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la dama della regina | 135 |
creduto delle sue pazzie! Già io gli ho sempre voluto bene.
— Ed io dunque? — esclamò il capitano Gori. — È mio cugino in terzo grado, parentela buona; da piccino mi chiamava zio. L’ho tenuto tante volte sulle mie ginocchia ed era tanto bello che pareva un angelo. Sarà il mio erede universale; già non ho altri. È stato quel poco di buono del dottor Apolonio che lo ha forviato. Quel viaggio che fecero insieme a Milano e a Parigi, fu una rovina. Ritornò che non pareva più lui, ubbriacato di paroloni, il mio povero Ettore. E si capisce, era tanto giovine, non aveva che diciott’anni... ed era — vi ricordate? — la primavera dell’ottantanove!
Annibale Rigo, meno loquace, non meno illuso, si augurava che l’Apolonio non ritornasse più. Poteva cascare in un canale fuori mano: un bene per tutti. E rideva imbaldanzito.
Il podestà tentennava il capo: — Siete proprio sicuri che Ettore Almerighi sia tanto cambiato?
Gli furono addosso, al colmo dell’indignazione.
— Come?...
— Dubitereste voi?...
— Che che! Sarebbe un’infamia!
— Io gli sputerei in faccia.
— Via via. Non alzate la voce. Non affermo nulla io. Desidero e spero che sia come voi dite.