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atto secondo 17


che ’l mandare in Laconia il fido Arbante

ogni sei lune occulto. Al suo ritorno,
di cui l’ore contava ed i momenti,
quasi uscia di sé stessa e cento cose
volea a un fiato saper; dalla sua bocca
quinci pendea per lungo tempo, il volto
cangiando spesso e palpitando tutta:
poi tornava e volea cento minute
notizie ancora e no ’l lasciava in pace
finché gli atti, il parlar, le membra, i panni
dipinti non aveva a parte a parte
il buon messo, e talor la cosa stessa
dieci volte chiedea.
Euriso.   Non ti dar pena
di ciò ridire a me, ch’io la conosco
troppo bene; e talvolta a me da poi
tutto narrava e, s’un bel detto avea
da raccontarmi del suo figlio, o Dio!
le scintillavan d’allegrezza gli occhi
nel riferirlo. Or dimmi pur qual nuova
abbiasi di Cresfonte.
Ismene.   È giunto Arbante,
che tardò questa volta oltra ’l costume,
e porta che Cresfonte appresso il mesto
vecchio piú non si trova e ch’ei tuttora
ne cerca invan, né sa di lui novella.
Euriso.   O speme tronca, o regno afflitto, o estinto
sangue de’ nostri re!
Ismene.   Ma tu mi sembri
altra Merope appunto, che di lancio
negli estremi ti getti; io non ti dico
che la sua morte ei cerchi.
Euriso.   Si, ma credi
tu che a caso o da sé sará svanito?
L’avrá scoperto Polifonte al fine,
gli avrá teso l’aguato e l’avrá colto.