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124 Capitolo diciottesimo

«Penso anzi che abbiamo marciato troppo e che possiamo riposarci una mezza giornata, per lasciare loro il tempo di giungere tranquillamente nella cittadella degli Ascianti.»

— Hai ragione, Alfredo. Tu sei più astuto di me.

— Scendiamo, Antao, e andiamo a vedere che cosa è accaduto dei nostri uomini. —

Si lasciarono scivolare lungo le liane e giunsero felicemente a terra, mettendosi tosto in marcia per giungere al campo.

Non sapendo quale direzione avevano presa gli elefanti nella loro pazza corsa, temevano che quella formidabile banda fosse piombata in mezzo alle tende, uccidendo gli animali e gli uomini, perciò affrettavano il passo ansiosi di calmare le loro inquietudini.

Già calcolavano di trovarsi a poche centinaia di passi dall’accampamento, quando videro avanzarsi, correndo, un uomo, che subito riconobbero pel fedele Asseybo.

— Padrone!... — esclamò il negro, con voce affannata. — Credevo che ti fosse accaduta una disgrazia. Hai veduto gli elefanti?...

— Sì, ma come vedi siamo entrambi vivi, — rispose Alfredo. — Hanno distrutto l’accampamento?...

— No, padrone. Ci siamo accorti a tempo dell’avanzarsi di quegli animalacci e ci siamo rifugiati in mezzo al fiumicello salvando ogni cosa.

— Cominciavo a essere inquieto per voi.

— Ma il pericolo non è cessato, padrone.

— Cosa c’è ancora?...

— Uno di quegli elefanti, un maschio di statura gigantesca, forse ferito, si è sbandato e si aggira sulla riva del fiume in preda ad un furore spaventevole. I nostri uomini si sono salvati sulla riva opposta, ma corrono il pericolo, di momento in momento, di venire fatti a pezzi.

— Amico Antao, — disse Alfredo, rivolgendosi al portoghese. — Credo che domani mattina assaggeremo un delizioso arrosto di tromba d’elefante.

— Vuoi assalire quel colosso furibondo?...

— Sì, Antao, se mi aiuti.

— Ma potremo ucciderlo colle nostre carabine?...

— Sì, purchè tu cerchi di colpirlo intorno agli occhi o sotto la gola o meglio ancora, nelle giunture delle spalle.