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il satiro e il pastore 71


larmente sembrare all’occhio velato di dolore dell’uomo dionisiaco. Il pastore abbigliato, finto, lo avrebbe offeso: con sublime appagamento saziava l’occhio sugli aperti lineamenti della natura inviolatamente grandiosi: qui l’illusione della civiltà era spazzata via dall’immagine primordiale dell’uomo, qui si svelava l’uomo schietto, il satiro barbuto, giubilante al suo dio. Davanti a lui l’uomo incivilito rimprosciuttiva in una bugiarda caricatura. Anche rispetto a questi inizi dell’arte tragica Schiller ha ragione: il coro è un muro vivente contro la realtà irrompente, perché esso, il coro dei satiri, ritrae al vivo l’esistenza più veracemente, più realmente, più compiutamente che non faccia l’uomo incivilito, che comunemente si pretende di essere l’unica realtà. La sfera della poesia non è fuori del mondo, come l’impossibile fantasticheria di un cervello poetico: vuol essere precisamente il contrario, l’espressione, cioè, non imbellettata della verità, e appunto per questo deve respingere lungi da sé il menzognero ornamento della pretesa realtà dell’uomo incivilito. Il contrasto tra questa vera e propria verità naturale e la menzogna della civiltà atteggiatesi a unica realtà, è lo stesso che quello tra l’eterno nocciolo della cosa, della cosa in sé, e tutto quanto il mondo fenomenico; e come la tragedia con la sua consolazione metafisica indica la vita eterna di quel nocciolo esistenziale in mezzo al continuo trapasso dei fenomeni, così la stessa simbolica del coro dei satiri esprime allegoricamente quel rap-