Atto terzo

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Atto secondo Atto quarto

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ATTO TERZO

SCENA I

Polifonte e Adrasto.

Polifonte.   Con sí gran fretta io ti richiesi, Adrasto

perché felici, alte novelle io sono
impaziente di versarti in seno.
Cresfonte è morto, ei fu colui che al ponte
trucidato restò. Dirmi or ben posso
re di Messenia, or posso dir che al fine
incomincio a regnar.
Adrasto.   Veduto ho sempre
creder l’uom di leggèr ciò che desia.
E chi recò si gran novella?
Polifonte.   Un servo
di Merope, che quanto a lui riesce
di penetrar mi svela, a ragguagliarmi
corso è pur or com’ella su tal morte
smania e il segreto, che per lunga etade
tacque sí cauta, or forsennata il grida
crucciandosi d’aver con tanti inganni
e con tanto sudor sol conseguito
di fabricarsi una maggior sventura.
Adrasto.   E tu a lei presti fede? E perché mai
chi mentito ha vent’anni or dirá il vero?

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Polifonte.   Tu sospetti a ragion; ma io no ’l credo

ai detti suoi, al suo dolore il credo.
Videla il servo lacerata il crine,
di pianto il sen, piena di morte il volto,
videla sorger furibonda e a un ferro
dar di piglio, impedita a viva forza
dall’aprirsi nel seno ampia ferita.
Or freme ed urla, or d’una in altra stanza
sen va gemendo e chiama il figlio a nome;
qual rondine talor che ritornando
non vede i parti e trova rotto il nido,
ch’alto stridendo gli s’aggira intorno
e parte e riede e di querele assorda.
Adrasto.   Ma come mai ciò rilevò?
Polifonte.   Ben chiaro
ciò non comprese il servo; ma assicura
che a dubitar loco non resta.
Adrasto.   Or dunque
felice te, per cui tutto combatte,
e in cui favor s’è armato il caso ancora.
Non sol di tôrre il tuo rival dal mondo,
ma s’è presa anche cura la fortuna
di risparmiare a te il delitto.
Polifonte.   Ho imposto
che si disciolga l’uccisor, sol ch’egli
del palagio non esca; or vo pensando
se il giá prefisso a me troppo noioso
imeneo tralasciar si possa. Il volgo
non ha piú che sperar, né ci ha in Messene
chi regger voglia temerarie imprese.
D’altra parte non è sprezzabil rischio
l’avvicinarsi quella furia; imbelle
domestico nimico assai piú temo
che armato in campo, e tu ben sai che offesa
femmina non perdona.
Adrasto.   Anzi ora è il tempo

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di dare omai con ciò l’ultimo impulso

ai voler vacillanti e per tal morte
resi dal disperar vêr te piú miti.
Certo esser dèi che acquisterá piú lode
quest’apparenza di pietá, che biasmo
cento oscuri misfatti. Dell’altera
Merope dopo ciò fanne tuo senno.
Quanto d’atroce sen spargesse allora
perderá fede presso il volgo e tutto
maldicenza parrá. Vuolsi non meno
ben tosto ampia inalzar funerea pompa
e con lugubre onor, con finto pianto
del tuo nemico celebrar la morte,
sí per mostrar d’aver cangiato il core,
come per publicar ciò che ti giova.
Polifonte.   Tutto si faccia, e poiché vuol Messene
esser delusa, si deluda. Quando
saran da poi sopiti alquanto e quieti
gli animi, l’arte del regnar mi giovi.
Per mute, oblique vie n’andranno a Stige
l’alme piú audaci e generose. Ai vizi,
per cui vigor si abbatte, ardir si toglie,
il freno allargherò. Lunga clemenza
con pompa di pietá farò che splenda
sui delinquenti, ai gran delitti invito,
onde restino i buoni esposti e paghi
renda gl’iniqui la licenza, ed onde
poi fra sé distruggendosi in crudeli
gare private, il lor furor si stempri.
Udrai sovente risonar gli editti
e raddoppiar le leggi che al sovrano
giovan servate e trasgredite. Udrai
correr minaccia ognor di guerra esterna,
ond’io n’andrò su l’atterrita plebe
sempre crescendo i pesi e peregrine
milizie introdurrò. Che piú? Son giunto

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{{poem t| dov’altro omai non fa mestier che tempo. Anche da sé ferma i domini il tempo. Adrasto.+1 Certo negar non si potrá che nato a regnar tu non sia. Quanto col grado, con la mente altrettanto altrui sovrasti.

Egisto e detti.

Egisto.   Eccelso re che i miseri difendi

e che i decreti di clemenza adorni,
sovra di te versi sempre il cielo
letizia e pace e ogni desir t’adempia.
Polifonte.   Il tuo delitto — se pur dèe delitto
dirsi il purgar d’uomini rei la terra —
poiché tanto valore in te palesa,
grazia seppe acquistar nel mio pensiero.
Egisto.   Qual si fosse il vigor che in quell’incontro
a mia difesa usai, finch’io respiri,
sarò pronto ad usarlo in tua difesa.
Polifonte.   Qual’è il tuo nome?
Egisto.   Egisto è il nome mio.
Polifonte.   Or io vorrei che di colui che oppresso
cadde sotto i tuoi colpi, ancor mi elèssi
piú precisa contezza.
Egisto.   Io giá ne dissi
quanto ne seppi, e a ciò che giá narrai
nulla aggiunger potrei.
Polifonte.   E pur si trova
chi n’ha notizie assai migliori. Il fatto
giá vedi che per me si approva e loda.
Nulla hai piú da temer, svelare or puoi
francamente ogni cosa: assai m’importa
quel ch’or ti chiedo. De l’ucciso il corpo,

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che forse del torrente altri giá trasse,

ho spedito a indagar; ma dimmi intanto
ciò ch’egli disse e ciò che seco avea,
ciò che togliesti tu, ciò che rimase.
Adrasto.   Signore, i’ veggio Ismene, indizio certo
che Merope s’appressa. Un sí noioso
incontro sfuggi e ’l primo impeto schiva
del suo dolor; lascia che a suo piacere
con l’uccisor favelli, onde scorgendo
che innocente pur sei di questo sangue,
nuovo motivo d’aborrir tue nozze
non le si desti in cor.
Polifonte.   Ben pensi, Adrasto.
né fia che tempo a investigar ci manchi.

SCENA III

Merope, Egisto e Ismene.

Ismene.   Egli è qui solo.

Merope.   Iniquo, orribil ceffo!
Or fa ch’Euriso accorra, e fa che indugio
non ci frammetta.
Egisto.   O regal donna, o esempio
di virtute e d’onor, lascia ch’io stempri
su le tue vesti in umil bacio il cuore.
Quella pietá che a rea prigion mi tolse
e che nell’ombre di mortal periglio
balenò a mio favor, certo son io
che da te il moto e da te preso ha il lume.
Gli eterni dèi pióvanti ognora in seno
tutti i lor doni, e se cader giá mai
dovessi in caso avverso, essi la mano
porgano a te, qual tu la porgi altrui.
Io per piú non poter dentro il mio core

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t’ergerò un tempio, in cui, finché lo spirto

reggerá queste membra, in qual mi porti
strania terra il destin, la tua memoria
e ’l beneficio tuo per te s’onori.
Ma tu torbida e in te raccolta ascolti,
se pur m’ascolti, né d’un guardo pure
mi degni: ingombrati forse alti pensieri
il regio seno e intempestivo io parlo.
Deh perdona il mio fallo e soffri ancora
ch’io di compir l’opra ti prieghi: intera
la libertá sospiro, i patri amati
lari tu sola puoi far ch’io riveggia
ed in te sola ogni mia speme è posta.

SCENA IV

Euriso, Ismene e detti.

Euriso.   Eccomi a’cenni tuoi.

Merope.   Tosto di lui
t’assicura.
Euriso.   Son pronto; or piú non fugge,
se questo braccio non ci lascia.
Egisto.   Come!
e perché mai fuggir dovrei? Regina,
non basta dunque un sol tuo cenno? Imponi,
spiegami il tuo voler; che far poss’io?
Vuoi ch’immobil mi renda? immobil sono.
Ch’io pieghi le ginocchia? ecco le piego.
Ch’io t’offra inerme il petto? eccoti il petto.
Ismene.   Chi crederia che sotto un tanto umile
sembiante tanta iniquitá s’asconda?
Merope.   Spiega la fascia, e ad un di questi marmi
Rannoda in guisa che fuggir non possa.
Egisto.   O ciel. che stravaganza!

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Euriso.   Or qua spediamci.

e per tuo ben non far né pur sembiante
di repugnare o di far forza.
Egisto.   E credi
tu che qui fermo tuo valor mi tenga?
E ch’uom tu fossi da atterrirmi e trarmi
in questo modo? Non se tre tuoi pari
stessermi intorno; gli orsi a la foresta
non ho temuto d’affrontare io solo.
Euriso.   Ciancia a tuo senno, pur ch’io qui ti leghi.
Egisto.   Mira, colei mi lega, ella mi toglie
il mio vigor, il suo real volere
venero e temo; fuor di ciò giá cinto
t’avrei con queste braccia e sollevato
t’avrei percosso al suol.
Merope.   Non tacerai
temerario? Affrettar cerchi il tuo fato?
Egisto.   Regina, io cedo, io t’ubbidisco, io stesso
qual ti piace m’adatto; ha pochi istanti
ch’io fui per te tratto dai ceppi ed ecco
ch’io ti rendo il tuo don; vieni tu stessa,
stringimi a tuo piacer, tu disciogliesti
queste misere membra e tu le annoda.
Ismene.   Or non cred’io che dar potesse un crollo.
Merope.   Or va, récami un’asta.
Egisto.   Un’asta! O sorte!
Qual di me gioco oggi ti prendi? E quale
commesso ho mai nuovo delitto? Dimmi
a qual fine son io qui avvinto e stretto?
Merope.   China quegli occhi, traditore, a terra.
Ismene.   Eccoti il ferro.
Euriso.   Io ’l prendo e, se t’è in grado,
gliel presento a la gola.
Merope.   A me quel ferro.
Egisto.   Cosí dunque morir degg’io qual fiera
nei lacci avviluppata e senza almeno

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saperne la cagion?

Merope.   Non la sai eh?
Perfido mostro! Or odi: la tua morte
fia il minor de’ tuoi mali, a brano a brano
qui lacerar ti vo’, se in un momento
tutto non sveli o se mentisci. Parla:
come scoprillo Polifonte? e come
riconoscestil tu?
Egisto.   Che mai favelli?
Merope.   Non t’infinger, ladron, ché tutto è in vano.
Egisto. Regina, in qualche error tua mente è corsa;
frena l’ira, ti priego, io ciò che chiedi
né pur intendo.
Merope.   Empio assassin, tuo scempio
dal trarti gli occhi io giá incomincio. Ancóra
non mi rispondi?
Egisto.   O giusti Numi, e come
risponder posso a ciò che non intendo?
Merope.   Che non intendo? Polifonte adunque
tu non conosci?
Egisto.   Oggi il conobbi, oggi
due volte gli parlai; s’io mai piú il vidi,
s’io di lui seppi mai, l’onnipotente
Giove da le tue mani or non mi salvi.
Ismene.   Hanno il lor Giove i malandrini ancora?
Euriso.   Ma quel sangue innocente e chi t’indusse
a sparger dunque?
Egisto.   Di colui che uccisi
parli tu forse? E chi vuoi tu che indotto
m’abbia? La mia difesa, il naturale
amor de la sua vita, il caso, il fato,
questi fûr che m’indussero.
Merope.   O fortuna,
cosí dunque perir dovea Cresfonte!
Egisto.   Ma com’esser può mai che tanto importi
d’un vil ladron la morte?

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Merope.   Audacia estrema!

Tu vile, tu ladron, tu scelerato!
Egisto.   Eterni Dèi, ch’io venerai mai sempre,
soccorretemi or voi; voi riguardate
con occhi di pietá la mia innocenza.
Merope.   Dimmi: pria di spirar quell’infelice
che disse? Non ti fe’ preghiera alcuna?
Quai nomi proferí? Non chiamò mai
Merope?
Egisto.   lo non udii da lui parola.
Ma il re pur anco di costui chiedea:
che mai s’asconde qui?
Euriso.   Donna, tu perdi
il tempo e la vendetta; in questo loco
di legger può arrivar chi ti frastorni.
Merope.   Mòra dunque il crudele.
Egisto.   O cara madre,
se in questo punto mi vedessi!
Merope.   Hai madre?
Egisto.   Che gran dolor fia ’l tuo!
Merope.   Barbaro, madre
fui ben anch’io e sol per tua cagione
or noi son piú; quest’è ciò che ti perde.
Morrai, fiero ladrone.
Egisto.   Ah padre mio,
tu mel dicesti un dí ch’io mi guardassi
dal por giá mai nella Messenia il piede.
Merope.   Nella Messenia? E perché mai?
Egisto.   Bisogna
credere ai vecchi.
Merope.   Un vecchio è il padre tuo?
dal capo ai pié’ m’è corso un gelo, Euriso,
che instupidita m’ha. Dimmi, garzone:
che nome ha...
Ismene.   Ecco servi, ecco il tiranno.
Merope.   O stelle avverse! Fuggi, Euriso, fuggi
tu ancora Ismene, io nulla curo.

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SCENA V

Polifonte, Merope ed Egisto.

Egisto.   Accorri

o re, mira qual trattatisi in tua corte
color che assolvi tu; qui strettamente
legato m’hanno a trucidarmi accinti
per quella colpa che non è piú colpa,
poiché l’approvi tu che regni e grazia
poiché appo te seppe acquistare e lode.
Merope.   Egli l’approva e loda? E mostrò prima
d’infuriarne tanto. Ah fui delusa!
Polifonte.   Colui si sciolga.
Egisto.   O giusto re, la vita
dolce mi ha spender per te ad ogn’ora;
si gran periglio a’ giorni miei non corsi.
Ma se vivo mi vuoi, tuo regio manto
dal furor di costei mi faccia schermo.
Polifonte.   Vanne e nulla temer; mortal delitto
d’or innanzi sará recarti offesa.
Premio attendi e non pena, hai fatto un colpo
che fra gli eroi t’inalza, e ’l tuo misfatto
le imprese altrui piú celebrate avanza.
Merope.   Che dubitar? Misera, ed io da un nulla
trattener mi lasciai.
Egisto.   Or de l’avversa
sorte ringrazio i colpi, se il mio petto
io sol per essi assicurar dovea
de la grazia real col forte usbergo.

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SCENA VI

Polifonte e Merope.

Polifonte.   Merope, omai troppo t’arroghi. Adunque

s’a me l’avviso non correa veloce,
cader vedeasi trucidato a terra
chi fu per me fatto sicuro? Adunque
veder doveasi in questa reggia avvinto
per altrui man chi per la mia fu sciolto?
Quel nome, ch’io di sposa mia ti diedi,
troppo ti dá baldanza e troppo a torto
in mia offesa si tosto armi i miei doni.
Merope.   A te che regni e che prestar pur dèi
sempre ad Astrea vendicatrice il braccio
spiacer giá non dovria che d’ira armata
sovra un empio ladron scenda la pena.
Polifonte.   Quanto instabil tu sei! Non se’ tu quella
che poco fa salvo lo volle? Or come
in un momento se’ cangiata? Forse
sol d’impugnare il mio piacer t’aggrada?
Se vedi ch’io ’l condanni, e tu l’assolvi;

se vedi ch’io l’assolva, e tu


’l condanni.

Merope.   Io non sapevo allor quant’egli è reo.
Polifonte.   Ed io seppi ora sol quant’è innocente.
Merope.   Pria mi donasti la sua vita, adesso
donami la sua morte.
Polifonte.   Iniquo fora
grazia annullar a Merope concessa.
Ma perché in ciò t’affanni sí? Qual parte
vi prendi tu? Di vendicar quel sangue
che mai s’aspetta a te? Del tuo Cresfonte
esso al certo non fu, ch’ei giá bambino
morí nelle tue braccia e de la fuga

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al disagio non resse.

Merope.   Ah! scelerato,
tu mi dileggi ancora. Or piú non fingi,
ti scopri al fin; forse il piacer tu speri
di vedermi ora qui morir di duolo.
Ma non l’avrai, vinto è il dolor da l’ira;
sí che vivrò per vendicarmi. Omai
nulla ho piú da temer, correr le vie
saprò, le vesti lacerando e ’l crine,
e co’ gridi e col pianto il popol tutto
infiammare a furor, spingere all’armi.
Chi vi sará che non mi segua? A l’empia
tua magion mi vedrai con mille faci,
arderò, spianterò le mura, i tetti,
svenerò i tuoi piú cari, entro il tuo sangue
sazierò il mio furor. Quanto contenta,
quanto lieta sarò nel rimirarti
sbranato e sparso! Ahi che dich’io! che penso?
Misera, tutto questo il figlio mio
riviver non fará. Tutto ciò allora
far si dovea che per cui farlo v’era.
Or che piú giova? Oimé, chi provò mai
sí fatte angosce? Io ’l mio consorte amato,
io due teneri figli a viva forza
strappar mi vidi e trucidare. Un solo
rimaso m’era appena; io per camparlo
mel divelsi dal sen mandandol lungi,
lassa! e ’l piacer non ebbi di vederlo
andar crescendo e i fanciulleschi giochi
di rimirarne. Vissi ognora in pianto,
sempre avendolo innanzi in quel vezzoso
sembiante ch’egli avea, quando al mio servo
il porsi. Quante lagrimate notti!
quanti amari sospir! quanto disio!
Pur cresciuto era al fine e giá si ordiva

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di porlo in trono e giá pareami ognora

dirgli insegnando qual regnar solea
il suo buon genitor; ma nel mio core,
misera, io destinata infin gli avea
la sposa, ed ecco un improvviso colpo
di sanguinosa inesorabil morte
me l’invola per sempre e senza ch’io
pur una volta il vegga e senza almeno
poterne aver le ceneri, trafitto,
lacerato, insepolto ai pesci in preda,
qual vil bifolco da torrente oppresso...
Polifonte.   Non cetre o lire mi fur mai sí grate
quant’ora il flebil suono di questi lai,
che del spento rival fan certa fede.
Merope.   Ma perché dunque, o Dèi, salvarlo allora?
Perché finora conservarlo? Ahi lassa,
perché tanto nodrir la mia speranza?
Ché non farlo perir ne’ dí fatali
della nostra ruina, allora quando
il dolor della sua misto al dolore
di tante morti si saria confuso?
Ma voi studiate crudeltá; pur ora
sul traditor stetti con l’asta e voi
mi confondeste i sensi, ond’io rimasi
quasi fanciulla; mi si niega ancora
l’infelice piacer d’una vendetta.
Cieli, che mai fec’io? Ma tu che tutto
mi togliesti, la vita ancor mi lasci?
Perché se godi sí del sangue, il mio
ricusi ancor? Per mio tormento adunque
vedremti infino diventar pietoso?
Tal giá non fosti col mio figlio. O stelle,
se del soglio temevi, in monti e in selve
a menar tra pastori oscuri giorni
chi ti vietava condannarlo? Io paga
abastanza sarei, sol ch’ei vivesse.

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Che m’importava del regnar? Crudele,

tienti il tuo regno e ’l figlio mio mi rendi.
Polifonte.   Il pianto femminil non ha misura.
Cessa, Merope, omai; le nostre nozze
ristoreran la perdita e in brev’ora
tutti i tuoi mali copriran d’oblio.
Merope.   Nel sempiterno oblio saprò ben tosto
portargli io stessa; ma una grazia sola
donami, o Giove; fa ch’io non vi giunga
ombra affatto derisa e invendicata.