La Nascita della Tragedia/Capitolo IX
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Capitolo IX.
Tutto ciò che sale alla superficie nella parte apollinea della tragedia greca, nel dialogo, appare semplice, trasparente, bello. In questo senso il dialogo è un’immagine degli elleni, la cui natura si manifesta nella danza, giacché nella danza il colmo della forza è meramente potenziale, ma si tradisce nella flessuosità ed esuberanza del movimento. Il linguaggio degli eroi sofoclei ci meraviglia tanto con la sua precisione e chiarezza apollinea, che crediamo di guardare subito fino al fondo del loro essere, non senza stupirci che la via di arrivo a quel fondo sia così breve. Se però astraiamo un momento dal carattere dell’eroe che si para davanti sulla superficie e diventa visibile, e che, del resto, non è altro che un’immagine luminosa gittata su una parete oscura, vale a dire assoluta apparenza; se piuttosto penetriamo nel mito che sbattimenta coteste figure, noi avvertiamo subito un fenomeno, che ha un rapporto inverso con un noto fenomeno ottico. Quando, sforzatici violentemente di tener fisse le pupille nel sole, ce ne stacchiamo abbagliati, noi abbiamo davanti agli occhi delle macchie cupamente colorate, che fanno, per così dire, da rimedio all’abbagliamento: al contrario, le apparizioni luminose dell’eroe sofocleo, in una parola, l’aspetto apollineo della maschera, sono prodotti necessari dell’aver guardato nell’intimo e nel terribile della natura, cioè sono esse stesse, per così dire, macchie lucenti a soccorso dell’occhio offeso dall’orribile tenebra. Solo in questo senso ci è dato credere di comprendere congruentemente il concetto serio e importante della «serenità greca»; laddove per tutte le strade e i sentieri del presente incontriamo invece il concetto falsamente inteso di cotesta serenità, interpetrata come inattaccabile benestare.
Il personaggio più doloroso della scena greca, l’infelice Edipo, fu inteso da Sofocle come la figura dell’uomo nobile, che nonostante la sua saggezza è destinato all’errore e alla miseria, ma che alla fine, stesso in virtù del suo enorme patire, esercita intorno a sé un incanto benedetto, duraturo ed efficace anche dopo la sua morte. L’uomo nobile non pecca mai, vuol dirci l’animo profondo del poeta: vada pure in fascio, per sua opera, ogni legge, ogni ordine naturale, perfino lo stesso mondo morale: ebbene, appunto per l’opera sua sarà messa in moto una più alta sfera magica di azioni, che va a fondare un nuovo mondo sulle rovine del vecchio andato in precipizio. Ciò vuole istillarci il poeta, in quanto è, insieme, pensatore religioso: come poeta egli principia col mostrarci un groviglio processuale prodigiosamente intricato, che il giudice scioglie lentamente, nodo su nodo, a sua propria perdizione: il godimento schiettamente ellenico per tale soluzione dialettica è tanto grande, che un raggio di serenità superiore ridonda su tutta l’opera, e spiana dovunque le punte ripugnanti degli orrori che hanno preceduto il processo. La stessa serenità incontriamo nello «Edipo a Colono», ma trasfigurata nell’altezza di una luce infinita: di contro al vegliardo soverchiato dall’eccesso della miseria, e che cade in preda a tutto ciò che lo soverchia non altrimenti che come paziente, si spande la serenità oltramondana irradiata della sfera divina, la quale ci significa che l’eroe col suo contegno passivo ha raggiunto la suprema attività, che serberà una lunga efficacia sulla sua vita, laddove il suo conscio e voluto sforzarsi e travagliarsi nel corso precedente della sua esistenza non lo ha condotto ad altro che alla passività. In tal modo si viene lentamente distrigando il groviglio della favola di Edipo che all’occhio mortale sembrava insolubile, e da questa divina contfascena della dialettica è suscitata in noi la più profonda allegrezza umana. Resa giustizia, con questa spiegazione, al poeta, possiamo però tuttora domandarci, se con ciò il contenuto del mito è risolto interamente; e qui risulta chiaro, che tutta la concezione del poeta non è altro che quell’immagine luminosa che a noi riserva la natura risanatrice, dopo che abbiamo guardato nel tetro fondo. Edipo, l’uccisore di suo padre, il marito di sua madre, Edipo, il solutore dell’enigma della sfinge: che cosa ci dice la misteriosa triplicità di cotesti atti fatali? Un’antichissima credenza popolare, propriamente parsia, dice che solo dall’incesto1 può nascere un mago sapiente: cosa che rispetto a Edipo, solutore dell’enimma e marito di sua madre, dobbiamo subito interpetrare nel senso, che dove la potenza magica ha violato la via del presente e del futuro, la rigida legge dell’individuazione e in generale l’incantesimo proprio della natura, tutto ciò dev’essere proceduto, come dalla sua causa, da una enormezza contro natura, quale è, in questo caso, l’incesto; giacché, come mai si potrebbe sforzare la natura a lasciar andare i propri segreti, se non combattendola vittoriosamente, e cioè con mezzi innaturali? Io vedo impressa appunto cotesta teoria sull’atroce triplicità del destino di Edipo: lo stesso uomo che scioglie l’enimma della natura, vai quanto dire della sfinge biforme, deve anche infrangere le più sacre leggi naturali come uccisore del padre e marito della madre. Proprio così: il mito sembra che voglia susurrarci, che la sapienza, e propriamente la sapienza dionisiaca, è un’abominio contro natura; che chi col suo sapere precipita la natura nell’abisso dell’annientamento, deve provare anche su sé medesimo la dissoluzione della natura. «La punta della sapienza si rivolta contro il sapiente: la sapienza è un delitto contro la natura»: tali sono le terribili sentenze che ci grida il mito: ma il poeta ellenico tocca come un raggio di sole la sublime e tremenda colonna memnonica del mito, talché essa d’un subito principia a risuonare; e risuona delle melodie sofoclee!
Alla gloria della passività contrappongo la gloria dell’attività, che illumina il Prometeo di Eschilo. Ciò che il pensatore Eschilo voleva dirci, ma che il poeta ci fa solo presentire con la sua immagine allegorica, ce lo ha saputo rivelare il giovane Goethe nelle ardimentose parole del suo Prometeo:
Qui saldo io sto, ed uomini |
L’uomo, esaltandosi all’altezza titanica, conquista da sé la propria civiltà e costringe gli dèi ad allearsi con lui, perché col crescere autarchico della sua sapienza ha in propria mano l’esistenza e i suoi limiti. Ma in quel poema di Prometeo, che, secondo il pensiero fondamentale del Goethe, è il vero e proprio inno dell’empietà, la meraviglia più grande è la profonda movenza eschilea alla giustizia: l’incommensurabile dolore dell’ardito singolo» da una parte, e dall’altra la divina distretta, anzi il presentimento di un crepuscolo degli dèi, la potenza che preme quei due mondi di patimento alla conciliazione, all’unificazione metafisica; tutto ciò ricorda nel modo più energico il punto centrale e la tesi capitale della concezione eschilea del mondo, la quale sopra gli dèi e gli uomini vede sovraneggiare la Moira, come eterna giustizia. Dato il meraviglioso ardimento con cui Eschilo pone il mondo olimpico sulla bilancia della giustizia, ci è lecito opinare, che il profondo poeta greco appoggiasse i suoi misteri sopra un fondo irremovibilmente saldo di pensiero metafisico, onde tutti i suoi assalti scettici potessero scaricarsi sugli Olimpici. Rispetto a tali divinità l’artista greco provava in particolare un oscuro sentimento di dipendenza reciproca: e questo sentimento è simboleggiato appunto nel Prometeo eschileo. L’artista titanico trovava in sé la fede e l’orgoglio di possedere la potenza di creare uomini e almeno la forza di annientare gli dèi olimpici; e ciò in virtù della sua alta sapienza, che purtroppo era costretto a espiare con un eterno patire. Il magnifico «potere» del genio, che perfino con l’eterno dolore è scontato troppo poco, il duro orgoglio dell’artista, ecco il contenuto e l’anima della poesia eschilea, laddove Sofocle col suo Edipo intona l’inno vittorioso della santità. Ma anche con la significazione datagli da Eschilo, lo stupefacente abisso di terrore del mito non è misurato tutto: anzi la gioia di creare dell’artista, la serenità della creazione artistica di fronte a ogni sventura, non è altro che una distesa luminosa di cielo e di nubi, specchiata nel fosco lago della tristezza. Il mito di Prometeo è originariamente un’eredità comune della razza ariana, ed è un documento della sua attitudine alla profondità tragica; anzi si direbbe non senza verosimiglianza, che esso rispetto al genio ario possiede ingenita proprio la stessa caratteristica importanza, che per la stirpe semitica ha il peccato originale; e che tra i due miti corre il medesimo grado di parentela, che tra fratello e sorella. Il presupposto del mito prometeico è l’inestimabile valore che una umanità ingenua assegna al fuoco, come al vero palladio di ogni civiltà nascente e ascendente; ma che l’uomo disponga liberamente del fuoco, e che non lo riceva punto come un esclusivo dono del cielo in forma di folgore accendifuoco o di calore riscaldante del sole, cotesto ai contemplanti uomini primitivi parve empietà, parve una rapina alla natura degli dèi. E così stesso, il primo problema filosofico pianta un penoso e insolubile contrasto tra l’uomo e dio, e lo trascina come un macigno sulla soglia di ogni civiltà. Il bene migliore e più alto, a cui sia dato all’umanità di partecipare, lo consegue a prezzo di un misfatto: essa deve dunque accettarne le conseguenze, cioè tutto intero il torrente di dolori e di affanni, col quale i celesti offesi mettono a prova l’uman genere anelante a nobili cose: che è un’austera idea, la quale, per la dignità che conferisce al delitto, contrasta stranamente col peccato originale semitico, in cui la curiosità, la bugiarda lusinga, la seduzione, la cupidigia, in una parola, una filza di passioni prevalentemente femminili, vengono riguardate come origine del male. Ciò che segnala la concezione aria, è l’elevata idea del peccato attivo, quale virtù specificamente prometeica; nel che si riscontra, insieme, il fondo etico della tragedia pessimistica, come giustificazione dell’umano male, e quindi tanto della umana colpa quauto del patire che ne consegue. L’avversità nell’essenza delle cose, sulla quale l’ario meditativo non è disposto a sottilizzare e spacciarsene, il contrasto nel cuore del mondo gli si palesa come un miscuglio di mondi diversi, per esempio di un mondo divino e uno umano, dei quali ciascuno come individuo ha il suo pieno diritto, ma come singolo accanto all’altro deve soffrire per la propria individuazione. Il singolo col suo impeto eroico verso la universalità, col tentativo di sormontare la via dell’individuazione e diventare esso medesimo un solo essere universale, ripaga a prezzo di sé stesso il contrasto originario celato nelle cose; vale a dire misfà e patisce. Perciò gli arii concepiscono il delitto come maschio, i semiti il peccato come femmina; in modo che il delitto originale è commesso dall’uomo, il peccato originale dalla donna. D’altronde il coro delle streghe canta:
Noi non andiamo con troppo rigore: |
Chi comprende l’intimo nocciolo del mito di Prometeo, vale a dire la necessità del misfatto imposta all’individuo anelante alla potenza titanica, sentirà insiememente anche ciò che di non apollineo contiene cotesta idea pessimista; giacché Apollo vuol condurre alla calma gli esseri singoli appunto tracciando tra loro le rispettive linee limitative, e tenendole sempre loro presenti, come le più sacre leggi universali, coi suoi precetti di conoscenza di sé e di misura. Ma affinché con questa tendenza apollinea la forma non si congeli nella rigidità e freddezza egiziana; affinché nella sollecitudine di predeterminare alle singole onde il loro corso e la loro estensione, il moto di tutto il mare non resti morto, l’alta marea del senso dionisiaco sopravviene di tempo in tempo a rimescolare tutti quei piccoli cerchi, in cui la «volontà» unilateralmente apollinea cerca d’incantare e irrigidire l’ellenismo. 11 fiotto repentinamente sollevato del senso dionisiaco prendeva allora sul dorso le singole piccole cime ondulate degl’individui, come il fratello di Prometeo, il titano Atlante, prendeva sul dorso la terra. Cotesto impeto titanico, l’impeto, cioè, di diventare l’Atlante di tutti i singoli e di portarli sull’ampio dorso sempre più in alto e sempre più lontano, costituisce il punto comune tra il genio prometeico e il dionisiaco. Per tale riguardo il Prometeo eschileo è una maschera dionisiaca, laddove, per le tendenze sopra menzionate alla giustizia, Eschilo all’occhio intelligente tradisce la sua discendenza paterna da Apollo, il dio dell’individuazione e dei termini della giustizia. Talché la duplice essenza del Prometeo eschileo, la sua natura dionisiaca insieme e apollinea potrebbe tradursi in una forinola compendiosa così: «Tutto ciò che esiste è giusto e ingiusto, e come giusto e come ingiusto è egualmente giustificato».
Tale è il tuo mondo, ossia un mondo!
Note
- ↑ Presso i parsi una tale nascita non violava le leggi della natura: le loro leggi non vietavano il matrimonio tra consanguinei né in linea ascendente né in linea collaterale. Nemmeno presso i greci il matrimonio tra consanguinei era tenuto sacrilego: è notissimo il caso di Cimone, che sposò la sorella. A ogni modo questa rettificazione non infirma, nel caso specifico di Edipo, l’argomentazione di Nietzsche. (N. d. T.)
- ↑ Ho riportato la strofa nella recente traduzione di Benedetto Croce, che credo (cfr. Qui saldo io sto) sia la più ritraente, la più perspicace ed efficace.