La Nascita della Tragedia/Capitolo V
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Capitolo V.
Ci appressiamo ora al vero e proprio scopo della nostra ricerca, che mira alla conoscenza del genio dioniso-apollineo e del suo capolavoro, o almeno alla comprensione, piena di presentimento, del mistero di cotesta unione. E principiamo col chiederci dove mai nel mondo ellenico venga in luce la prima volta quel nuovo germe, che poi si svolge fino alla tragedia e al ditirambo drammatico. Su ciò l’antichità stessa ci dà effigiata la notizia, quando nelle sculture, nelle gemme e simili, ritrae l’uno accanto all’altro Omero e Archiloco come progenitori e lampedefori della poesia greca, col fermo sentimento, che soli questi due erano da riguardarsi come le nature egualmente e pienamente originali, onde poi scaturì e si sparse una lava di fuoco su tutta la posterità greca. Omero, il canuto sognatore immerso in sé stesso, il tipo dell’artista apollineo, ingenuo, eccolo guardare stupito la testa passionata del battagliero alunno delle muse, Archiloco, fieramente incalzato tra le vicissitudini dell’esistenza: l’estetica moderna null’altro saprebbe chiaramente aggiungervi, se non che qui all’artista «obiettivo» è contrapposto il primo artista «subiettivo». Solo che a noi questa dilucidazione giova poco, perchè noi riguardiamo l’artista subiettivo meramente come cattivo artista, esigiamo sopra tutto e prima di tutto in ogni forma e altezza di arte la vittoria sul subiettivo, la liberazione dall’«io» e il tacimento di ogni volontà e motivo individuale; anzi non possiamo affatto credere alla minima produzione artistica senza obiettività, senza l’intuizione pura e disinteressata. Occorre perciò che la nostra estetica risolva in primo luogo il problema, come mai è possibile il «lirico» come artista: proprio desso, che, stando all’esperienza di tutti i tempi, dice sempre «io» e ricanta innanzi a noi l’intera gamma cromatica delle sue passioni e delle sue aspirazioni. Allato a Omero, per l’appunto cotesto Archiloco ci spaventa, col suo grido di odio e di scherno, collo scoppio insensato delle sue brame: è egli il primo artista così detto subiettivo, oppure è propriamente il non artista? Ma allora donde nasce il rispetto, che proprio l’oracolo di Delfo, il focolare dell’arte «obiettiva» ha dimostrato a lui, al poeta, in memorandi responsi?
Lo Schiller ci ha illuminati sul processo del suo poetare con una osservazione psicologica a lui stesso inesplicabile, ma che a noi non sembra dubbia: confessa, cioè, di non avere davanti a sé e in sé, come stato preparatorio all’atto della creazione poetica, qualcosa come una serie d’immagini con una catena causale di pensieri, ma piuttosto una disposizione musicale dell’animo. («Il sentimento in me sul principio non ha un oggetto determinato e chiaro: questo si forma più tardi. Precede una certa predisposizione musicale dell’animo, dopo la quale l’idea poetica principia ad apparire»). Se ora aggiungiamo a ciò il fenomeno più importante dell’intera lirica antica, la quale dovunque significa unificazione naturale anzi identità del lirico col musico, davanti a cui la nostra lirica moderna sembra l’immagine di un dio senza testa, noi possiamo bene, fondandoci sui principii sopra esposti della nostra metafisica estetica, spiegare il lirico nel modo seguente. Egli, come artista dionisiaco, comincia col diventare completamente uno con l’uno primigenio e col suo dolore e contrasto, e rende come musica l’immagine di quest’uno primigenio, giacché la musica ben a ragione è stata denominata una riproduzione del mondo e un suo secondo getto; ma poi, sotto l’azione apollinea del sogno, la musica per lui diventa visibile, come una visione simbolica di sogno. Il riflesso, senza immagine e senza idea, del dolore primordiale nella musica, risolvendosi nell’apparimento della visione, produce poi un secondo riflesso, come unico simbolo o esempio. L’artista ha già abnegato la propria subiettività nel processo dionisiaco: l’immagine, che ora gli mostra la sua unità col cuore del mondo, è una scena di sogno, che gli rende sensibili e concreti, insieme col piacere originario della parvenza, il contrasto e il dolore originari. L’«io» del lirico sale dunque e risuona dal fondo dell’essere; la sua «subiettività», nel senso inteso dagli esteti moderni, è un abbaglio. Quando Archiloco, il primo lirico greco, manifesta il suo folle amore e, insieme, il suo sdegno per le figlie di Licambo, non punto la sua passione impazza davanti a noi in vertigine orgiastica: noi vediamo, invece, Dioniso e le menadi, e vediamo l’ebbro tripudiatore Archiloco cascato giù nel sonno; nel sonno quale ce lo descrive Euripide nelle Baccanti, quello che piglia in cima alle montagne in pieno sole di mezzodì; e Apollo gli si avvicina e lo tocca con l’alloro. E l’incantesimo dionisiaco-rausicale del dormente sprizza, per così dire, d’intorno in scintille d’immagini, in poemi lirici, che nel loro massimo svolgimento si chiamano poi tragedie e ditirambi drammatici.
L’artista plastico, e con lui il poeta a lui affine, l’epico, è immerso nella intuizione pura delle immagini. Invece il musico dionisiaco non vede alcuna immagine; egli è completamente e unicamente lo stesso dolore primordiale ed echeggio di quel dolore. Il genio lirico sente sorgere dalla propria abnegazione mistica e dalla propria identificazione con l’uno primigenio un mondo d’immagini e di simboli, che ha un colorito, una causalità e una rapidità di movimento affatto diversi dal mondo dell’artista plastico e del poeta epico. Laddove quest’ultimo vive con dilettoso compiacimento in coteste immagini ed unicamente in esse, e non si sazia di contemplarle amorosamente fino ai lineamenti più impercettibili; laddove perfino l’immagine dell’irato Achille non è altro per lui che un’immagine, la cui espressione collerica egli gode con quel suo gusto di sogno alla visione, in modo che da questo stesso specchio della visione egli è protetto dall’identificarsi e fondersi con le sue figure; all’opposto le immagini del lirico non sono altro che egli stesso e, per così dire, non sono altro che diverse obiettivazioni di sé stesso, tanto che egli può dire «io» appunto perché è il centro motore di quel mondo; con questo, però, che cotesto «io» non è punto lo stesso «io» dell’uomo desto, dell’uomo empirico-reale, sibbene è l’«io» unico, universale ed eterno, vivente in fondo a tutte le cose, attraverso il riflesso del quale il genio lirico penetra con l’occhio del sentimento appunto in cotesto fondo di tutte le cose. Se ora noi immaginiamo che in mezzo a coteste figurazioni egli veda anche sé stesso come non genio, ossia veda anche il proprio «subietto», veda tutto quanto il groppo delle passioni e volizioni subiettive indirizzate a uno scopo determinato che a lui sembra reale; se ora pare quasi che il genio lirico sia uno col non genio a lui legato, e che il primo parli di sé quando pronunzia il monosillabo «io»; rimane stabilito, che questa parvenza non può più trarci in inganno, come ha indubbiamente tratto in inganno coloro che hanno qualificato il lirico come poeta subiettivo. In verità Archiloco, l’uomo infiammato dalle passioni, ardente di amore e di odio, è meramente una visione del genio, che non è più Archiloco, bensì è il genio universale, che esprime simbolicamente il dolore primordiale nella figura dell’uomo Archiloco; laddove l’uomo Archiloco, che ha le sue volizioni e brame subiettive, non è in sostanza né può mai essere poeta. Se non che, non è affatto necessario, che il lirico non veda proprio nient’altro davanti a sé che il fenomeno dell’uomo Archiloco come riflesso dell’essere eterno; e la tragedia dimostra, di quanto il mondo fantastico del lirico possa dilungarsi da quel fenomeno, che senza dubbio gli è affine.
Lo Schopenhauer, che non si nasconde la difficoltà che suscita il problema del poeta lirico nello studio filosofico dell’estetica, crede di aver trovato un espediente, in cui non posso seguirlo: eppure egli solo, nella sua profonda metafìsica della musica, aveva a portata il mezzo decisivo per spacciarsi di quella difficoltà; come, interpretando il suo spirito e ad onor suo, credo di aver fatto io. Per contro, egli determina la peculiare essenza del canto nel modo seguente (Il mondo come volontà e rappresentazione, I, S. 295): «Ciò che la coscienza di chi canta sente, ò il soggetto della volontà, vale a dire il proprio volere, sovente come volontà affrancata, liberata (gioia), ma più sovente come volontà tarpata (tristezza), ma sempre come affetto, passione, commozione. Solo che accanto a questo stato emotivo e insieme con questo, chi canta acquista anche, alla vista della natura circostante, la coscienza di essere soggetto della conoscenza pura, scevra di volontà, la cui calma imperturbabile e beata viene tanto più a contrasto con l’insistenza del volere sempre limitato, sempre indigente: il sentimento di tale contrasto, di tale alternazione, costituisce propriamente ciò che viene espresso nella sostanza del canto, e che forma in generale lo stato lirico. Nel quale la conoscenza pura ci viene, per così dire, incontro, per liberarci dal volere e dalle sue strette: e noi la seguiamo; ma solo pel momento: il volere, il pensiero dei nostri fini personali ritorna sempre a strapparci alla nostra tranquilla contemplazione; ma, del pari, è sempre lì a sottrarsi nuovamente al volere l’immediata e bellavista delle cose che ci circondano, e che ci dànno la conoscenza pura, scussa di volontà. Perciò nel canto e nella disposizione lirica dell’animo il volere (l’interesse personale dei fini) e la pura intuizione delle cose intorno sono mirabilmente commisti tra loro: vengono cercati e immaginati rapporti tra l’uno e l’altra: la disposizione subiettiva, la passione del volere partecipa alle cose intuite intorno, e queste partecipano a quella, il proprio colore e il proprio riflesso: lo schietto canto è l’espressione di tutto quanto cotesto stato d’animo così commisto e diviso».
Chi si attenderebbe a disconoscere, che in cotesta descrizione la lirica viene caratterizzata come un’arte imperfettamente raggiunta, che va alla meta solo, per così dire, saltelloni e di rado; insomma come una mezza arte, la cui essenza consista in questo, che la volontà e la pura intuizione, vale a dire lo stato d’animo estetico e lo stato inestetico, vadano mirabilmente commisti tra loro? Noi invece affermiamo, che tutto il contrasto secondo il quale anche lo Schopenhauer divide le arti come con un coltello che le scinde in valori contrari, cioè il contrasto del subiettivo e dell’obiettivo, precisamente nell’estetica è affatto improprio, perché il subietto, ossia l’individuo volente e perseguente i suoi fini egoistici, può pensarsi solamente come avversario e non già come genitore dell’arte. Infatti il subietto, in quanto artista, è già liberato per ciò stesso del suo volere individuale ed è divenuto, per così dire, un medium, per mezzo del quale un soggetto realmente esistente celebra la propria liberazione nella visione artistica. Giacché, a nostra umiliazione ed esaltazione, bisogna che noi ci rendiamo chiaro conto di questo, che tutta la commedia delle arti non è eseguita affatto per noi, per una nostra qualsiasi edificazione o educazione, anzi, che noi non siamo minimamente i veri e propri creatori del mondo dell’arte; ma che solo ci è dato riceverlo dal nostro intimo, perché noi stessi pel vero creatore di quel mondo non siamo più che immagini e proiezioni artistiche, e la nostra suprema dignità consiste appunto nell’importanza che abbiamo come opere d’arte; essendo che l’esistenza ed il mondo sono eternamente giustificati solo come fenomeno estetico: laddove indubitabilmente la nostra coscienza di tale nostra importanza estetica a stento differisce da quella, che i guerrieri dipinti su una tela hanno della battaglia ivi rappresentata. Per conseguenza tutto il nostro sapere artistico in fondo è completamente illusorio, perché noi, come coscienti, non facciamo uno né siamo identici con l’essere il quale, come unico creatore e spettatore della commedia artistica, ne apparecchia a sé stesso un eterno godimento. Solo in quanto nell’atto della produzione artistica il genio si fonde con l’artista primigenio del mondo, egli sa qualcosa dell’eterna essenza dell’arte; giacché solo in quell’istante egli somiglia in modo meraviglioso all’arcana immagine della favola, che può rivolgere gli occhi su sé e contemplare sé stessa: allora egli è insiememente soggetto e oggetto, è insiememente poeta e attore e spettatore.