La Città dell'Oro/21. L'incantatore di serpenti

21. L'incantatore di serpenti

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XXI.

L'incantatore di serpenti.

Quella savana tremante si estendeva verso il sud per un tratto immenso, fin presso il limite d’un’alta catena di montagne che si rizzava ad oriente.

Le acque di quella palude senza fondo erano nerastre, ma non tramandavano alcun odore sgradevole, non nascendo su quei pantani alcuna pianta palustre.

Un silenzio assoluto regnava su quella savana. Talvolta però, si udivano dei gorgoglìi sommessi e si vedevano emergere e sparire rapidamente dei grossi serpenti d’acqua.

— Badate di non cadere, — disse Yaruri, nel momento che uscivano dal canale. — Chi s’immerge è uomo perduto.

— Quale rotta teniamo? — chiese don Raffaele. [p. 305 modifica]Yaruri ed i tre bianchi retrocedevano correndo.... (pag. 328). [p. 307 modifica]

L’indiano additò la vetta d’un’alta montagna, che si distingueva nettamente sul fondo del cielo illuminato dalla luna.

— Là, — disse, — dietro quel colosso, si nasconde la Città dell’Oro.

— Quante ore dovremo navigare, prima di giungervi?

— Domani, all’alba, toccheremo terra, se resisterete.

— Non lasceremo i remi.

— Allora domani sera giungeremo a Manoa.

— Ecco una parola che fa battere il cuore! — esclamò Alonzo. — E tu ci assicuri che vi è molto oro in quella città.

— Tetti d’oro, colonne d’oro e palazzi che possono rivaleggiare coi vostri, — disse l’indiano con orgoglio.

— Ti credo, Yaruri, — disse il dottore. — Gli antichi peruviani, all’epoca della scoperta dell’America, costruivano i loro palazzi e le loro fortezze meglio degli europei.

— Sembra incredibile, dottore.

— Eppure è vero, Alonzo. Gli spagnuoli trovarono delle costruzioni da rimanere sbalorditi e delle fortezze che se fossero state difese da bravi soldati, i conquistatori mai avrebbero potuto avere nelle loro mani. Sappi che la fortezza di Cusco era fabbricata con pietre [p. 308 modifica]così enormi da far stupire, eppure gl’Inchi non possedevano nè carrette adatte, nè macchine, nè animali da poter trasportare e sollevare quei massi. Nota poi che quella fortezza era assai elevata.

— Erano adunque valenti costruttori.

— Insuperabili. Figurati che l’imperatore Virachoca fece fabbricare un canale profondo dodici piedi e lungo quasi cinquecento chilometri, attraverso a montagne, a rocce, a paludi, ad ostacoli d’ogni specie. Questo può bastarti per aver un’idea della bravura di quel popolo, che i nostri compatrioti chiamavano selvaggi!...

— E fabbricavano anche palazzi grandiosi?

— Sì, e meglio degli europei. Avevano delle sale che contenevano perfino tremila persone e le abitazioni dei grandi erano tutte costruite di pietra viva, accuratamente levigata e unita con un cemento speciale. Si dice che quei palazzi parevano fatti di getto, poichè non si scorgeva su di loro alcuna commessura.

— Ditemi, dottore, possedevano grande copia d’oro gli Inchi?

— Ti dirò che oltre possedere tutto il vasellame d’oro, gl’imperatori avevano dei giardini le cui piante erano tutte d’oro, cominciando dalle radici. Avevano dei tratti di terra coltivati a mais ed ogni pianta era [p. 309 modifica]fabbricata di quel prezioso metallo: le radici, le foglie, i fiori, le pannocchie e perfino le barbe. Nei palazzi degli imperatori poi, le vasche dei bagni erano d’oro e d’argento, i tetti erano coperti di lastre di quei metalli e così pure le colonne.

— Quale magnificenza!... E che sia vero quello che mi raccontate?

— Tutti gli storici spagnuoli che facevano parte delle bande conquistatrici degli Almagro e dei Pizzarro, lo hanno constatato. Acosta, Garcilasso e parecchi altri, ci lasciarono descrizioni stupefacenti della ricchezza degli Inchi.

— E credete che a Manoa possiamo trovare simili tesori?

— Io sono fermamente convinto che quegli abitanti posseggano ancora grande parte delle ricchezze degli Inchi.

— Fra poco lo sapremo, — disse don Raffaele. — La montagna non è più tanto lontana. Animo, amici! Sono impaziente di vedere quella famosa Città dell’Oro.

Il canotto, spinto innanzi alacremente, volava sulle tranquille acque della savana tremante. Alle tre del mattino mezza palude era stata già attraversata ed il picco gigantesco, che serviva di guida ai naviganti, era perfettamente visibile. [p. 310 modifica]

Stavano per lasciare i remi, volendo riposare alcuni minuti, quando ai piedi della montagna, fra le cupe selve che la attorniavano, si scorsero parecchi punti luminosi.

Yaruri emise una sorda imprecazione.

— Cosa vogliono significare quei falò? — chiese don Raffaele, volgendosi verso l’indiano.

— Sono segnali, — rispose questi.

— Fatti a chi?

— Alle tribù vicine.

— Per radunarle e gettarle contro di noi?

— Sì.

— Potremo vincerle?

— Conto sull’effetto che produrranno le vostre armi; ma...

— Dimmi tutto.

— Sarà meglio evitare un incontro ed entrare in Manoa di sorpresa.

— Puoi condurci senza farci incontrare quei nemici?

— Lo spero.

— In qual modo?

— Attraversando la selva.

— È pericolosa?

— Sì, pei serpenti che l’abitano; ma noi passeremo.

— Che specie di serpenti sono? [p. 311 modifica]

Urutù, il cui morso produce la paralisi del membro offeso; cobra cipo o serpenti liane, ay-ay che uccidono in meno d’un secondo; bociniga o serpenti a sonagli che danno la morte senza rimedio; poi serpenti corallo, serpenti cacciatori colla pelle tigrata ed altri ancora.

— Mille tuoni! E tu vuoi affrontarli?...

— Sì, padrone.

— Ma non avremo fatto mille passi che tutti e quattro saremo morti.

Un sorriso sfiorò le labbra dell’indiano.

— Yaruri sa comandare ai serpenti: li radunerò tutti, poi li condurrò con me a Manoa.

— I serpenti! — esclamò Alonzo.

— Sì.

— Comprendo, — disse il dottore. — Tu sei un incantatore di serpenti.

— È vero, — rispose l’indiano.

— Ma se ci mordono? — chiese don Raffaele.

— Non ti toccheranno, padrone, e poi non vi è forse il calupo diavolo? Tu sai che i semi di quella pianta sono uno specifico contro il morso dei serpenti.

— Che uomo! — mormorò Alonzo. — Vedremo come finirà quest’avventura.

Si rimisero ad arrancare con nuova lena, volendo [p. 312 modifica]giungere ai piedi della montagna prima dell’alba. I falò si erano spenti, però dalla parte opposta della savana si erano veduti brillare altri punti luminosi, ma ad una grande distanza.

Verso le otto del mattino la traversata della savana era compiuta ed i viaggiatori sbarcavano su di una sponda coperta di grandi boscaglie, le quali si spingevano fino alla base della montagna, diramandosi poi verso altri monti che si scorgevano più oltre.

Rassicurati dal silenzio che regnava sotto quegli alberi, dormirono alcune ore, poi Yaruri diede il segnale della partenza.

Mentre i compagni dormivano, aveva tagliato un giovane bambù ed aveva fabbricato una specie di flauto lungo cinquanta centimetri.

— Guardatevi intorno, — diss’egli. — Potete schiacciare qualche serpente e farvi mordere.

— Ma non li chiami a te? — disse don Raffaele.

— Non ancora, padrone.

S’addentrarono nella foresta procedendo con precauzione e guardando attentamente ove posavano i piedi. Sotto quelle piante non si vedevano nè scimmie, nè uccelli, però fra i cespugli si vedevano saltellare e battagliare fra loro numerose coppie di galli selvatici (pipra rupicola), bellissimi volatili che hanno le penne [p. 313 modifica]— La fame ti costringerá ad arrenderti (pag. 340). [p. 315 modifica]color dell’oro, adorni d’una doppia cresta di piume mobili e di carattere assai battagliero.

Quando i viaggiatori giunsero in una piccola radura, Yaruri s’arrestò, accostò il flauto alle labbra ed intonò una marcia languida, bizzarra, che aveva delle variazioni lugubri.

Don Raffaele, Alonzo ed il dottore non fiatavano, ma quei suoni producevano su di loro un effetto che prima non avevano mai provato. I loro nervi certi momenti si eccitavano e poi, tutto d’un tratto, si calmavano e si sentivano invadere da una spossatezza inesplicabile.

— Cosa suona quell’indiavolato indiano? — diceva Alonzo. — Provo un malessere che non so spiegare.

— Attenzione! — esclamò il dottore.

Sotto i cespugli, sotto le foglie secche degli alberi giganti si udivano dei leggeri crepitìi che s’avvicinavano lentamente. D’improvviso apparve un serpente, poi un altro, poi altri dieci, venti, cinquanta, cento.

Da tutte le parti della foresta accorrevano, attratti da quella musica che doveva essere per loro irresistibile. Si vedevano strisciare gli urutù striati di bianco, con una croce sul capo; i giboia o boa constrictor, lunghi dieci e perfino dodici metri e grossi come la coscia di un uomo, ma affatto inoffensivi, anzi sono [p. 316 modifica]facili ad addomesticarsi e si tengono nelle case per sbarazzarle dai sorci; i pericolosissimi cobra cipo, lunghi tre metri, sottili come un cannello, colla pelle color verde pallido; i caniana e i serpenti ceralacca, rettili avidissimi del latte e che di notte penetrano nelle capanne degli indiani per succhiare il seno delle donne lattanti; i terribili ay-ay colla pelle nera e così velenosi che le persone colpite hanno appena il tempo di mandare un grido che già muoiono; i bociniga o serpenti a sonagli i quali, strisciando, facevano tintinnare i loro sonagliuzzi cornei in forma di piastre; i serpenti cacciatori, colla pelle tigrata e che sono i più audaci di tutti, ed i velenosissimi serpenti corallo.

Tutti quei rettili si erano fermati intorno al gruppo formato da Yaruri e dai suoi compagni e col capo alzato, gli occhi ardenti, ascoltavano, affascinati, quella strana musica.

Don Raffaele, Alonzo ed il dottore, inchiodati al suolo dal terrore, non facevano il più piccolo movimento per tema di vedersi precipitare addosso quei battaglioni di rettili. Yaruri invece, impassibile, tranquillo, continuava a suonare il suo istrumento cavando delle note sempre più languide, più affascinanti per quella turba di serpenti più o meno velenosi.

Quando non vide uscirne altri dalle misteriose pro[p. 317 modifica]fondità della foresta, si mise in cammino passando su un tratto di terreno lasciato libero. Vedendo che i compagni non lo seguivano, fece a loro un gesto energico che voleva dire:

— Venite, o siete morti!...

— Andiamo, — disse il piantatore, tergendosi il freddo sudore che bagnavagli la fronte. — Vicini a Yaruri, nulla abbiamo da temere.

Si misero dietro all’incantatore, il quale continuava a suonare. Subito tutti quei serpenti a loro volta si mossero, strisciando precipitosamente per non perdere una sola nota di quella musica.

— Yaruri! — disse Alonzo. — I rettili ci corrono dietro.

L’indiano fece col capo un gesto affermativo e continuò a camminare ed a suonare.

— Mille tuoni! — esclamò don Raffaele. — Cosa vuol fare questo dannato indiano?

— Non lo comprendete? — chiese il dottore.

— No.

— Vuole condurre l’esercito dei rettili contro Manoa. Quali nemici possono resistere a questo formidabile attacco?... Fuggiranno tutti, don Raffaele.

— E l’esercito ingrossa, — disse Alonzo. — Vedo altri serpenti accorrere dalle altre parti della foresta. [p. 318 modifica]

— Se quell’indiavolato indiano continua, giungeremo a Manoa seguiti da migliaia di serpenti.

Intanto Yaruri continuava a marciare attraverso alla foresta con passo rapido, senza staccare il flauto dalle labbra.

Quell’uomo doveva possedere dei polmoni di ferro, poichè non dimostrava stanchezza alcuna.

I serpenti continuavano ad affluire dietro di lui. Dai cespugli e dalle foglie secche ne uscivano sempre di nuovi, i quali si univano all’esercito strisciante fischiando e sibilando in mille diverse guise.

Alle dieci del mattino Yaruri s’arrestò ed intonò un’altra marcia ben diversa dalla prima, più languida, più debole, con delle smorzature sempre più flebili. Allora si vide una cosa strana. Tutti quei serpenti, cinque o seicento, pure si fermarono, si arrotolarono su loro stessi come le gomene d’una nave, poi, a poco a poco, abbassarono le teste e caddero in una specie di sonno catalettico.

— Basta, — disse l’indiano, staccando il flauto dalle labbra. — Dormono: possiamo quindi riposare anche noi e mangiare un boccone.

— E fuggire prima che si sveglino, — disse Alonzo. — Ti confesso che viaggiare con simili compagni, non mi trovo bene. [p. 319 modifica]

— Non li abbandoneremo, — rispose Yaruri. — Ci difenderanno contro i nemici.

— Ma ti ubbidiranno?

— Sì, basta che suoni e non mi lasceranno più.

— Ma così tanto amano la musica?

— Immensamente, Alonzo, — disse il dottore.

— Che brutta sorpresa per gli abitanti di Manoa, quando vedranno le vie della città pullulare di rettili!

— Sarà una fuga generale.

— Purchè non trovino il mezzo di respingerli, — disse don Raffaele.

In quell’istante urla formidabili echeggiarono sotto i boschi e una volata di frecce fischiò fra i cespugli e gli alberi.