La Nascita della Tragedia/Capitolo IV
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Capitolo IV.
L’analogia del sogno ci offre abbastanza esplicazioni su questo artista ingenuo. Quando ci rappresentiamo l’uomo che sogna nell’atto che, immerso nel mondo illusorio del sogno e senza turbarlo, dice a sé stesso: «è un sogno; voglio sognare ancora», e dobbiamo quindi dedurne che quello delle immagini sognate è un profondo piacere intimo, e che, d’altra parte, per godere questo intimo diletto dello spettacolo sognato, bisogna che dimentichiamo completamente la vita quotidiana e le sue terribili urgenze; noi siamo spinti a interpretare tufti questi fenomeni, sotto la guida di Apollo onirocritico, nel seguente modo. Certo, delle due metà della vita, la desta e la sognante, la desia sembra a tutti incomparabilmente la più preferibile, più importante, più degna, più meritevole di esser vissuta, anzi come la sola vissuta; ebbene, ad onta di qualunque apparenza di venir fuori con un paradosso, io, appoggiandomi su quel misterioso fondo dell’essenza nostra della quale noi siamo niente altro che un fenomeno, vorrei per contro affermare, che il valore del sogno non è minore dell’altro. Vale a dire, quanto più io avverto nella natura quei potenti istinti artistici mossi da un’anelanza ardente alle apparenze immaginarie, alla redenzione per virtù del mondo della fantasia, tanto più mi sento confermato nell’idea metafìsica, che il vero ente, che l’uno primigenio, come eterno sofferente e pieno di contraddizioni, ha insiememente bisogno, per la sua continua liberazione, della visione affascinante, della gaudiosa apparenza. Apparenza che noi, completamente presi in lei e in niente altro consistenti che in lei, siamo costretti a sentire come il vero non essere, ossia come il continuo divenire nel tempo, nello spazio e nella causalità, o, in altre parole, come realtà empirica. Se dunque astraiamo per un istante dalla nostra propria «realtà» e intendiamo la nostra esistenza empirica, e il mondo in generale, come una rappresentazione prodotta ogni momento dall’uno primigenio, ecco che il sogno deve avere per noi il valore di un’apparenza dell’apparenza, di un fenomeno del fenomeno, e, insieme, il valore di un appagamento anche più alto, dato alla brama originaria dell’apparenza. Questa stessa è la ragione per che l’intima essenza della natura gode un piacere indescrivibile davanti all’artista ingenuo e all’opera d’arte ingenua, che è parimente non altro che «apparenza di apparenza». Raffaello, che è egli stesso uno di quegl’» ingenui» immortali, ci ha rappresentato in un dipinto allegorico cotesta depotenziazione dell’apparenza dell’apparenza, ossia il processo originario dell’artista ingenuo e, insieme, della cultura apollinea. Nella Trasfigurazione la metà inferiore del quadro col ragazzo ossesso, con gli uomini disperati che lo conducono, coi discepoli in angustie e che non sanno che fare, ci dà lo specchio dell’etewio dolore primordiale, della ragione unica del mondo, qui l’«apparenza» è il riflesso dell eterno contrasto, padre delle cose. Ma da questa apparenza sale in alto, come un vapore di ambrosia, la visione di un altro mondo nell’apparenza, della quale nulla vedono i personaggi avvolti in quella di sotto; ed ò un luminoso librarsi nel più puro gaudio e in una contemplazione immacolata dal dolore, irradiata da occhi lontani. Qui abbiamo davanti allo sguardo, nella suprema simbolica dell’arte, il mondo apollineo della bellezza e il suo sostrato, la terribile sapienza di Sileno, e per mezzo dell’intuizione comprendiamo la necessità della sua reciprocanza. E Apollo ci torna davanti come la deificazione del principium individuationis, nel quale, e in esso soltanto, si compie il fine eternamente raggiunto dell’uno primigenio e la sua liberazione per mezzo dell’apparenza: egli col sublime atteggiamento ci mostra che tutto il mondo del travaglio è necessario, affinché l’individuo ne venga spinto a produrre la visione liberatrice, e quindi, immerso nella contemplazione di quella, stia tranquillo sul suo schifo trabalzato, in mezzo al mare.
Cotesta deificazione dell’individuazione, quando è pensata generalmente come imperativa e prescrittiva, conosce solamente una legge, l’individuo, vale a dire la determinazione dei limiti dell’individuo, la misura nel senso ellenico. Apollo, come divinità etica, esige dai suoi la misura e, perché venga osservata, la conoscenza di sé. Perciò la necessità estetica della bellezza è accompagnata dall’esigenza del «conosci te stesso!» e del «non troppo!»; laddove la superbia e la dismisura sono riguardate come i demoni propriamente ostili appartenenti alla sfera non apollinea; e quindi come le qualità peculiari dell’età preapollinea, dell’età titanica, e del mondo estraapollineo, ossia del mondo barbarico. A causa del suo amore titanico agli uomini Prometeo dovè essere straziato dall’avoltoio, a causa della sua sapienza fuor di misura, che sciolse l’enigma della Sfinge, Edipo dovè precipitare in un turbine inesplicabile di misfatti: in questo modo il dio delfico interpetrava gli antichissimi eventi della Grecia.
I greci apollinei giudicavano «titanico» e «barbarico» anche l’effetto suscitato dal senso dionisiaco, senza peraltro dissimularsi che questo era nello stesso tempo intimamente affine a quei titani ed eroi abbattuti. Dovevano anzi confessare a sé stessi anche di più: che, cioè, la loro intera esistenza con tutta la sua bellezza e misuratezza era piantata su un fondo nascosto di dolore e di conoscenza, che lo spirito dionisiaco rimetteva in mostra. E guarda! Apollo non poteva vivere senza Dioniso! In ultima analisi il «titanico» e il «barbarico» erano altrettanto una necessità, quanto l’apollineo! E ora immaginiamo con quale fascino sempre più attraente dovè spandersi in questo mondo fondato sull’apparenza e la proporzione, e artisticamente circoscritto, il suono estatico dei festeggiatori di Dioniso, e con quale strepito, fino al grido lacerante, dovè traboccarvi tuttala smisuratezza della natura in gioia e dolore e conoscenza; immaginiamo che cosa potesse significare, davanti a cotesta cantata demoniaca di un popolo in tripudio, la salmodia dell’artista di Apollo, esalta tra i sospiri dell’arpa! Le muse dell’arte dell’«apparenza» impallidirono davanti a un arte che nella sua ebbrezza diceva la verità: in faccia ai sereni celiceli dell’Olimpo la saggezza di Sileno gridò guai! guai! L’individuo adesso, con tutti i suoi limiti e misure, si sommerse nell’oblio di sé stesso, proprio dello stato dionisiaco, e dimenticò i precetti di Apollo. La dismisura si palliò come verità; la contraddizione, la voluttà sbocciata dal dolore, trovò da sé il suo linguaggio sgorgando dal cuore della natura. E così, da per tutto dove penetrò il senso dionisiaco, l’apollineo fu soppiantato e annientato. Ma è altrettanto certo, che dove il primo assalto fu sostenuto, l’autorità e la maestà del dio delfico si mostrarono più rigide e minacciose che mai. Io non potrei spiegarmi altrimenti lo stato dorico e l’arte dorica, che come una fortezza avanzata del pensiero apollineo: un’arte così fieramente cruda, circondata di bastioni, un’educazione così guerriera e aspra, una costituzione statale così feroce e disumana non è ammissibile che durasse a lungo, se non come una resistenza pertinace all’essenza titano-barbarica dell’impulso dionisiaco.
Fin qui ho svolto l’argomento con cui aveva principiato questa trattazione: che, cioè, il senso dionisiaco e l’apollineo hanno dominato l’essenza dell’ellenismo con sempre nuove rinascite seguenti l’una all’altra, e rincarando a vicenda l’uno sull’altro; che dall’epoca del «bronzo», con le sue titanomachie e l’aspra filosofia popolare si sviluppò il mondo omerico guidato dall’istinto apollineo della bellezza; che questo dominio «ingenuo» venne di nuovo inghiottito dall’irrompente flutto dionisiaco, e che in faccia a questa novella potenza lo spirito apollineo si levò nella rigida maestà dell’arte e della concezione dorica del mondo. Se in tal modo, nella contesa di questi due grandi principii ostili, la vetusta storia greca si divide in quattro grandi periodi artistici, noi ci vediamo indotti a domandarci quale sia ancora l’estremo disegno di questo divenire e di questo impulso, posto che il periodo ultimo e più ricco, quello dell’arte dorica, non possa minimamente valere come il fastigio e il fine di cotesto istinto artistico: ed ecco che si offre al nostro sguardo la sublime e celebrata opera della tragedia attica e del ditirambo drammatico, quale meta comune dei due istinti, il cui misterioso consorzio, dopo un lungo contrasto di preparazione, ebbe il suggello di gloria in una tale figlia, che è, insieme, Antigone e Cassandra.