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318 | la città dell'oro |
— Se quell’indiavolato indiano continua, giungeremo a Manoa seguiti da migliaia di serpenti.
Intanto Yaruri continuava a marciare attraverso alla foresta con passo rapido, senza staccare il flauto dalle labbra.
Quell’uomo doveva possedere dei polmoni di ferro, poichè non dimostrava stanchezza alcuna.
I serpenti continuavano ad affluire dietro di lui. Dai cespugli e dalle foglie secche ne uscivano sempre di nuovi, i quali si univano all’esercito strisciante fischiando e sibilando in mille diverse guise.
Alle dieci del mattino Yaruri s’arrestò ed intonò un’altra marcia ben diversa dalla prima, più languida, più debole, con delle smorzature sempre più flebili. Allora si vide una cosa strana. Tutti quei serpenti, cinque o seicento, pure si fermarono, si arrotolarono su loro stessi come le gomene d’una nave, poi, a poco a poco, abbassarono le teste e caddero in una specie di sonno catalettico.
— Basta, — disse l’indiano, staccando il flauto dalle labbra. — Dormono: possiamo quindi riposare anche noi e mangiare un boccone.
— E fuggire prima che si sveglino, — disse Alonzo. — Ti confesso che viaggiare con simili compagni, non mi trovo bene.