La Costa d'Avorio/17. Il regno degli Ascianti
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Capitolo XVII
Il regno degli Ascianti
L’Ascianti, che la piccola carovana stava per attraversare per raggiungere i ladri, è il più vasto e anche il più ricco regno dell’Africa occidentale, stendendosi fra il 1° ed il 4° di long. ovest di Greenwich ed il 6° e l’8° di lat. settentrionale.
Al sud ha per confini i piccoli regni di Akim, di Aspin, di Deukera e parte del possedimento inglese; all’ovest il fiume Comoe e al nord ed all’est il fiume Volta e la regione dei Mandinghi.
Questo vasto paese compreso entro i suddetti limiti, si divide in due parti nettamente distinte che ben poco si rassomigliano fra di loro.
Dalla parte dove scorre il Volta la regione è quasi tutta piana, pochissimo abitata, attraversata da una sola strada che si chiama del Nord, frequentata dagli Ascianti che si recano a Serim. Essendo però ricca di corsi d’acqua, di tratto in tratto s’incontrano delle foreste che sono abitate da numerosi stuoli di animali selvatici, da antilopi di varie specie, da gazzelle, da cinghiali, da leoni, da leopardi, da iene, da scimmie d’ogni genere, soprattutto da quelle nere col lungo pelo e la barba bianca ed anche da truppe di colossali elefanti.
È in quelle immense pianure che si raccolgono milioni di quintali di quelle grandi lumache grigie, delle quali si fa un consumo veramente enorme dal popolo e soprattutto dagli abitanti della capitale che ne mangiano mezza tonnellata ogni giorno.
La parte invece dove scorre il Comoe è montagnosa, essendo attraversata da parecchie catene che percorrono il regno in ogni senso, tutta coperta di boschi superbi e soprattutto più popolata, essendo il terreno molto fertile.
È là che si trovano Kumassia, la capitale del regno ora riedificata dopo che gl’Inglesi la diedero alle fiamme, Wiawoso, Manso, Kintampo e Bontuku, le città principali e più popolose.
Quantunque gl’Inglesi abbiano cercato tutti i mezzi per dissanguarlo, l’Ascianti può considerarsi ancora come il regno più ricco della Costa d’Avorio ed anche il più potente, tale da far fronte a tutti i popoli vicini.
È anche la regione più salubre di tutta la costa, poichè il suo clima, sebbene sia molto caldo, non è malsano e forse si deve attribuire ciò alla quantità straordinaria dei suoi torrenti che scendono dalle montagne dell’interno.
In certe parti dominano, specialmente nell’estate, le febbri, ma non sono mortali come a Whydah, a Porto Novo, nel Grande e Piccolo Popo e nei possedimenti inglesi e francesi. Nemmeno attorno alla capitale l’aria è insalubre, quantunque vi siano paludi e l’atmosfera sia sovente carica delle esalazioni pestilenziali, emanate da centinaia di cadaveri umani gettati sui letamai chiamati appetismi, specialmente dopo le feste del sangue che si fanno anche tuttora, alla morte di un monarca e durante l’incoronazione del principe successore.
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La piccola carovana, giunta sull’opposta riva del Volta, si trovò in mezzo ad un’altra foresta che pareva dovesse prolungarsi verso l’Afram, un grosso affluente di destra, formata per lo più da acacie mimose, alberi grandi quanto i nostri olmi e fors’anche di più, col tronco del diametro di due a tre piedi, colla corteccia azzurrognola, coi rami carichi di foglie lucenti che al calare del sole si piegano l’una sull’altra come le sensitive e munite all’estremità di certi nodi, dai quali escono dei piccoli tubi formanti un fiore complicatissimo, rassomigliante ad un calice e di tinta violetta.
Queste piante, molto apprezzate nel Sudan, ma trascurate dai popoli della Costa d’Avorio, producono gran copia di eccellente gomma, la quale trasuda dal tronco formando dei globi rossastri che pesano sovente perfino due libbre, quantunque quella materia sia leggerissima.
Oltre alle mimose vi erano pure macchioni di platanieri, di elais, d’alberi del cotone di enorme grossezza, di cedri, di datteri spinosi e di ebani popolati da bande di uccelli chiassosi e dalle penne variopinte e di scimmie di varie specie; di sicomori, di tamarindi già carichi di frutta rinfrescanti e di phavor, i quali producono delle frutta simili alle ciliegie ed egualmente saporite.
Asseybo, appena salita la sponda, cercò subito le tracce dei ladri e fu tanto fortunato di ritrovarle duecento metri sopra il guado, in un luogo dov’era stato acceso il fuoco e dove si vedevano gli avanzi di foglie mezzo rose dai cavalli.
Fu subito deciso di non lasciare tregua ai fuggiaschi e quantunque i due animali si mostrassero molto stanchi per l’eccessivo carico e pei brevi riposi loro accordati, la piccola carovana si mise subito in marcia, certa ormai di raggiungere i negri ad Abetifi, avendo notato che le tracce piegavano leggermente verso il sud-ovest.
Camminarono incessantemente tutto il giorno, spingendo innanzi gli animali a legnate, ma prima del tramonto si videro costretti ad arrestarsi sulle rive dell’Afram. Uno dei cavalli era caduto rifiutandosi ostinatamente di rialzarsi e l’altro non poteva proseguire per molto ancora.
Essendovi ancora qualche ora di luce, Alfredo ed Antao ne approfittarono per battere le macchie vicine, colla speranza di poter tornare al campo con un po’ di selvaggina.
Avendo rimarcato in una radura umida che scendeva verso un corso dell’Afram, delle tracce di zoccoli che parevano appartenenti a delle antilopi, andarono ad imboscarsi in mezzo ad alcuni folti cespugli, a circa cinquecento passi dall’accampamento.
Contando di ritornare molto tardi, si erano improvvisati un giaciglio di foglie fresche ed avevano accese le pipe in attesa che le tenebre calassero, quando in distanza parve a loro che fosse echeggiata una detonazione. Sapendo Alfredo che quella regione doveva essere deserta, non essendovi villaggi lungo la frontiera, quella detonazione lo fece balzare in piedi.
— Qualcuno caccia a due o tre chilometri da noi, — disse.
— Sarà qualche Asciante, — rispose Antao.
— No, — disse Alfredo, crollando negativamente il capo.
— E chi vuoi che sia stato a sparare quel colpo?
— I negri che inseguiamo.
— Bah!... Saranno lontani, quei bricconi.
— Qualcuno di loro può essere rimasto indietro.
— A quale scopo?..
— Per cercare di crearci degli imbarazzi.
— Sarebbe una bella occasione per prenderlo e fucilarlo.
— Se non per fucilarlo, almeno per averlo in nostra mano e farlo parlare. Toh!... Odi? Un altro sparo e questo molto più vicino.
— Questo colpo di fucile non deve essere stato sparato che ad un paio di chilometri da noi, Alfredo.
— Antao, vuoi seguirmi?
— Se si tratta di prendere uno di quei furfanti, sono pronto a seguirti fino nella capitale degli Ascianti.
— Vieni, Antao, ma non commettere delle imprudenze. —
I due cacciatori lasciarono il loro nascondiglio e quantunque la notte cominciasse a calare, si misero rapidamente in cammino, seguendo il corso d’acqua, la cui riva permetteva di avanzarsi più comodamente che sotto i boschi.
Avevano percorso appena un chilometro procedendo sempre verso l’ovest, quando udirono una terza detonazione e poco dopo una quarta, ma così vicine, da far sospettare che il cacciatore si trovasse ad un solo miglio di distanza.
— Che laggiù si combatta? — chiese Antao. — Mi sembra impossibile che quel cacciatore trovi tanta selvaggina, mentre qui non vi è nemmeno uno sciacallo da abbattere.
— Se combattessero si udrebbero delle grida, — rispose Alfredo.
— Ma mi sembra di udire dei fragori, Alfredo.
— Dove?...
— Vengono dall’ovest... Zitto, ascolta!... —
Il cacciatore si fermò e si curvò verso terra, tendendo gli orecchi e gli parve di udire realmente come un lontano muggito, somigliante all’irrompere di una fiumana o all’avanzarsi fragoroso di parecchi squadroni di cavalleria o di parecchie batterie d’artiglieria.
— È vero, — mormorò, con una certa inquietudine.
— Cosa credi?... — chiese Antao.
— Non lo so, ma si direbbe che una truppa d’animali colossali galoppa attraverso la foresta.
— Ma quali animali potrebbero produrre tale fragore? Delle antilopi o dei leoni no di certo.
— Gli elefanti, Antao.
— Morte di Nettuno!.. Una banda di elefanti?...
— Sono ancora numerosi in questi paraggi. Vuoi un consiglio?
— Parla, Alfredo.
— Arrampichiamoci su di un albero ben alto e robusto.
— E se invece tornassimo al campo per mettere in guardia i nostri uomini?
— Ci mancherebbe il tempo. Su, lesto o verremo stritolati!... —
Non vi era che da scegliere essendo gli alberi d’alto fusto numerosi presso le rive di quel corso d’acqua. I due cacciatori s’aggrapparono ad alcune liane ed in pochi istanti si trovarono in salvo sui grossi rami d’un bombax, celandosi in mezzo al fitto fogliame.
Intanto il fragore continuava con un crescendo spaventevole. Pareva che dieci treni ferroviari si avanzassero all’impazzata attraverso la boscaglia, tutto abbattendo sul loro vertiginoso passaggio. La terra rimbombava come fosse sollevata da scosse potenti di terremoto, si udivano gli alberi schiantarsi e precipitare al suolo come se venissero svelti da una tromba ed in mezzo a tutti quei fragori si udivano dei suoni paurosi, dei clamori assordanti che parevano prodotti da un centinaio di rauche trombe di dimensioni gigantesche.
— Morte di Giove e di Saturno!... — esclamava Antao. — Si direbbe che un uragano stia per travolgere l’intera foresta. —
D’improvviso si videro delle masse enormi sbucare fra gli alberi e avanzarsi all’impazzata, abbattendo, con impeto irresistibile, le giovani piante, le quali cadevano a destra ed a sinistra come se venissero fucilate da un’arma mossa da una banda di titani.
Era una truppa di enormi elefanti, in preda ad un panico irresistibile, che fuggiva disordinatamente attraverso alla boscaglia. Quale pauroso spettacolo offrivano quegli animalacci lanciati al galoppo, colle loro potenti proboscidi sferzanti gli alberi vicini, per aprirsi il passo in mezzo a quel caos di vegetali!...
Mescolati confusamente, maschi, femmine e piccini, tutti in preda ad un inesplicabile terrore, pareva che non avessero che un solo scopo: fuggire un grave pericolo.
Urtavano furiosamente gli alberi, sradicavano quelli che si opponevano alla loro corsa, fracassavano i cespugli con mille scricchiolii, sfondavano colle masse enormi dei loro corpi le liane e le radici, barrivano strepitosamente formando un baccano assordante e si urtavano con tale violenza, che i loro corpacci risuonavano come grancasse di mole smisurata.
Quei cinquanta e più animali passarono sotto gli occhi dei due cacciatori come una meteora devastatrice, urtando il colossale tronco del bombax in così malo modo da scuoterlo dalla base alla cima, poi scomparvero verso l’est fra un clamore infernale di barriti ed uno scrosciare d’alberi e di rami.
— Mille morti!... — esclamò Antao. — Ecco uno spettacolo da far tremare l’uomo più intrepido dei due mondi!...
— Ti credo, — rispose Alfredo. — Pensa cosa sarebbe accaduto di noi, se quella banda d’animali ci avesse trovati sul suo passaggio.
— Ma chi può aver spaventato quei colossi?...
— Forse dei cacciatori d’elefanti.
— Ma è possibile ammettere che così formidabili animali possano venire spaventati da pochi uomini?... Non lo si crederebbe, Alfredo.
— Per natura gli elefanti sono timidi, Antao, e non si rivoltano se non quando vengono feriti.
— Le detonazioni delle armi bastano per metterli in fuga?...
— Talvolta sì, ma quando si vuole farli fuggire basta scagliare contro di loro delle materie infiammate e dei rami resinosi accesi.
— Ma... ed i nostri uomini?... Non verranno travolti da quegli animali?...
— Asseybo li avrà uditi avvicinarsi e si sarà affrettato a mettersi in salvo coi dahomeni.
— Ed i cavalli?
— Saranno fuggiti, non dubitare.
— Ah!... Come sarei stato contento di aver potuto abbattere uno di quei giganti!...
— Se si sbandano possiamo incontrarne qualcuno.
— Si dice che la tromba ed i piedi degli elefanti sono così squisiti.
— È vero, Antao, e spero di farteli assaggiare.
— Possiamo scendere?...
— Ormai non corriamo alcun pericolo. Gli elefanti devono essere già lontani. —
Il portoghese stava per aggrapparsi alle liane che gli avevano servito a salire sull’albero, quando Alfredo lo arrestò, sussurrandogli agli orecchi:
— Non muoverti, guarda!... —