La Costa d'Avorio/6. I tenebrosi disegni del cabecero di Geletè

6. I tenebrosi disegni del cabecero di Geletè

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6. I tenebrosi disegni del cabecero di Geletè
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Capitolo VI

I tenebrosi disegni del cabecero di Geletè

La giovane guerriera, quantunque così malconciata dagli artigli e dalle zanne del leopardo, aveva abbandonata la piccola radura che si trovava a tre o quattrocento passi dalla prima e si era trascinata verso il gigantesco sicomoro, nascondendosi in mezzo ad un fitto macchione che sorgeva sul margine del bosco.

Udendo il fischio dell’uomo bianco che l’aveva salvata dalla morte, si era affrettata ad abbandonare il nascondiglio ed a mostrarsi all’aperto. Quello sforzo doveva però averle causato un acuto dolore, poichè non potè frenare un lungo gemito.

— Non temere, ragazza, — disse Antao, avvicinandosele. — Noi ti guariremo, è vero, Alfredo?

— Sì, — disse il cacciatore, — ma a condizione che parli. —

Poi parlando la lingua dei uegbè disse all’amazzone:

— Noi siamo venuti per curarti.

— Grazie, padrone, — rispose la negra. — Sapevo che gli uomini bianchi non sono usi a mentire e come vedi t’aspettavo, mentre avrei potuto fuggire coi miei compatrioti.

— Coi tuoi compatrioti!... Sono tornati qui?...

— Sì, hanno perlustrata tutta la foresta, sperando forse di trovarti.

— E tu ti sei nascosta invece?

— Sì, padrone.

— Perchè?...

— Perchè tu mi hai salvata la vita e sono tua schiava.

— E mi seguirai sempre?...

— Dove tu vorrai.

— E mi sarai fedele?...

— L’ho giurato sui miei feticci.

— Lo vedremo.

Poi volgendosi verso il suo servo:

— Taglia dei rami e improvvisa una barella. Questa donna per ora non può camminare. —

Quindi scoprì le ferite dell’amazzone che alla notte aveva medicate alla meglio, le lavò accuratamente con dell’acqua fresca [p. 38 modifica]che scorreva in un rigagnoletto vicino, le lavò dal sangue che vi si era coagulato intorno, poi le bagnò con acqua mescolata a rhum e finalmente le fasciò, sacrificando la seconda manica della propria camicia.

La giovane negra lo aveva lasciato fare senza emettere un lamento, anzi sorridendo, quantunque dovesse soffrire assai, e quand’ebbe finito, gli disse:

— Grazie, padrone; la mia vita, da te salvata, ormai t’appartiene. —

Asseybo aveva allora terminata la barella composta di rami legati con liane e resa soffice da un alto strato di fresche foglie. La negra vi fu coricata ed Alfredo ed il servo si misero in cammino, preceduti dal portoghese, il quale era troppo stanco per caricarsi di quel peso.

— Camminando possiamo parlare, — disse il cacciatore. — Guadagneremo tempo.

— Cosa vuoi sapere, padrone? — chiese la negra, che lo guardava con due occhi che rilucevano di gioia e di contentezza.

— Dimmi, innanzi a tutto: è potente Kalani?...

— Potentissimo, padrone. È l’anima dannata di Behanzin, il successore di Geletè.

— È stato lui a organizzare la spedizione contro di me?...

— Sì e l’ha anche guidata.

— Lo sospettavo. Sai che ha rapito mio fratello e che mi ha distrutta la fattoria?...

— Sapevo che doveva rapire un fanciullo, se i suoi soldati non riuscivano a prendere te.

— Ah!... Lo sapevi?... — esclamò Alfredo.

— Sì, perché Kalani aveva detto che gli era necessario quel fanciullo.

— Ma per cosa farne di quello sventurato?...

— So che aveva detto a Geletè che i feticci esigevano un ragazzo bianco per essere guardati, minacciando in caso contrario la distruzione del regno e della dinastia.

— E non lo si ucciderà?... — chiese Alfredo, con angoscia.

— No, non crederlo, perché un guardiano dei feticci diventa una persona sacra. —

Il cacciatore respirò liberamente, come gli si fosse levato dal petto un peso enorme.

— Non lo uccideranno? — esclamò. — Tu sei certa?... [p. 39 modifica]

— Sì, padrone.

— Ma credi tu che quel ragazzo fosse proprio necessario ai feticci?... O che invece quel miserabile Kalani abbia qualche sinistro progetto?...

— Lo ha, — disse la negra. — Io conosco assai Kalani, so il motivo del suo odio verso di te e non ignoro i suoi progetti.

— Parla, ti prego.

— Kalani aveva la certezza di non poterti sorprendere, sapendoti un uomo capace di tenere testa a cento dei nostri uomini. Credo che avesse anzi molta paura di trovarsi di fronte a te. Da due settimane ti sorvegliava, ma non osava assalirti. Avendo appreso che tu dovevi recarti alla caccia sull’Ouzme, approfittò per assalire la tua fattoria e rapirti il fratello, affidando ad alcuni uomini coraggiosi l’incarico di tenderti un agguato in mezzo ai boschi.

— Ma era me che odiava e non quel povero ragazzo. Perchè prendersela con lui?...

— Per avere poi te.

— Cosa vuoi dire?...

— Kalani è astuto, padrone. Egli sa che non sei uomo da lasciare tuo fratello nelle sue mani.

— E mi aspetta nel Dahomey?

— Sì, padrone.

— Ha indovinato. Sì, io andrò nel Dahomey a salvare il mio Bruno, ma andrò anche per uccidere il rapitore.

— Bada, padrone, alla frontiera ti aspetteranno.

— Ma non mi vedranno.

— Cosa vuoi dire?

— Lo saprai più tardi. Prima bisogna che vada a vedere Tofa. —

Due ore dopo, avendo fatte alcune soste per riposarsi, giungevano ad un gruppo di capanne abitate da una dozzina di negri fra uomini e donne, i quali avevano già avuto frequenti rapporti colla fattoria d’Alfredo.

Avevano già saputo della disgrazia toccata all’uomo bianco, anzi avevano udite le scariche degli assalitori ed avevano vedute le fiamme dell’incendio, senza però ardire di accorrere in aiuto degli assaliti, essendo quasi sprovvisti d’armi e temendo troppo i dahomeni.

Alfredo ed i suoi compagni furono accolti con franca e cor[p. 40 modifica]diale ospitalità e tutti gli abitanti andarono a gara per essere loro di qualche utilità, mettendo a disposizione le capanne ed i viveri.

Il cacciatore si limitò a far ricoverare la povera ragazza che soffriva assai, raccomandandola alle cure delle donne, poi chiese tre di quei piccoli ma rapidi cavalli, che sono piuttosto comuni in quelle regioni e che derivano da un incrocio di cavalli arabi e delle alte regioni del Niger.

Rifocillatisi con una terrina di fu-fu, il piatto più in uso sulla Costa d’Avorio, composto d’ignami, di banani, di legumi, di granchi, di uccelli e di pesci conditi con molto pimento e ridotti in poltiglia e rinvigoritisi con alcune tazze di eccellente vino di palma fermentato, i due bianchi ed il negro Asseybo, che era tornato dalla fattoria portando ai padroni alcune vesti trovate in uno dei magazzini, partirono al galoppo, non ostante il calore infernale che versava il sole.

Antao, messo in buon umore da quel vino che produce una leggera ebbrezza anche preso in quantità limitata, pareva che non sentisse più la fatica e chiacchierava per due, cercando di tenere buona compagnia ad Alfredo che era diventato triste e assai preoccupato.

Anche il negro cercava d’incoraggiare il padrone, assicurandolo che nessun pericolo poteva correre il padroncino, essendo le persone addette ai feticci sacre per tutti, perfino all’onnipotente re. Nella sua gioventù era stato schiavo ad Abomey e ne sapeva qualche cosa di quel sanguinario, ma molto superstizioso popolo.

Intanto i piccoli ma vivaci cavalli divoravano la via, mantenendo un galoppo rapidissimo. Si erano cacciati in un largo sentiero, aperto in mezzo ai boschi, fatto tagliare da Alfredo per trasportare i prodotti della sua fattoria a Kotona, che è il porto della capitale del piccolo reame di Tofa.

Superbi alberi si rizzavano a destra ed a sinistra, gli uni pieni di uccelli, specialmente di piccoli pappagalli grigi e gli altri di scimmie, le quali eseguivano i più sorprendenti esercizi, senza punto spaventarsi del passaggio dei tre rapidi corsieri. Ora apparivano enormi gruppi di splendide palme dalle gigantesche foglie disposte a ventaglio; ora magnolie colossali coperte di grandi fiori dall’acuto profumo, o noci di cocco dall’elegante fusto e già carichi di frutta grosse come la testa d’un bambino; [p. 41 modifica]o dei gossipina, veri giganti, che crescono con rapidità straordinaria, che diventano assai grossi e che hanno il tronco coperto di gibbosità spinose, o macchioni di aranci e di limoni che spandevano all’intorno, per parecchi chilometri di circuito, dei profumi deliziosi.

Di tratto in tratto si scorgevano però delle radure di estensione considerevole coltivate con grande cura e dove crescevano ignami, manioca, fagiuoli di varie sorte, certe specie di pomidori assai gustosi e di quelli steli di grano verde, delizioso, chiamato mussoa.

Quando la grande boscaglia si rompeva, permettendo agli sguardi di spaziare più oltre, si vedevano gruppi di capanne difese per lo più da palizzate acuminate o da altissime siepi, rinforzate da datteri spinosi o da gossipine, ostacoli quasi insormontabili pei negri di quelle regioni che vanno quasi nudi e che non hanno mai conosciuto l’uso delle scarpe.

Verso il mezzodì le foreste cominciarono a diradarsi rapidamente per dar luogo a delle pianure acquitrinose formate dall’Ouzme, esalanti miasmi mortali per gli europei non abituati a quei climi caldi e umidi, sede d’un numero infinito di serpenti i quali godono una tranquillità perfetta, essendo rispettati da tutti gl’indigeni. Sono però inoffensivi, sebbene siano generalmente lunghi tre metri e si limitano a distruggere milioni di rospi e di rane, evitando anzi gli uomini.

In mezzo a quelle pianure acquitrinose si vedevano anche dei campi coltivati con cura, ma poche capanne, essendo il regno di Porto Novo pochissimo abitato in proporzione alla sua vastità.

Un’ora più tardi i tre cavalli, che non avevano mai rallentato il loro galoppo indiavolato, benché il sole segnasse oltre 35° centigradi e non un alito di vento marino rinfrescasse quella temperatura ardente, galoppavano sulla riva del lago di Porto Novo. Alfredo poco dopo mostrava al portoghese un grosso attruppamento di capanne che si trovava presso la riva di quel vasto bacino.

— Porto Novo, — disse.

— Questi indemoniati cavallucci hanno galoppato come dei veri cavalli arabi, — rispose il compagno. — Speriamo di trovare il re di buon umore. [p. 42 modifica]

— Se non sarà ubriaco.

— È un bevitore?

— Come tutti i re negri.

— Ho con me una fiala d’ammoniaca per preservarmi dai morsi dei serpenti e gliela farò bere tutta, — disse Antao, ridendo. — Gli dirò che è un elisir di lunga vita. Toh! Cos’è quella grande capanna che sorge lassù, su quel piccolo poggio? Forse qualche villa reale?

— No, Antao, è un tempio ove si adorano i serpenti che vengono raccolti negli acquitrini da noi prima costeggiati.

— Morte di Nettuno!... Avevo udito narrare queste cose, ma non vi avevo mai prestato fede, Alfredo. Se non me lo avessi detto tu, direi che si voleva darmi a bere una frottola colossale.

— In queste regioni si ha una grande venerazione per quei ributtanti rettili, Antao. A Whydah, per esempio, vi è un grande tempio dove si custodiscono parecchie migliaia di serpenti, per lo più pitoni a righe bianche o gialle. Un grosso numero di guardiani è incaricato di nutrirli e di curarli, e quando qualcuno di quei rettili riesce a fuggire, i suoi provveditori si affrettano ad inseguirlo ed a riportarlo nel tempio coi dovuti riguardi.

— Si direbbero storie dell’altro mondo. E tu mi dici che si adorano?...

— Sì, Antao. Vi sono delle persone che dichiararono di essere contentissime di venire divorate dai serpenti. Vuoi saperne di più?... Una donna che io ho conosciuta, un giorno perdette il suo unico figlio che le era stato divorato da un pitone. Ebbene, lo crederesti?... Invece di uccidere l’ingordo rettile, lo fece prendere, trasportare nel tempio di Whydah e lo adorò.

— Morte di Saturno! Che pazzie!... E nel Dahomey si adorano pure i serpenti? Mi hanno detto che quel re barbaro ne tiene delle migliaia.

— È vero, ma per dare da mangiare a loro i prigionieri. Un modo molto comodo per evitare le spese necessarie pel nutrimento di quei disgraziati che cadono nelle mani di quell’antropofago. Lo sanno i tuoi compatrioti, Antao.

— Che cosa vuoi dire?... — chiese il portoghese, stupito ed inquieto.

— È una storia recentissima poichè non risale che all’anno [p. 43 modifica]scorso. Geletè aveva fatti prigionieri alcuni portoghesi e brasiliani, i quali si erano recati nella sua capitale per cercare di avviare dei commerci con quegli abitanti. Quel furfante finse dapprima di fare loro buona accoglienza, ma un brutto giorno, dopo d’averli, con orribili minacce, costretti a ballare dinanzi a lui per divertirlo, alcuni li fece decapitare ed altri gettare in pasto ai serpenti.1

— Ah!... Canaglia!... — esclamò Antao, indignato. — E non sono stati capaci di strangolarlo?...

— Se lo avessero potuto l’avrebbero fatto, liberando in tal modo l’Africa d’uno dei suoi più ributtanti e sanguinari monarchi.

— Morte di Urano!... Se potessi vendicarli io, mentre tu ti vendichi di Kalani.

— Ne succederebbe un altro e forse più feroce: Behanzin, che già promette di essere peggiore di Geletè. Ci siamo, avanti Asseybo, aprici la via. —

Il negro si spinse innanzi e i tre cavalieri fecero la loro entrata nella capitale del re Tofa.


  1. Storico.