La Città dell'Oro/10. Fra i pecari e le mosche-cartone
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X.
Fra i pecari e le mosche-cartone
Cenato in fretta, si concertarono tosto per impedire ai nemici di prendere il largo e di risalire la grande fiumana.
Yaruri, il più valente di tutti nel dirigere la scialuppa, fu incaricato della vigilanza della foce del Cassanare incrociando anche nell’Orenoco; Alonzo, della sorveglianza d’una penisola che si estendeva per lungo tratto nel fiume e che doveva, da quel posto, tenere d’occhio un grande tratto di sponda. Raffaele e Velasco s’incaricarono di vigilare i due margini dell’immensa foresta.
Visitate le armi per essere più certi dei loro colpi, i tre bianchi si recarono nei luoghi indicati, portando con loro una coperta per difendersi dall’umidità della notte, mentre Yaruri prendeva il largo a bordo della scialuppa.
La notte era limpida e chiara, essendo la luna appena allora alzata; solamente le rane ed i rospi rompevano il silenzio che regnava sulla grande fiumana, ma a lunghi intervalli.
I tre bianchi e l’indiano tendevano gli orecchi sperando di raccogliere qualche grido o lo sbattere delle pagaie di qualche canotto o lo spezzarsi di rami nella foresta e aguzzavano gli occhi in tutte le direzioni, ma nulla udivano; nulla appariva nè sulla argentea distesa del fiume, nè sulle sponde, nè sotto i giganteschi alberi.
Solamente verso la mezzanotte parve a loro di vedere attraverso alle piante un rapido bagliore, ma che subito si spense. Forse era stato prodotto da qualche banda di moscas de luz, quantunque Yaruri ne fosse poco convinto.
L’alba li sorprese ancora in agguato. Gli uccelli si svegliavano empiendo l’aria di grida acute e di cicalecci interminabili e le scimmie ricominciavano i loro concerti diabolici.
— Battiamo la foresta, — disse don Raffaele ai compagni, che si erano riuniti. — Forse riusciremo a scoprire quei nemici che ci seguono con tanta ostinazione e contemporaneamente rinnoveremo le nostre provviste di carne fresca. Io e Yaruri ci terremo sulle sponde del Cassanare per non perdere di vista la nostra scialuppa e tu Alonzo e voi Velasco frugherete le foreste che si estendono sulle sponde dell’Orenoco.
— Andiamo, dottore, — disse Alonzo. — So che siete un valente cacciatore e se non troveremo quei nemici misteriosi, torneremo almeno con un carico completo di carne fresca.
— Le mie gambe non sono giovani come le tue, ma sono ancora robuste, — rispose il dottore. — In marcia.
— Un momento, — disse don Raffaele. — In caso di pericolo sparate tre colpi ad intervalli di mezzo minuto l’un dall’altro.
— Siamo d’accordo, — rispose Alonzo.
Si separarono: Yaruri e don Raffaele internandosi nelle foreste costeggianti il Cassanare e Alonzo ed il dottore dell’Orenoco.
— Andiamo, giovanotto, — disse il dottore ad Alonzo. — Faremo un lungo giro e ti mostrerò un bel tratto di una delle nostre foreste vergini.
— Non chiedo di meglio, — rispose il giovane cacciatore.
— Bada però dove posi il piede, poichè in queste boscaglie i serpenti abbondano.
— Ve ne sono di velenosi?
— Di quelli che ti uccidono in meno di cinque secondi.
— Diavolo!... Voi mi spaventate.
— Bisogna procedere con prudenza. Animo, entriamo in piena foresta.
Quella foresta meritava il nome di vergine. Non vi erano sentieri, ma solo radi passaggi aperti senza dubbio dalle fiere, così stretti e tortuosi che a malapena permettevano d’inoltrarsi.
Era una confusione enorme di vegetali dalle foglie gigantesche, le quali proiettavano una cupa ombra. Si vedevano macchioni di palme della cera (ceroscylum andicola), superbe piante i cui tronchi raggiungono sovente un’altezza di cinquanta metri e dalle cui foglie si estrae una eccellente cera chiamata carnanbeira; macchioni di palme tucumà, murumcerù e ayri, colle cui foglie si fabbricano dei tessuti finissimi mentre dalla polpa delle frutta si ricava dell’olio; delle palme assuly le cui frutta danno pure olio e vengono anche adoperate per la fabbricazione d’un liquore che chiamasi appunto assuly'; dei papaya, o alberi dei poponi, somigliando le loro frutta a quei cucurbitacei, quantunque siano meno saporiti; poi dei grandi simaruba la cui scorza ha proprietà toniche mentre i fiori sono avidamente mangiati dalle testuggini, e quindi ammassi inestricabili di calupi diavolo i cui semi, messi in infusione nell’acquavite, danno uno specifico contro i morsi dei serpenti; di batolo le cui foglie messe a macerare servono a guarire le febbri, e di bambù colossali, fortissimi, che resistono perfino alle scuri e che sono adoperati per fabbricarsi quei lunghi canotti.
Gli animali non mancavano, ma non erano reputati degni di figurare alla tavola dei cacciatori. Erano per lo più quadrumani e soprattutto bande numerosissime di scimmie urlanti le quali facevano un baccano indescrivibile. Chiamansi anche scimmie rosse, avendo il pelame rossastro.
Sono alte un metro e quaranta centimetri od un metro e mezzo; hanno il muso appuntito, la coda assai lunga, ma sono soprattutto notevoli per la potenza della loro voce. Il loro pomo d’Adamo è grosso quanto un uovo di gallina, ma quando lo gonfiano diventa un vero gozzo ed allora lanciano dei potenti hon!... hon!... e dei muggiti così formidabili che si odono a ben cinque chilometri di distanza.
Al pari delle scimmie barbado o preganti, si radunano in circolo sul tronco degli alberi e sui rami, il capo si colloca in mezzo ed intuona il concerto, ma le altre devono limitarsi a fare le parti dei coristi, poichè se ardiscono interromperlo, quello strano direttore corale distribuisce calci e scapaccioni con prodigiosa rapidità.
Si vedevano però degli animali che avrebbero ben meritato una palla, ma si tenevano lontani. Erano delle iguane, bruttissimi rettili somiglianti alle lucertole, ma lunghi un metro e mezzo, con una cresta che corre sul loro dorso fino all’estremità della coda, colla testa di forma piramidale a quattro facce, le dita delle zampe ineguali e la pelle color verde cupo quasi nera.
Quei rettili che vivono per lo più sugli alberi, al pari dei camaleonti d’Africa, hanno la proprietà di cambiar colore, specialmente se sono irritati, e quantunque al vederli siano ributtanti, sono squisiti a mangiarsi, somigliando la loro carne al pollo giovane o alla coscia dei ranocchi.
— È una vera disgrazia, — diceva il dottore, — il non poter abbatterne almeno uno; si farebbe una colazione squisita.
— Ma sono ben brutti, dottore, — diceva Alonzo, facendo un gesto di ribrezzo.
— Ma dinanzi ad un arrosto d’iguana non saresti tanto schizzinoso, giovanotto mio.
— Vi sono altre specie, oltre quella che abbiamo veduta?
— Sì, — disse il dottore. — Vi sono anche iguane tubercolate che hanno la pelle del ventre d’un colore giallo-verdognolo, il dorso azzurro ed i fianchi solcati da strisce brune. Sono ancora più lunghe, poichè raggiungono perfino i cinque piedi.
— Eccellenti anche quelle?
— Squisitissime.
— Allora possiamo...
— Zitto!...
Il dottore si era bruscamente arrestato, lasciandosi cadere dietro il tronco d’una palma, ma armando rapidamente il fucile.
— Cosa avete veduto? — chiese Alonzo impaziente di sapere il motivo di quella fermata.
— Ho udito un grugnito.
— Dove?
— Mi pare che uscisse da quella macchia di niku, da quel gruppo di gambi sarmentosi colla scorza bruna e che somigliano alle liane.
— Che animale può essere?
— Forse un orso formichiere.
— Un buon arrosto?
— Lo assaggerai, — disse il dottore puntando rapidamente il fucile e facendo fuoco.
Un grugnito soffocato, seguito poco dopo da un grido — Ed ora ci assedieranno? — disse Alonzo (pag. 149) acuto come quello di un maiale quando riceve la mazzata sul cranio, rispose alla detonazione.
— Toccato! — gridò Alonzo. — Ho veduto laggiù cadere l’animale! Accorriamo!...
Il dottore, invece di slanciarsi innanzi, aveva afferrato il compagno per le braccia dicendogli rapidamente:
— Presto!... Arrampicatevi su quest’albero!...
— Arrampicarmi su quest’albero! — esclamò il giovanotto guardandolo con sorpresa. — Ma è nella macchia che la selvaggina è caduta!
— Lasciala andare. Obbedisci, se ti preme la pelle.
— Ma se...
— Basta!... Arrampicati!... Stanno per venire!...
Alonzo avrebbe voluto chiedere al dottore se aveva perduto il cervello, ma dinanzi a quell’ordine che non ammetteva altri ritardi, con un balzo s’aggrappò ai rami d’un enorme simaruba, mettendosi in salvo sul tronco. Velasco, malgrado non fosse più giovane, con tre mosse s’issò e lo raggiunse.
Era tempo!... Attraverso ai cespugli ed agli alberi si udivano echeggiare grugniti furiosi come si avvicinasse una banda di cinghiali pronta alla lotta.
— Eccoli, — disse il dottore. — Fortunatamente siamo al sicuro; ma un minuto di ritardo e per noi era finita.
Trenta o quaranta animali s’avanzavano correndo e grugnendo, cogli occhi sfavillanti di furore e mostrando delle lunghe ed acute zanne. Somigliavano a cinghiali, ma parevano più svelti e più robusti. In un lampo giunsero sotto l’albero e lo circondarono emettendo grida acute e battendo le lunghe zanne con un rumore minaccioso.
— Cosa sono? — chiese Alonzo, che pareva tranquillissimo.
— Queiscadas, o se ti piace meglio, pecari.
— Cinghiali insomma.
— Press’a poco.
— E avete tanta paura?
— Ti fanno in pezzi in mezzo minuto, mio caro. Vi è meno pericolo ad affrontare un giaguaro che una banda di pecari.
— Così feroci sono?
— Non temono le armi da fuoco, e quando un loro compagno cade, accorrono a vendicarlo, dovessero affrontare un battaglione di cacciatori.
— Saranno buoni a mangiarsi?
— Come i cinghiali, ma però è necessario levar loro una ghiandola che è ripiena d’un liquido che sa di muschio. Senza questa precauzione, la loro carne puzzerebbe come quella d’un caimano.
— Ed ora ci assedieranno?
— E per un bel pezzo.
— Diavolo!... E abbiamo lasciato i fucili a terra!...
— Sì, per nostra disgrazia.
— Fortunatamente abbiamo i nostri coltelli da caccia e la colazione in tasca.
— A cosa ci gioveranno tali armi?... Ecco che cominciano ad inquietarsi; fortunatamente non hanno nè ali, nè unghie per arrampicarsi.
I pecari vedendo che i cacciatori non si decidevano a scendere, si erano scagliati furiosamente contro l’albero staccando, colle acute e lunghe zanne, dei larghi pezzi di corteccia, e alzandosi sulle zampe posteriori colla speranza di raggiungere i rami, e spiccando dei salti. Dovettero però ben presto convincersi dell’inutilità dei loro sforzi, poichè il simaruba non si scuoteva nemmeno.
— Vi guasterete i denti inutilmente — disse Alonzo ridendo.
— Ah!... Tu ridi! — esclamò il dottore. — E non pensi, briccone, che questo assedio può durare una settimana?
— Così cocciuti sono questi pecari?... Ma mio cugino e Yaruri, non vedendoci ritornare, verranno in nostro aiuto.
— Non dico di no, ma non sarà facile trovarci in questa immensa foresta. Oh!... Diavolo!... La situazione minaccia di complicarsi!
— Cosa c’è di nuovo?
— C’è che siamo presi fra due pericoli, uno più spietato dell’altro. A basso i pecari ed in alto le mosche-cartone.
— Non vi comprendo, dottore.
— Guarda lassù, su quel ramo. Non vedi nulla?
— Sì, vedo un grande nido di vespe che sembra... toh!... Si direbbe fabbricato precisamente di cartone.
— Ebbene non è un nido di vespe, precisamente, ma di grosse mosche più tremende delle vespe, poichè basta una puntura per far morire una scimmia e per rendere un uomo quasi pazzo.
— Che brutta prospettiva! Temete che ci assalgano?
— Non so cosa dirti, ma ne vedo già alcune volare proprio sulle nostre teste. Temono che noi andiamo a distruggere il loro nido. Ah! Se ci fossero qui alcuni macachi, non mi darebbero più inquietudine quei tremendi insetti.
— E perchè dei macachi?
— Quelle scimmie sonno voracissime delle mosche-cartone ed in poco tempo le distruggono.
— Ma non muoiono sotto le punture?
— Sì, ma sono molto furbe e non si lasciano pungere. Aspettano che le mosche si siano tutte ritirate, poi con una delle loro dita callose chiudono l’unico foro esistente nel nido. Le mosche, non vedendo più il buco libero, cercano di forzare l’ostacolo, ma allora il macaco prende quelle che si presentano una ad una, ma a mezzo ventre per evitare il pungiglione e le mangia con un’avidità senza pari. Guai però se ne lascia fuggire una, poichè una sola puntura basta per farlo morire.
— E le chiamano scimmie macache!... Io le chiamerei scimmie furbe, — disse Alonzo. — Oh!... Cosa sta per succedere?
— Cosa vedi?
— Mi pare che i pecari siano spaventati.
— Che un pericolo nuovo e più grave ci minacci?... L’avventura comincia a diventare seccante.