La Città dell'Oro/11. Una emigrazione di formiche fiamminghe
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XI.
Una emigrazione di formiche fiamminghe.
Il giovane cacciatore non si era ingannato. I pecari che si erano accoccolati intorno all’albero, dopo d’essersi accertati dell’inutilità dei loro assalti, erano improvvisamente balzati in piedi, emettendo dei sordi grugniti. Parevano inquieti, poichè andavano e venivano sul margine dell’immensa foresta e pareva che ascoltassero con profonda attenzione. Senza dubbio qualche cosa di grave avveniva sotto le cupe vôlte degli alberi giganti e sotto l’ombra delle immense foglie.
— Che i nostri compagni s’avvicinino, — disse Alonzo.
Il dottore scosse il capo.
— Hai udito nessun sparo? — chiese.
— Nessuno, dottore. ... raccolsero il fucile e fuggirono a tutte gambe nel folto della foresta (pag. 158).
— Allora sono molto lontani e stanno perlustrando le sponde del Cassanare.
— Che siano i nemici misteriosi?
— Diavolo! I pecari sotto, le mosche-cartone sopra, e le frecce avvelenate degli indiani! Non darei una piastra della nostra pelle.
— Ed i nostri fucili sono sempre a terra! Dottore mio, comincio ad averne abbastanza della Città dell’Oro, degli Eperomeri, degli Orecchioni e del vostro bel paese.
— Ma penso, giovanotto, che se quegli indiani si avvicinano avranno da fare coi pecari e che se i pecari si allontanano un po’, noi scenderemo a prendere le nostre armi.
— Guardate, dottore. I pecari si mettono in fila come se dovessero sostenere un vero assalto.
— Zitto! — disse Velasco curvandosi innanzi come se volesse raccogliere dei vaghi rumori.
Stette in ascolto alcuni minuti con profondo raccoglimento, poi si alzò bruscamente.
— Odi nulla, Alonzo? — chiese.
— Ma... si direbbe che sulla grande foresta piove o che s’avanza un esercito di rettili. Odo degli scricchiolii strani, come se migliaia e migliaia di branchie acute o di tenaglie fossero in opera.
— È vero, — disse il dottore, che provò un brivido.
— Cosa sono?
— Giovanotto mio, corriamo il pericolo di venire divorati vivi.
— Ma da chi?
— Dalle formiche.
Alonzo, a quelle parole, scoppiò in una clamorosa risata.
— Ridi! — esclamò il dottore.
— Ma vi pare!... Aver paura delle formiche!... Oh! Vorrei vederle se sono capaci di mangiarci.
— Tu non conosci le nostre formiche e non hai mai assistito ad una emigrazione di quei feroci insetti. Guarda: i pecari che non hanno paura delle nostre armi ritornano di galoppo, fuggendo l’imminente assalto delle formiche.
— La cosa è strana, dottore. Mille fulmini!... Le formiche non sono giaguari, nè coguari!...
Alcuni pecari che s’erano spinti verso il margine della foresta ritornavano correndo, lanciando dei sordi grugniti.
— Eccole! — esclamò il dottore.
Uno spettacolo incredibile appariva sui margini della foresta. Le erbe sparivano come se mille falci invisibili manovrassero; le foglie degli alberi cadevano come se fossero state bruscamente recise da migliaia di scuri o di coltelli, pareva che perfino i tronchi degli alberi si fondessero per opera d’un torrente di lava. Le immense foglie dei mirti, così grandi che un uomo non può portarne più d’una, piombavano al suolo ove scomparivano con incredibile rapidità; le foglie dei bossù, che sono lunghe ben dieci metri, subivano l’egual sorte e così pure quelle delle palme, del bambù e quelle dei cespugli, non rimanendo in piedi che i verdi tronchi. Pareva che un torrente devastatore attraversasse la foresta su uno spazio di cinquanta metri, tutto distruggendo sul suo passaggio.
Alonzo, stupito, inquieto, guardava quella distruzione che aveva del prodigioso. Non rideva più ormai, anzi era diventato pallido.
Ad un tratto, attraverso a quel passaggio, apparvero le prime colonne degli insetti migranti. Non era che l’avanguardia, ma era formata da milioni di formiche voraci, lunghe un centimetro e mezzo, coi corsetti e gli addomi color nero lucente e ventri mobili, e armate di branchie taglienti e robuste.
S’avanzava in masse compatte, salendo sugli alberi per far cadere le foglie che dovevano servire per nutrimento al grosso della colonna, tenagliando le erbe, distruggendo i cespugli con rapidità spaventevole.
— Le formiche fiammanti!... — esclamò il dottore. — Se non fuggiamo siamo perduti!...
— Sono terribili?... — chiese Alonzo.
— Ti copriranno il corpo di vesciche grosse come uova e ti faranno impazzire pel dolore, se non preferiscono strapparti di dosso la carne pezzetto a pezzetto.
— Mille fulmini!...
— Fuggiamo!...
— Ma i pecari?...
— Ecco che battono in ritirata!... A terra!...
I pecari infatti, vedendo comparire l’avanguardia delle fiammanti, dopo una breve esitazione s’erano dati ad una fuga precipitosa, scomparendo con fulminea rapidità. Alonzo ed il dottore non esitarono più. Si lasciarono cadere a terra, raccolsero il fucile e fuggirono a tutte gambe nel folto della foresta.
Non si arrestarono che mezz’ora dopo, in mezzo ad una inestricabile confusione d’alberi, di bambù e di liane, che impediva loro di proseguire.
Sotto quelle cupe ombre non si udivano più nè grida di scimmie, nè grugniti di pecari, nè cicalecci d’uccelli; solamente echeggiavano di tratto in tratto, sulle più alte cime degli alberi, dei fischi acuti simili a quelli che lanciano le barche a vapore, emessi da alcune grosse cicale.
— Fermiamoci — disse il dottore. — Non ho più vent’anni per correre come un cervo.
— Speriamo che nè i pecari, nè le formiche ci raggiungeranno — disse Alonzo.
— Non v’è più pericolo, giovanotto mio.
— Ma ditemi, dottore, sono realmente così formidabili le formiche? Quantunque abbia veduto coi miei occhi la loro distruzione e fuggire persino i pecari, stento a credere che siano così terribili come si dice.
— Ti dirò che nulla può resistere alle loro migrazioni, nemmeno un esercito, nemmeno le più feroci belve.
— È incredibile, dottore.
— Quando per delle ragioni misteriose sono spinte ad emigrare, muovono diritte in colonne immense, perfettamente organizzate, abbattendo qualunque ostacolo. Pensa che non sono drappelli ma centinaia di miliardi di esseri piccoli bensì, ma armati di branchie tremende. Sul loro passaggio distruggono le praterie, le foreste, le piantagioni, divorando gli animali che sorprendono sul loro passaggio. Perfin le scimmie, sorprese sugli alberi, in meno d’un minuto sono fatte a brani, poichè quasi tutte le formiche dell’America del Sud sono avide di carne. Come difendersi quando si viene assaliti da milioni di mandibole che tenagliano, strappano, lacerano? Solamente una rapidissima fuga può salvare l’animale o l’uomo aggredito da quelle immense e voraci colonne.
— Ma non si possono arrestare?
— In qual modo?
— Col fuoco.
— Non vi riusciresti. I battaglioni si gettano sul fuoco e col loro numero immenso lo soffocano. Periranno milioni, miliardi di formiche, ma le altre passeranno senza deviare d’una linea.
— Ma davanti ai fiumi si fermeranno.
— No, giovanotto; nemmeno i fiumi sono sufficienti a farle deviare.
— Forse che si costruiscono delle zattere?
— Fanno di meglio, Alonzo. Scavano una galleria sotto il fiume e passano.
— Le formiche! — esclamò il giovanotto con tono incredulo. — Volete burlarmi, dottore?
— No, amico mio; ti ripeto che le formiche, specialmente quelle che i brasiliani chiamano sambas e noi formiche manioca, si scavano delle gallerie perfettamente circolari, lisce e meglio dei nostri lavoratori, e che passano sotto i fiumi.
— Se io le vedessi a compiere simili lavori non crederei ancora. Il dottore gli si avventò contro e lo percosse col calcio del fucile,
uccidendolo (pag. 167)
– E avresti torto. Nel Brasile si conoscono tre bellissime gallerie scavate dalle formiche e che sono praticabili anche agli uomini: una sotto il rio Guariba, la seconda sotto il rio Do Pontal e la terza sotto il Canindè.1
– È una cosa meravigliosa, dottore.
– Sorprendente di certo, Alonzo, ma... dove ci ha condotti la nostra fuga?... Temo che ci siamo assai allontanati dal fiume.
– Vi ritorneremo.
– Se ne saremo capaci. Hai una bussola tu?
– Mi sono dimenticato di prenderla.
– Ecco un'imprudenza che può costarci cara.
– Perché, dottore?
– Perché in queste immense foreste è facile smarrirsi.
– Ma io credo che l'Orenoco sia alla nostra destra, dottore. Marciando diritti vi giungeremo.
– Ma sei capace tu di marciare diritto?
– E perché no?
– Perché non avrai fatto mille passi che senza volerlo avrai piegato a destra o più possibilmente a sinistra. In mezzo ad una foresta non è facile marciare diritti, giovanotto mio. Sai che alcuni uomini smarritisi nelle foreste, non ne sono più usciti?... Fortunatamente noi abbiamo i nostri fucili e se non siamo molto lontani dall’Orenoco, i nostri spari potranno venire uditi dai compagni.
— Proviamo a riguadagnare le rive del fiume.
— Non domando di meglio, ma... zitto!... Non hai udito un grugnito?
— Diavolo!... Ancora i pecari?
— O qualche altro animale.
— Sarebbe il benvenuto, dottore. Sento l’ora della colazione.
— Avanziamoci con precauzione. Sento che i grugniti vengono da quel macchione di palme tucum.
Armarono i fucili e s’inoltrarono senza far rumore, attraverso agli alberi ed ai cespugli, girando lentamente attorno ai tronchi per tema di trovarsi improvvisamente dinanzi a qualche formidabile fiera.
Avevano percorso una trentina di passi, quando giunsero sull’orlo d’una piccola radura in mezzo alla quale alzavasi solitario un enorme summameira (eriodendron summauma), albero di proporzioni gigantesche, coi rami assai nodosi e perfettamente simmetrici, il tronco sorretto alla base da speroni naturali e da specie di contrafforti che si staccano dall’albero a otto o dieci piedi d’altezza, scostandosi dalla base in modo che parecchi uomini possono trovare rifugio sotto quegli scompartimenti.
Quel colosso torreggiava sopra tutti gli alberi della grande foresta, ma quello che destava soprattutto sorpresa, erano delle strane costruzioni che s’ergevano attorno alla base.
Erano dieci o dodici coni di terra che pareva fosse stata prima masticata per unirla per bene, situati gli uni accanto agli altri, d’una grossezza ragguardevole e d’uno spessore notevolissimo a giudicarlo a colpo d’occhio. Al dottore non ci volle molto a riconoscere cosa erano.
— Quest’oggi abbiamo da fare colle formiche, — diss’egli. — Si direbbe che questa foresta n’è piena.
— Dove sono? — chiese Alonzo.
— Quei coni sono i nidi delle termiti, formiche assai grosse, nere, colla testa bruna e armata di robuste branche.
— Sono pericolose?
— Non meno delle altre, ma difficilmente emigrano e non si radunano in bande immense e... To'! ancora il grugnito di prima!... Ah! Ah! Dovevo immaginarmelo!
— Che cosa?
— Che dovevamo incontrare un orso formichiere.
— Un orso!... E voi ridete!... — esclamò Alonzo, armando il fucile.
— Non c’è da allarmarsi tanto, giovanotto mio. Non credere che i nostri orsi siano così formidabili come quelli grigi della Sierra Nevada o della Sierra Verde. No, quelli dell’America del Sud non sono così feroci, anzi sono tanto poco offensivi che non sarebbero capaci di darti un morso.
— Forse che non hanno denti?
— Peggio che peggio; non hanno bocca o, per meglio dire, se l’hanno, non possono aprirla.
— È strano!... Ma che paese è mai questo?...
— Molto diverso dal tuo. Andiamo a vedere cosa fa il nostro orso. Lascia andare il fucile; per ucciderlo basterà adoperare il calcio.
Girarono attorno all’albero gigante e si trovarono dinanzi ad un animale coperto d’un lungo pelo bruno, diviso obliquamente da strisce di pelo bianco e nero, e che stava sgretolando, con delle lunghe unghie che sembravano robustissime, uno di quei coni.
Vedendo i due cacciatori si rizzò di colpo sulle zampe posteriori, riparandosi dietro ad una lunga coda che somigliava ad una gigantesca piuma di struzzo e che teneva tesa innanzi a sè verticalmente, poi alzò le zampe anteriori mostrando gli acuti artigli.
Il dottore, per nulla intimidito da quella posa minacciosa, gli si avventò contro e lo percosse sul cranio col calcio del fucile, uccidendolo.
— Guardalo, Alonzo, — disse poscia, rivolgendosi verso il giovanotto. — Questi animali meritano di venire osservati.
- ↑ Queste gallerie esistono tuttora.