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dominati dal furore della distruzione, egli ne rimaneva sgomento, atterrito: la distruzione gli faceva paura: sentiva forse istintivamente che non la patria, non la libertà avrebbero profittato di quella distruzione. E poi, il modo di trattare di quei caporioni democratici lo urtava: vedeva inganni, tranelli tesi alla buona fede, forse eccessiva e infantile, del doge; alla debolezza del Senato: vedeva persone incolto, volgari, portare nell’azione che doveva essere alta e nobile, la loro indegna volgarità.

No, non era quello il suo sogno: quei novatori non gli piacevano. Un malcontento indefinibile lo penetrava: diceva che gli avvenimenti si preparavano male. I sotterfugi, le astuzie che si ordivano contro i governanti lo disgustavano quanto la debolezza e la puerilità dei governanti stessi. Aveva la dolorosa impressione che non un risorgimento si preparasse, bensì una morte abbietta di ciò che era stato grande: che si combattesse la battaglia della viltà. Ah! no, non quella era la meta delle grandi aspirazioni, delle nobili idee riformatrici. No, egli non poteva entrare in quella collaborazione.

«Mi dicono che non sono un uomo politico» egli scriveva. «Sarà benissimo. Sarà pure vero come altri affermano, che le nuove idee non sono riescite a distruggere in me l’antico ari-