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atto secondo 27


che vada errando.

Merope.   È ver purtroppo.
Euriso.   Or sappi
che quel misero avea superbe spoglie
e ricchi arredi.
Merope.   Se quest’è, Cresfonte
ei per certo non fu; tu ben ragioni.
Ma quali furon queste spoglie e dove
sono?
Euriso.   Io di esse questa sola gemma
vo’ che tu vegga: con fatica Adrasto
a le mie mani l’affidò; rimira
se un tesoro non vale.
Merope.   O quanto, Euriso,
io tenuta ti sono! Oimé, traveggio?
Aita, o Dèi, si ch’io non mora in questo;
punto.
Ismene.   Che sará mai?
Euriso.   Pensar nol posso.
Merope.   Ah ch’io non erro! È dessa. Questa gemma
avea dunque colui che fu trafitto?
Euriso.   Aveala; or che ti turba?
Merope.   Avete vinto,
perverse stelle; or sarai sazia, o sorte:
vibrato hai pur l’ultimo colpo; o Dèi!
Euriso.   Io son confuso.
Ismene.   Il cor palpita e trema.
Merope.   Questo è l’anel che col bambino io diedi
a Polidoro e ch’io di dar gl’imposi
al figlio mio, se mai giungesse a ferma
etade; egli vi giunse, oimé, ma in vano.
Euriso.   Deh che mai sento!
Ismene.   O maraviglia!
Merope.   Io madre
giá piú non sono; ogni speranza è a terra.
Ismene.   Deh che forse tu sbagli! E come vuoi