomeni, così la stessa simbolica del coro dei satiri esprime allegoricamente quel rapporto originario tra la cosa in sé e il fenomeno. Il pastore idilliaco dell’uomo moderno è meramente una contraffazione del complesso d’illusioni culturali che per l’uomo moderno vale come natura; laddove il greco dionisiaco vuole la verità e la natura nella sua suprema potenza; e si vede trasformato d’incanto in satiro.
Con tali disposizioni e conoscenze passa in giubilo la folla tripudiante dei servi di Dioniso; la cui potenza si trasmuta ai loro propri occhi, in modo che folleggiando credono di vedere sé stessi ripristinati in geni naturali, ritornati satiri. La costituzione posteriore del coro tragico è l’imitazione artistica di quel fenomeno naturale; con questo, che ora divenne necessaria la separazione tra gli spettatori dionisiaci e i coreuti affatturati da Dioniso. Solo che bisogna tener presente, che il pubblico della tragedia attica vedeva sé stesso nel coro dell’orchestra, e che in fondo non esisteva alcun contrasto tra il pubblico e il coro; giacché il tutto non era altro che un gran coro alto di satiri danzanti e cantanti, e di spettatori che si sentivano rappresentati in quei satiri. Perciò dalla parola di Schlegel si può spremere un senso più profondo. Il coro è «lo spettatore ideale», in quanto è l’unico spettatore, lo spettatore del mondo di visioni evocato sulla scena. Un pubblico di spettatori quale è oggi il nostro, era ignoto ai greci: nei loro teatri, data la forma concentrica di costruzione a terrazza dello spazio riservato agli spettatori, ognuno era ben in grado di astrarsi interamente e propriamente dal mondo incivilito a lui dintorno, e in soddisfatta contemplazione credere e sentire coreuta sé stesso. Con questa idea possiamo chiamare il coro, nel primitivo grado della tragedia originaria, lo specchio dell’uomo dionisiaco; fenomeno che si rende chiarissimo, quando si segua il processo intimo dell’attore, il quale, se ha vere doti di artista, vede presentarglisi palpabile davanti agli occhi la figura del personaggio che interpetra. Il coro dei satiri è inizialmente una visione della moltitudine dionisiaca, come a sua volta il mondo della scena è una visione di cotesto stesso coro: la potenza di tale visione è abbastanza gagliarda per rendere inaccessibile e insensibile lo sguardo all’impressione della realtà, all’impressione dei semicerchi di uomini inciviliti seduti intorno sui loro sedili. La forma del teatro greco arieggia una valle solitaria aperta in un anfiteatro di montagne; l’architettura della scena rassomiglia a un’immagine di nubi lucenti, che le baccanti folleggianti sui monti contemplano di sulle cime, come la cornice magnifica in mezzo alla quale si rivela ai loro sguardi la vista di DionisoFonte/commento: Pagina:Nietzsche - La Nascita della Tragedia.djvu/266.
Codesto fenomeno artistico primitivo, che qui abbiamo rievocato allo scopo di spiegare il coro tragico, ripugna quasi con la nostra concezione dottrinale degli elementari processi artistici; laddove nulla di perfetto è possibile, se non quando il poeta è poeta solo per questo, che egli si veda circondato da figure che vivono e operano davanti ai suoi occhi, e di cui discerne l’intima essenza. Per una peculiare debolezza della mentalità moderna, noi incliniamo a rappresentarci troppo complicato e astratto il fenomeno estetico primitivo. Pel vero poeta la metafora non è una figura rettorica, ma una immagine rappresentativa che gli compare come reale nella mente al posto di un’idea. Per lui il carattere non è qualcosa come un tutto composito, costituito di singoli lineamenti raccolti insieme, ma una persona insistentemente viva davanti ai suoi occhi, la quale si distingue dalla corrispondente visione del pittore solo pel suo continuo moversi, pel suo vivere e operare incessante. Perché mai Omero dipinge ad evidenza, più di tutti gli altri poeti? Perché egli vede e intuisce tanto più di loro. Noi parliamo della poesia con tanta astrattezza, perché tutti noi siamo di solito cattivi poeti. In fondo il fenomeno estetico è semplice: si abbia la semplice facoltà di vedere svolgersi continuata un’azione vivente, si viva circondati senza posa da folle di spiriti, e si è poeti: si abbia il semplice istinto di cangiarsi e di parlare trasfusi in altri corpi e altre anime, e si è drammaturghi.
L’emozione dionisiaca è in grado di comunicare a un’intera moltitudine cotesta facoltà artistica, di vedersi cioè circondata da una siffatta folla di spiriti, con la quale essa si sente intimamente una, unanime. In cotesto processo del coro tragico consiste il fenomeno drammatico primitivo: vedere sé stessi trasformati davanti a sé, come se effettivamente si fosse entrati in un altro corpo, in un altro carattere. Tale è il processo che presiede all’inizio dello sviluppo del dramma. Qui abbiamo qualcosa di differente dal rapsodo, che non si fonde con le sue immagini, ma, simile al pittore, le guarda fuori di sé con occhio osservativo; qui abbiamo l’abnegazione dell’individuo che si trasfonde in una natura a lui estranea. Perciò appunto questo fenomeno si presenta epidemico: tutta intera una folla si sente affatturata in siffatta maniera. Ragion per cui il ditirambo si distingue essenzialmente da qualunque altro canto corale. Le vergini che portando rami di alloro vanno solennemente al tempio di Apollo e cantano in processione, rimangono quali sono, serbano il loro nome cittadino: al contrario, il coro ditirambico è un coro di trasformati, che hanno dimenticato completamente il loro passato civile, la loro posizione sociale; essi sono divenuti i senza tempo, i servi del loro dio viventi fuori di ogni sfera sociale. Qualunque altra lirica corale degli elleni non è altro che un enorme moltiplicamento del singolo cantore apollineo; laddove nel ditirambo siamo davanti a una comunità di inconsci attori, che si considerano tra di loro come trasmutati a vicenda l’uno nell’altro.
L’incantesimo è il presupposto di ogni arte drammatica. Preso da tale incantesimo, il tripudiatore dionisiaco si vede satiro, e in quanto satiro egli vede il dio, vale a dire, nella propria trasformazione contempla fuori di sé una nuova visione, come perfezionamento apollineo del proprio stato. Con questa nuova visione il dramma è completo.
Secondo tale dottrina bisogna intendere la tragedia greca come lo stesso coro dionisiaco, che di continuo si va sempre alleviando di un nuovo mondo figurativo apollineo. Le parti corali di cui la tragedia è intrecciata sono dunque in certo modo la matrice dell’intero così detto dialogo, vale a dire di tutto il mondo scenico, del vero e proprio dramma. Questa matrice originaria della tragedia produce la visione del dramma per opera di più parti succeduti l’uno all’altro; visione, che è assolutamente un’apparizione di sogno e perciò di natura epica, ma che, d’altra parte, essendo l’obiettivazione di uno stato d’anima dionisiaco, non rappresenta la liberazione apollinea nel mondo dell’apparenza, ma al contrario il sommergimento dell’individuo e la sua unificazione con l’uno primigenio. Per conseguenza il dramma è l’incarnamento apollineo di conoscenze e impressioni dionisiache, e perciò è separato dall’epos come da un enorme baratro.
In questo nostro concetto trova completa spiegazione il coro della tragedia greca, il simbolo dell’intera moltitudine invasa dall’eccitazione dionisiaca. Mentre prima, abituati alla situazione di un coro sulla scena moderna, specialmente di un coro di opera, noi non eravamo punto al caso di comprendere come mai il coro tragico dei greci potesse essere più antico, più originario, perfino più importante della vera e propria «azione», secondo che pure ci era tramandato con tanta chiarezza; mentre prima non riescivamo a conciliare quella tradizione dell’alta importanza e della primordialità del coro con la umiltà dei suoi componenti, esseri bassi e servili, anzi in principio esclusivamente satiri capribarbicornipedi; mentre la collocazione dell’orchestra davanti alla scena rimaneva per noi sempre un enimma; eccoci ora pervenuti alla conclusione, che fondamentalmente e originariamente la scena in uno con l’azione non fu pensata in altro modo che come visione, e che unica «realtà» è appunto il coro, il quale genera di sé, dal proprio intimo, la visione, e della visione parla con tutta la simbolica della danza, del suono e della parola. Questo coro nella sua visione contempla il suo signore e maestro Dioniso, e perciò è eternamente il coro servente: esso vede come il dio soffre e si glorifica, e quindi per proprio conto non agisce. Nonostante cotesta situazione affatto servile di fronte al dio, esso nulladimeno è l’espressione suprema, vale a dire dionisiaca, della natura, e, come questa, pronunzia nell’enlusiasmo detti oracolari e proverbi di sapienza: come compaziente esso è, insieme, il savio, che annunzia la verità dal cuore del mondo. Così nasce quindi la figura fantastica e tanto ripugnante del satiro sapiente ed entusiasta che, nello stesso tempo, in contrapposto al dio, è «il tonto uomo»: immagine della natura e dei suoi più forti istinti, vero simbolo di lei e, insieme, annunziatore della sua scienza ed arte; musico, poeta, danzatore tutto in uno, e contemplatore di spiriti.
Secondo questa teoria e secondo la tradizione, Dioniso, che è il vero e proprio protagonista scenico al centro della visione, in principio, nel periodo più antico della tragedia, non esiste veramente, ma solo viene ideato come se realmente ci fosse; vai quanto dire, che originariamente la tragedia è unicamente «coro» e non già «dramma». Solo più tardi si vinse la prova di presentare il dio come un personaggio reale, e di fare accessibile a ognuno l’immagine della visione insieme con la sua cornice trasfigurante; e così ebbe inizio il «dramma» propriamente detto. Nel quale il coro ditirambico riceve l’ufficio di movere fino al grado dionisiaco l’animo degli spettatori, in modo che, quando l’eroe tragico compare sulla scena, essi non vedano qualcosa come un uomo grottescamente mascherato, ma l’immagine propria della visione sorta dal loro stesso rapimento. Figuriamoci Admeto in preda al profondo sentimento della sposa Alceste troppo precocemente perduta, consumarsi nel rievocarla in ispirito; quando all’improvviso gli si fa innanzi velata una figura di donna che ha la stessa statura e lo stesso passo: figuriamoci il suo tremito repentino e la perplessità, la sua assomigliazione fulminea e la sua istintiva persuasione; e abbiamo così un quissimile dell’animo, con cui lo spettatore dionisiacamente eccitato vedeva comparire sulla scena il dio, con le passioni del quale era già divenuto tutt’uno. Egli involontariamente trasferiva su quella figura mascherata l’immagine del dio che col suo incanto magico gli teneva l’anima tutta tremante, e risolveva, per così dire, in una irrealtà immaginativa la sua realtà. Ed è questo lo stato apollineo di sogno, nel quale il mondo quotidiano viene a velarsi, e davanti ai nostri occhi, in continua vicenda, nasce un nuovo mondo più evidente, più intelligibile, più comprensibile di quello, eppure più simile ad ombra. Ragion per cui nella tragedia riscontriamo un energico contrasto di stile: lingua, colore, movimento, dinamica della parola, da una parte, nella lirica dionisiaca del coro, e, dall’altra, nel mondo di sogno apollineo della scena, appaiono come sfere di espressione completamente separate l’una dall’altra. Le apparizioni apollinee, nelle quali Dioniso si obiettiva, non sono più «un mare eterno, un instabile cangiamento, una vita ardente», come è la musica del coro; non sono più quelle forze meramente sentite e non chiarificate nell’immagine poetica, nelle quali il servente entusiasmato di Dioniso presente la vicinanza del dio: adesso gli parla dalla scena l’evidenza e la solidità della figura epica; adesso Dioniso parla non più per mezzo delle forze di un sentimento non discriminato, ma parla come un eroe epico, quasi col linguaggio di Omero.