L'erede fortunata/Atto II

Atto II

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Atto I Atto III

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ATTO SECONDO.

SCENA PRIMA.

Camera di Rosaura.

Rosaura sola.

Va crescendo il mio affanno, e m’avvicino alla morte. Ma che! Dovrò morire senza almeno parlare? Perchè non svelo a Pancrazio il mio cuore? Perchè non gli confido l’amor mio per Ottavio suo figlio? Può darsi ch’ei, come uomo vecchio e saggio, trovi rimedio al mio male, e gli riesca di salvar me, suo figlio e l’interesse comune. Ma Ottavio mi ha imposto di non parlare. Pancrazio, sapendo i nostri amori, concepirà dell’odio per tutti due; e trovando in suo figlio un rivale, lo priverà della sua grazia, e forse forse della sua eredità. No, no, si taccia; e non si aggiunga a tanti altri miei mali il rossore di aver pregiudicato al mio bene. [p. 554 modifica]

SCENA II.

Pancrazio1 e detta.


Pancrazio. (Giacchè è qui sola, voglio vedere di scoprire se sia vero che ella sia incapricciata di quel pazzo di Lelio). (da sè)

Rosaura. (Ahimè! Questo vecchio mi porta la fatal nuova della mia morte). (da sè)

Pancrazio. Signora Rosaura, il tempo passa, e il Dottore, vostro zio, e Florindo, vostro cugino, fanno il diavolo contro di voi. Bisogna risolvere, bisogna che parliate chiaramente. Io non voglio liti, non voglio questa sorta di disgrazie in casa mia. Dunque spiegatemi il vostro pensiero, e ditemi se mi volete per vostro marito.

Rosaura. Ah, signor Pancrazio, voi ponete in un gran cimento il mio cuore.

Pancrazio. Orsù, basta così. Se il rispetto che avete per me, vi trattiene di dirmi apertamente che non mi volete, il vostro sospirare ed il vostro parlare interrotto mi fanno bastantemente conoscere la vostra volontà. Per forza non vi voglio. Ne son così pazzo di pormi una serpe in seno. Vi lascio nella vostra libertà. Soddisfate il vostro genio, che avete ragione. Ma domattina apparecchiatevi di andar fuori della mia casa.

Rosaura. Oh Dio! voi mi avete trafitto il seno. Perchè uscir devo di casa vostra? Perchè mi discacciate sì crudelmente da voi?

Pancrazio. Perchè non voglio litigare con i vostri parenti.

Rosaura. Non siete voi il mio tutore?

Pancrazio. Figliuola mia, non vi voglio far la guardia: o marito, o niente.

Rosaura. (Sempre più si peggiora il mio stato). (da sè)

Pancrazio. Potete mettere insieme la vostra roba. Io anderò ad avvisare il Dottore, che venga a prendervi.

Rosaura. Non sarà mai vero ch’io parta viva di casa vostra.

Pancrazio. O che in casa mia v’è forse qualche segreta calamita, che tira il vostro cuore? [p. 555 modifica]

Rosaura. Per amor del cielo, non mi date maggior tormento.

Pancrazio. Via, via, ho capito. So tutto, e adesso intendo perchè vi piace la casa e non vi piace il padrone.

Rosaura. Signore, voi vi potete ingannare.

Pancrazio. Non m’inganno; son uomo avanzato in età, e so il viver del mondo. Compatisco la vostra disgrazia. Pur troppo sento del rimorso di essere stato io la cagione di questo disordine. L’occasione vi ha fatto prevaricare. La gioventù non istà bene insieme. Voi siete di buon cuore. Colui è un matto. Non mi maraviglio se siete cascata.

Rosaura. Ah, signor Pancrazio, voi avete rivelato un segreto, sinora da me tenuto, e con tutta la gelosia custodito. Compatite la mia debolezza. Amore ha superata la mia ragione. Non posso dissimulare una passione così violenta e crudele.

Pancrazio. Ma, figliuola cara, bisogna regolarsi colla prudenza. Finchè v’è tempo, bisogna rimediarvi. Dice il proverbio: la lontananza ogni gran piaga sana. O andate via voi, o per farvi servizio, lo manderò via di casa.

Rosaura. Oh Dio! E non vi sono pel mio male che rimedi aspri e crudeli? Non potreste voi trovar un espediente opportuno per farci vivere uniti?

Pancrazio. Che diamine dite voi? Siete matta? Volete che io trovi l’espediente di farvi star unita con un uomo ammogliato?

Rosaura. Come? Ha moglie?

Pancrazio. Mi par di sì.

Rosaura. Dov’è questa sua moglie? (Traditore! Infedele! Così mi tratta? Così mi deride?) (da sè)

Pancrazio. (L’amore le ha fatto dar la volta al cervello). (da sè)

Rosaura. Ora intendo perchè mi consigliava a sposar voi quell’indegno.

Pancrazio. Vi consigliava a sposarmi, eh?

Rosaura. E con tutta l’efficacia del di lui spirito.

Pancrazio. Davvero! Oh guardate che finezza mi voleva fare!

Rosaura. Ah, signor Pancrazio, non mi credeva mai trovare un carnefice nel vostro sangue. [p. 556 modifica]

Pancrazio. Colui non è già del mio sangue.

Rosaura. Come! Non è vostro figlio?

Pancrazio. Oh appunto! Egli è mio genero, non è mio figlio.

Rosaura. Ottavio non è vostro figlio?

Pancrazio. Ottavio, certo che è mio figlio.

Rosaura. Perchè dite dunque che è vostro genero?

Pancrazio. (Ah poveretta, ella gira). (da sè) Dico che Lelio è mio genero.

Rosaura. Come e’entra il signor Lelio in questo discorso?

Pancrazio. Oh bella! Non siete voi innamorata di lui?

Rosaura. Io? Il ciel me ne liberi. Lelio ha per moglie Beatrice.

Pancrazio. Dunque di chi abbiamo parlato finora?

Rosaura. Voi parlaste di Lelio?

Pancrazio. Sibbene, di quel pazzo; e voi di chi intendeste?

Rosaura. (Oh Dio! m’ingannai). Intesi dire... (Ah che il rossore mi opprime!) Signore, non mi abbadate. La passione mi toglie il senno.

Pancrazio. Eh via, spiegatevi meglio. Parlatemi con libertà, se mai foste innamorata...

Rosaura. Non posso più. Lasciatemi respirare. (O cielo, che mai ha fatto quest’incauto mio labbro!) (da sè)

SCENA III2.

Pancrazio solo.

Sentite, venite qua. Sì! La fugge come il vento. Adesso ho capito. Adesso ho scoperto il tutto. Ella è innamorata d’Ottavio, e Ottavio le ha dato la parola di sposarla. Ed a me non dice niente? Ed a me non lo confida? Ah poveretto! Tutto effetto del suo buon cuore e del rispetto che ha per me. Egli la persuade a sposarmi, e forse egli stesso si tormenta per mia cagione. Adesso comprendo il motivo della malinconia che l’agita. Egli è confuso tra l’amor di Rosaura ed il timore di disgustarmi. [p. 557 modifica] Ed io averò cuore di tormentare un figlio che mi vuole tanto bene? Egli sa vincere la sua passione, ed io non saprò superar l’interesse! Or bene, vada tutto, ma si salvi un figlio che ha la virtù di amare la quiete del padre, più delle proprie soddisfazioni. Eccolo appunto che viene. Cielo, ti ringrazio che ho scoperto la verità. Gli cederò la sposa, gli rinunzierò la casa, gli darò anche il nùo cuore.

SCENA IV3.

Ottavio e detto.

Ottavio. (Mio padre in camera di Rosaura?) (da sè)

Pancrazio. Ottavio, non voglio più vederti confuso, non voglio rimirarti malinconico. È tempo di allegria, e voglio che passi i tuoi giorni allegramente.

Ottavio. Che bella occasione ci dà motivo di giubilo?

Pancrazio. Nozze, figliuol mio, nozze. Bisogna lasciar da banda l’inquietudine e dar gloria all’amore.

Ottavio. Io godo internamente de’ vostri contenti, e se non mostro il giubilo nel mio volto, è un effetto della mia naturale tristezza. Il cielo feliciti queste vostre nozze.

Pancrazio. Ma non son già io lo sposo.

Ottavio. Dunque molto meno avrò motivo di rallegrarmi.

Pancrazio. Anzi ti dovrai molto più consolare.

Ottavio. Ma perchè?

Pancrazio. Perchè lo sposo sarai tu.

Ottavio. Io! Perdonatemi, non son in caso di prender moglie.

Pancrazio. Quando saprai chi è la sposa, non dirai così.

Ottavio. Chi mai mi avete destinato?

Pancrazio. Indovinala.

Ottavio. Non me lo saprei immaginare.

Pancrazio. Una che ti vuol bene.

Ottavio. Non è così facile il ritrovarla. [p. 558 modifica]

Pancrazio. E che ancor tu le porti un grande affetto.

Ottavio. È quasi impossibile.

Pancrazio. Senti, Ottavio: tuo padre ti stima, ti ama, e fa conto di te assai più di quello che pensi. Dovrei ben io lamentarmi del mio figlio, che si poco affidandosi del mio affetto, non mi confida i segreti del suo cuore; ma condono il tutto all’azione eroica che avevi disposto di fare. Ottavio, figliuol mio, consolati: Rosaura sarà tua sposa.

Ottavio. (Che colpo maspettato è mai questo!) (da sè) Come! La signora Rosaura mia moglie? Ed ella acconsente?

Pancrazio. Non vede l’ora.

Ottavio. E voi la rinunziate?

Pancrazio. Che cosa non farei io per te? Rinunzierei anche la vita.

Ottavio. E la sua eredità?

Pancrazio. A lei non le importa. Ed io, quando si tratta di contentarti, non ci penso. Val più la tua vita, che cento eredità. Rosaura stima più le tue nozze, che qualsivoglia ricchezza.

Ottavio. Che voi mi cediate una bella sposa e una ricca dote, è un eccesso d’amor paterno; che ella ricusi uno stato comodo, una eredità doviziosa, è un eccesso d’amor fedele; ma se io accettassi offerte sì generose, commetterei un eccesso d’ingratitudine. Conosco il mio dovere, non vaglio io a ricompensare le vostre perdite. Rosaura secondi il suo destino, voi abbracciate la vostra sorte; e in quanto a me, lasciatemi la bella gloria d’aver saputo vincere la mia passione.

Pancrazio. No, Ottavio, son risoluto. Rosaura sarà tua moglie.

Ottavio. E voi potete dirlo? Voi che sapete meglio d’ogni altro quali sieno le condizioni impostele da suo padre?

Pancrazio. Dimmi un poco: a Rosaura vuoi tu bene?

Ottavio. L’amo quanto me stesso.

Pancrazio. Dunque Rosaura sarà tua moglie. (parte)

Ottavio. Volesse il cielo che ella fosse mia, senza il pericolo di sentir un giorno i suoi rimproveri, senza il rimorso di vederla per me dolente! Ma ciò è impossibile, non posso di ciò lusingarmi. Rosaura non può esser mia. E se ella è disposta a [p. 559 modifica] sagrificare per me le sue sostanze, devo sagrificare per essa la vita. Oh cieli! Rosaura dunque ha parlato? Ha svelato ella dunque l’arcano, che proposto avevamo di serbar celato. Non mi serva però d’esempio. Ella, come donna, cede alla forza della passione, lo sono in debito di sostenere la virile costanza. (parte)

SCENA V.

Strada con casa di Pancrazio.

Trastullo4 e Arlecchino.

Arlecchino. Ho inteso tutto.

Trastullo. Te ne ricorderai bene?

Arlecchino. Cugnà, no te dubitar; gh’ho bona memoria, e farò tutto pulito.

Trastullo. Via, da bravo, fa il servizio come va fatto.

Arlecchino. Cugnà, lassa far a mi; ma quando faremio sto matrimonio?

Trastullo. Presto.

Arlecchino. Stassera?

Trastullo. Via, sì, stassera.

Arlecchino. Cugnà, varda ben che me fido de ti.

Trastullo. Fidati (che stai fresco). (da sè)

Arlecchino. Se no sposo Fiammetta, ti ghe penserà ti.

Trastullo. Ma non mi tormentare. Fa quel che ti ho detto, e sarai consolato.

Arlecchino. Cugnà, a revèderse.

Trastullo. Buon giorno. Ricordati, sai?

Arlecchino. Sì, me ne recordo. (in atto di partire)

Trastullo. A mezz’ora di notte?

Arlecchino. A mezz’ora de notte.

Trastullo. Sì, poco ci manca.

Arlecchino. Cossa hoio da far a mezz’ora de notte? [p. 560 modifica]

Trastullo. Oh bella! Introdurre il signor Florindo: che5 non te ne ricordi?

Arlecchino. Sì, adesso me l’arecordo... Dove l’hoio6 da introdur?

Trastullo. Ah, non ti ricordi più di niente? In casa del tuo padrone, e tu hai da procurare...

Arlecchino. Via, adesso so tutto... Cossa hoio da procurar?

Trastullo. Tocco di mammalucco, senza giudizio e senza memoria.

Arlecchino. Mo caro cugnà, ti me l’ha dito una volta sola. No sastu che per un albero no casca un colpo?

Trastullo. Vien qua, te lo dirò un’altra volta. E se tu vuoi sposar la mia sorella, mettiti bene in memoria quel che voglio da te.

Arlecchino. Eh, co se tratta de sposarme, lassa far a mi; ficcherò ben a memoria come che va.

Trastullo. Stassera lascerai aperta la porta della riva...

Arlecchino. Qual ela mo la porta della riva?

Trastullo. Ancora non lo sai? Quella del canale. Per di là, a mezz’ora di notte, entrerà il signor Florindo, e tu...

Arlecchino. Ho inteso, e mi anderò a avvisar el patron. (in atto di partire)

Trastullo. No, bestia, fermati; il tuo padrone non ha da saper niente.

Arlecchino. Eppur me par che ti m’abbi dito qualcossa del patron.

Trastullo. Ho detto che il padrone non l’ha da sapere.

Arlecchino. Vedit se ho bona memoria? Saver e no saver, gh’è poca differenza.

Trastullo. Oh che matto! Orsù, intendi bene: a mezz’ora di notte hai da introdurre per la porta della riva il signor Florindo, e lo devi condurre nelle camere della signora Rosaura...

Arlecchino. L’hoio da aspettar?

Trastullo. Sicuro. Bisogna che tu l’aspetti nella strada.

Arlecchino. Ben, e col vegnirà, ghe farò lume col torzo.

Trastullo. Oh che asino! Bisogna che tu l’introduca allo scuro.

Arlecchino. A scuro? Se romperemo el muso.

Trastullo. Adess’adesso lo rompo io a te. [p. 561 modifica]

Arlecchino. Abbi pazienza, cugnà; son un poco duretto, ma farò pulito.

Trastullo. Basta; tu m’hai inteso. Hai da condurre il signor Florindo allo scuro, in camera della signora Rosaura.

Arlecchino. Ho capido.

Trastullo. Farai pulito?

Arlecchino. Cugnà, no te dubitar.

Trastullo. Avverti a non isbagliare.

Arlecchino. Cugnà, no gh’è dubbio.

Trastullo. Oh bravo! Fatti onore.

Arlecchino. A revèderse, cugnà.

Trastullo. Addio, Arlecchino.

Arlecchino. Mo per cossa no me distu cugnà?

Trastullo. Te l’ho già detto tante volte, che questa parola mi ha seccato.

Arlecchino. Vago via, cugnà.

Trastullo. Schiavo...

Arlecchino. Cugnà.

Trastullo. Quel che tu vuoi.

Arlecchino. Caro ti, fame un servizio.

Trastullo. Cosa vuoi?

Arlecchino. Dime cugnà.

Trastullo. (Mi fa ridere). (da sè) Ti saluto, cognato.

Arlecchino. Cugnà, bona sera; adesso son contento. A revèderse, el me caro cugnà. (entra in casa)

SCENA VI.

Trastullo7, poi il Dottore.

Trastullo. Costui è il più bel carattere del mondo. Mia sorella fa male a non volerlo, perchè un marito semplice di questa sorta è un bel capitale per una donna di spirito.

Dottore. Dove sei stato, che è tanto ch’io non ti vedo? [p. 562 modifica]

Trastullo. A operare pe’ miei padroni.

Dottore. In che proposito?

Trastullo. Sul proposito che la signora Rosaura ha da esser moglie del signor Florindo, e quell’eredità ha da venire in casa sua.

Dottore. Ho già preparata la querela del testamento...

Trastullo. Senza tante querele, senza far liti, senza brodi lunghi, il signor Florindo ed io abbiamo trovato il modo di tentare questa faccenda, e siamo sicuri d’una buona riuscita.

Dottore. Trastullo, tu mi consoli.

Trastullo. Viva pur quieto, e si fidi di noi.

Dottore. Non occorr’altro. Attenderò l’esito con impazienza.

Trastullo. Domani saprà qualche cosa. Signor padrone, le fo umilissima riverenza.

Dottore. Buon giorno. (Gran Trastullo!) (da sè)

Trastullo. Non credo che il signor Florindo si perderà di coraggio: io lo metto alle mosse, tocca a lui a correre, se vuol vincere il palio. (parte)

SCENA VII.

Il Dottore, poi Pancrazio8

Dottore. Quanto pagherei a veder mortificato quell’animalaccio di Pancrazio!

Pancrazio. Già si avvicina la notte; è tempo che vada a casa a concludere questo negozio... (Ma ecco qua il signor avvocato delle cause perse). (da sè)

Dottore. (Ecco qui il signor mercante de’ fichi secchi). (da sè)

Pancrazio. (Oh che caro dottor senza dottrina!) (da sè)

Dottore. Servitor suo, signore sposo.

Pancrazio. Schiavo devotissimo, signor erede.

Dottore. In grazia, perdoni la confidenza; quando si faranno queste nozze? [p. 563 modifica]

Pancrazio. Oh presto, presto; ma quando si faranno, V. S. sarà avvisata. Spero che favorirà di onorarmi di venire a bere un sorbetto. (con ironia)

Dottore. Sì signore, riceverò le sue grazie, e V. S. favorirà venir da me a bere un bicchier di vino, quando anderò al possesso dell’eredità di Petronio.

Pancrazio. Ho paura che quel vino voglia diventare aceto.

Dottore. Ed io temo che quel sorbetto non si voglia gelare.

Pancrazio. Se non avete altro da mangiare, volete digiunare per un pezzo.

Dottore. Oh bello il signor sposo! Siete vecchio: senectus ipsa est morbus.

Pancrazio. Io per isposar Rosaura son troppo vecchio; ma voi per disputar meco siete ancor troppo giovane.

Dottore. Volete una sposa da par vostro? Sposate la morte.

Pancrazio. Volete un’eredità secondo il vostro merito? Raccomandatevi alle vostre cabale.

Dottore. Io sono un avvocato che vi farà tremare.

Pancrazio. Siete un uomo che fa paura? Potete andare in campagna a far paura agli uccelli.

Dottore. Voi siete una figura da gira arrosto.

Pancrazio. Signor Dottore, buon dì a vossignoria; ella mi perdoni, ho burlato.

Dottore. Se lei ha burlato, a me non me ne importa nulla. (con caricatura)

Pancrazio. Oh, che dottore senza giudizio!

Dottore. Oh, che vecchio ignorante! Domani la discorreremo.

Pancrazio. Signor sì, domani, e quando ella vuole.

Dottore. Vi farò vedere chi sono.

Pancrazio. Tenete. (gli fa uno sgarbo, in atto di disprezzo)

Dottore. Rustica progenies nescit habere modum. (parte)

Pancrazio. Mi dispiace, che non intendo; che gli vorrei rispondere per le rime. Dottore sguaiato... Ma si fa notte: voglio andare in casa per ultimare l’affare con il mio figliuolo. Assolutamente voglio far questo matrimonio, e poi che cosa sarà? [p. 564 modifica] Perderemo l’eredità? Il signor dottor Balanzoni trionferà? Mi burlerà? Chi sa! può essere anche di no. Non son tanto indietro colle scritture; non son tanto miserabile di cervello, che non sappia trovare un ripiego. Quello che più mi preme, è la vita del mio figlio. Del rimanente poi ci penseremo. (entra in casa)

SCENA VIII.

Canera di Pancrazio con due porte.

Arlecchino, conducendo Florindo all’oscuro.

Arlecchino. La vegna con mi, e no la s’indubita niente.

Florindo. Ma dove mi guidi?

Arlecchino. In camera della siora Rosaura.

Florindo. E dove è questa camera?

Arlecchino. L’ha da esser qua, ma non trovo la porta. (cercando la porta)

Florindo. Ci sarà in camera la signora Rosaura?

Arlecchino. Sior no, ma mi l’anderò avvisar.

Florindo. Fa presto... Veggo un lume, nascondiamoci.

Arlecchino. Andemo in camera. (cercandola)

Florindo. Dove sarà?

Arlecchino. Non lo so.

Florindo. È quella? (al lume che vede di lontano, scopre la camera di Rosaura)

Arlecchino. Sior sì, l’è quella: sta luse me fa servizio.

Florindo. Mi celo, per non esser sorpreso9 (entra nella camera)

Arlecchino. E mi vad a avvisar siora Rosaura. Ho fat polito. Son un omo de garbo; no merit una Fiammetta, ma diese Fiammette. (parte)

SCENA IX.

Pancrazio10 ed Ottavio col lume.

Ottavio. Si può sapere, signor padre, che cosa pretendiate da me? Per amor del cielo, lasciatemi nella mia libertà. [p. 565 modifica]

Pancrazio. Senti, o tu hai da fare a modo mio, o tu sarai causa che mi darò ancor io alla disperazione. Voglio che tu sposi Rosaura.

Ottavio. Ma voi volete precipitar lei, voi e tutta la vostra casa.

Pancrazio. Che importa a me d’esser ricco, se la mia ricchezza può essere cagione della morte del mio caro figlio? I padri non hanno altro bene in questo mondo, che quello delle loro creature. Tu sei mio sangue, ti voglio consolare anche a dispetto della tua ostinazione. Aspettami qua. Vado a prender Rosaura, e su due piedi voglio che tu la sposi.

Ottavio. Ma io certamente...

Pancrazio. Taci. Se tu non hai premura di te stesso, abbi rispetto pel tuo genitore. E se non vuoi farlo per amore, fallo per obbedienza. La virtù d’un figlio consiste principalmente nell’obbedire a suo padre. Se tu continui ad essere ostinato, la tua virtù diventa viziosa, e invece di obbligarmi ad amarti, ti sarò il maggior nemico che tu possa avere in questo mondo.

Ottavio. No, caro padre, non mi atterrite colla minaccia dell’odio vostro: vedete che io non recalcitro ad obbedirvi per poco rispetto dei vostri comandi, ma anzi per vero amore, per vera cognizion di me stesso. Rosaura forse mi darà la mano; voi siete disposto a cederla per amor mio; ma passerebbe poco tempo, che entrambi vi pentireste d’averlo fatto.

Pancrazio. Dice il proverbio: per la strada si accomoda la soma; mettiti pure in viaggio così alla meglio con essa, e non dubitare, che arriverai al fine bramato. (parte)

Ottavio. Che bel11 temperamento è quello di mio padre! In mezzo alle cose più serie non lascia le lepidezze! Ma ora verrà con Rosaura, ed io che farò? Le darò la mano di sposo? Ecco precipitata lei e tutta la nostra famiglia. E se ricuso sposarla? Eccomi in procinto di perderla. Queste due estreme necessità esigono da me qualche altro spazio di tempo a risolvere. Chi precipita le risoluzioni, tardi si pente. La notte è ottima [p. 566 modifica] consigliera. Vi penserò, e domani risolverò con maggior fondamento. Perdoni il genitore se non l’attendo, se non l’obbedisco, e si glori anzi d’aver prodotto al mondo un uomo che sa colla ragione dominar le proprie passioni. (parte)

SCENA X.

Florindo esce di camera.

Ben opportunamente la sorte mi ha fatto essere in questa casa. Rosaura è innamorata d’Ottavio? Il vecchio vorrebbe che ei la sposasse, ed egli la ricusa, perchè non perda l’eredità? A me non compie che l’abbia nè il padre, nè il figlio. Se sposa Pancrazio, ella è padrona di tutto; se sposa Ottavio, averò un gran nemico, una fiera lite, un eterno disturbo. È mio interesse di farla mia, e frattanto è necessario interrompere i loro disegni. Buon per me che Ottavio non ha obbedito suo padre, e si è ritirato. Domani cercherò il modo di vedere Rosaura con maggior comodo, fuori di questa casa. Qui la cosa è troppo pericolosa; ora col benefizio del lume me n’anderò... Ma sento gente. Oh stelle! Ecco Pancrazio con Rosaura: se torno a nascondermi, mi vedranno attraversare la camera; meglio è ch’io spenga il lume. (smorza il lume)

SCENA XI.

Pancrazio con Rosaura per mano, e detta.

Pancrazio12. Guardate che matto! Mi vede venire, e spegne il lume. Chi mai direbbe, che un uomo così grande e grosso fosse vergognoso più di un bambino? Ottavio, dove sei? Sei tu qua?

Florindo. (Mio cuore, vi vuol coraggio. Alfine la mia spada mi leverà da ogn’impegno). (da sè) [p. 567 modifica]

Pancrazio13. Dove sei, dico? Sei tu andato via?

Florindo. No, signore, son qui. (altera la voce)

Pancrazio14. Vien qua, dammi la mano.

Florindo. Lo farò per obbedirvi. (come sopra)

Rosaura. Solo per obbedire il padre mi darete la mano? Non lo farete per amor mio? Andate, che in tal maniera io non vi voglio.

Florindo. (Oh questa è bella). (da sè) Mia cara, io v’amo... (come sopra)

Rosaura. La vostra voce fa conoscere il turbamento del vostro cuore. Pensate bene, che poi...

Pancrazio15. Eh via, quanti discorsi! Ottavio, dammi la mano. (prende la mano a Florindo)

Florindo. Eccola. (Fortuna, non mi abbandonare). (da sè)

Pancrazio16. Via, sbrigatevi, prendetevi la mano, e terminiamo questo affare. (unisce la mano di Rosaura a quella di Florindo)

Rosaura. Eccovi la mia destra, e con essa il mio cuore.

Pancrazio17. State forte; non vi movete. Questa promissione non sarebbe sussistente, se non vi fossero due testimoni. Chi è di là, vi è nessuno?

Florindo. (Vorrebbe liberarsi.)

Pancrazio18. Eh via, fermati, tu non mi scappi. Vi è nessuno, dico?

SCENA XII.

Fiammetta col lume, e detti.

Fiammetta. Signore, che comandate?

Pancrazio19. Ohimè, che negozio è questo? Che è questo tradimento? Che cosa fate qua, signor Florindo? (lo lascia) [p. 568 modifica]

Rosaura. Misera me! Che inganno è mai questo?

Florindo. (Mette mano) Non vi avanzate, se vi preme la vita.

Pancrazio20. Come siete qua? Perchè? Presto, parlate.

Fiammetta. (Un uomo con una donna all’oscuro, e domanda che cosa facevano!) (da sè)

Florindo. (Ci sono, vi vuole ardire). (da sè) Signora Rosaura, mia amorosissima cugina, siamo scoperti; non ci possiam più nascondere. Signore, in me vedete un amante di Rosaura; qui venni, da lei invitato, per istabilire le nostre nozze. (a Pancrazio)

Rosaura. Ohimè, che sento? Mentitore, siete un indegno, siete un mendace. Non è vero, signor Pancrazio, non gli credete.

Florindo. Non è maraviglia che Rosaura, per coprire la sua debolezza, m’accusi di mentitore; io da lei tutto voglio soffrire, ma sa ben ella le confidenze che fra noi passano.

Pancrazio21. Ella è una bagattella!

Fiammetta. (A buon intenditor poche parole). (da sè)

Rosaura. Oh cielo! Perchè non scagli un fulmine sul capo di quell’indegno impostore? Ah, signor Pancrazio, mi conoscete, non son capace di azioni cotanto indegne.

Pancrazio22. Pare impossibile ancora a me: sarebbe un tradimento troppo terribile. Fingere di amar mio figlio!23... In casa mia!... Oh! non la posso credere.

Florindo. Eppure è così, ve lo giuro, ve lo protesto. Mi credete voi così pazzo, ch’io fossi venuto di notte in questa casa senza la sua intelligenza? A che fine? Perchè? Eh, signor Pancrazio, non istupite che Rosaura vi riesca diversa all’apparenza: questo è il vero carattere delle donne.

Rosaura. Anima scellerata!

Florindo. Tutto soffro dal vostro labbro.

Rosaura. Vi odio più della morte.

Florindo. Mi amaste quanto la vita. [p. 569 modifica]

Rosaura. Siete un bugiardo.

Florindo. Vi compatisco.

Pancrazio24. Orsù, signor Florindo, non posso e non voglio credere che la signora Rosaura sia capace di un’azione così indegna.

Florindo. Dunque sarò io quel mentitore che mi decanta?

SCENA XIII.

Arlecchino e detti.

Arlecchino. Oh, eccola qua.

Florindo. (Ecco il servo opportuno). (da sè)

Arlecchino. Cerca, cerca, v’ho pur trovà. (a Rosaura)

Pancrazio25. Che vuoi tu da mia figlia?

Florindo. Signor Pancrazio, ecco il testimonio che potrà autenticare quello che a me non volete credere.

Pancrazio26. Come! Arlecchino...

Rosaura. Che può dire Arlecchino?

Arlecchino. Mi digo27...

Florindo. Dimmi un poco, chi mi ha introdotto in questa casa?

Arlecchino. Mi, per la porta della riva, a scuro.

Pancrazio28. Tu, tocco di briccone...

Arlecchino. Zitto, che vussioria non l’ha da saver.

Pancrazio29. Io non l’ho da sapere?

Arlecchino. Sior no, no l’ha da saver altri che siora Rosaura.

Rosaura. Io?..

Florindo. Sentite? La signora Rosaura era intesa della mia venuta.

Rosaura. Non è vero.

Florindo. Tu, Arlecchino, chi andavi ora cercando?

Arlecchino. Siora Rosaura, per dirghe che l’amigo l’era in camera a scuro, che l’aspettava.

Pancrazio30. Come? [p. 570 modifica]

Rosaura. Io non so nulla...

Florindo. Non lo sapeva la signora Rosaura ch’io era qui? (ad Arlecchino)

Arlecchino. Non lo sapeva.

Florindo. Come non lo sapeva? Lo sapeva. (alterato)

Arlecchino. Lo sapeva.

Florindo. Sentite? (a Pancrazio) Non son venuto io qui per ordine della signora Rosaura? (ad Arlecchino)

Arlecchino. Signor sì.

Rosaura. Mentisci, temerario.

Pancrazio31. Chi ti ha dato quest’ordine? (ad Arlecchino)

Arlecchino. Ande via, che no gh’avì da intrar e no l’avì da saver. (a Pancrazio)

Florindo. Non doveva io parlare allo scuro colla signora Rosaura? (ad Arlecchino)

Arlecchino. Sior sì, ma no gh’ha da esser el patron.

Pancrazio32. Chi ti ha detto che non vi ho da essere?

Arlecchino. Me l’ha dito...

Florindo. Orsù, signor Pancrazio, la cosa è ormai troppo chiara, e mi fate ingiuria cercando testimonianze maggiori della verità.

Pancrazio33. Costui è un pappagallo; non si sa quel che dica.

Arlecchino. Me maravei, son un omo che parla come i omeni; so quel che digo, e quel che digo vu no l’avi da capir. Cercava siora Rosaura, perchè l’era aspettada a scuro; i s’ha trovà coll’amigo, bon prò ghe fazza, ma vu no gh’ave da essere. Fiammetta, t’aspetto in cusina.

Fiammetta. A che fare?

Arlecchino. To fradello mor de voia de deventar me cugnà, e tutti i me amici no i vede l’ora che me marida. (parte)

Fiammetta. Aspetteranno un pezzo. [p. 571 modifica]

SCENA XIV.

Pancrazio34, Rosaura, Florindo e Fiammetta.

Rosaura. Ah, signor Pancrazio, fermatelo, fate che egli si spieghi.

Pancrazio. Che cosa ha egli da spiegare, se non sa neppure quel che si dica?

Florindo. (La semplicità di costui mi ha giovato infinitamente). (da sè)

Pancrazio. Orsù, domani la discorreremo meglio. Signor Florindo, contentatevi di andar fuori di questa casa. Finalmente, quand’anche fosse vero che Rosaura vi avesse fatto venire, questa è casa mia, ed io sono l’offeso. Per adesso non dico altro; andate, che ci riparleremo.

Florindo. Fin qua avete ragione. E se volete soddisfazione, son pronto a darvela.

Pancrazio. Signor no, la ringrazio infinitamente.

Florindo. Partirò, giacchè voi, che siete il padrone di questa casa, me l’ordinate. Rosaura, voi siete causa di un tal disordine. Signore, ella mi ha data la fede, deve esser mia.

Rosaura. Traditore! Non lo sperate giammai.

Pancrazio. Domani la discorreremo.

Florindo. (Chi non sa fingere, non isperi di migliorar condizione). (parte)

Fiammetta. (Eppure, eppure io giocherei che quel signorino volesse infinocchiar quel buon vecchio). (da sè)

Rosaura. Ah, signor Pancrazio, non mi fate sì gran torto di credere in me...

Pancrazio. Tacete, signora. Pur troppo ho ragione di dubitare. Non vi condanno assolutamente, ma sono un pezzo avanti per credervi complice d’un tal tradimento.

Rosaura. Mi meraviglio, io non son capace...

Pancrazio. Tacete, vi dico. Siete donna, e tanto basta. (parte) [p. 572 modifica]

SCENA XV.

Rosaura e Fiammetta.

Rosaura. Oh me infelice! Mi può far peggio la sorte? Farmi credere infedele, farmi comparire poco onesta?

Fiammetta. Ma, signora Rosaura, parliamoci fra di noi con vera confidenza e femminile libertà. Come va questa faccenda? Il signor Florindo è roba vostra sì o no?

Rosaura. Ti giuro, Fiammetta, sull’onor mio, e per quanto vi è di più sacro in cielo, che io non ne so nulla, che l’odio e l’aborrisco, e che egli è un temerario impostore.

Fiammetta. Oh maledetto35! E con tanta franchezza sostiene una tal falsità? E poi dice che noi altre donne siamo avvezze a fingere? E il signor Pancrazio, anch’egli si diletta di dire: siete donne, e tanto basta? Venga la rabbia a questi omenacci impertinenti, che ci vogliono far passare per doppie e per bugiarde, quando essi36 sono il ritratto della bugia e della falsità. Le donne, che hanno giudizio, fanno bene a non dir loro la verità, poichè, se si ha da soffrire delle mortificazioni, è meglio soffrirle per qualche cosa.

Rosaura. Ma quell’indegno, quel briccone d’Arlecchino, poteva dir peggio?

Fiammetta. Oh! in quanto a colui, parla sempre a sproposito. Mio fratello mi vorrebbe precipitare. Il mio merito non esige un uomo di così vil condizione. Basta, non è ancor mio marito. Ma voi, signora mia, non ve la lasciate passare così facilmente, vi va della vostra riputazione. Fatelo disdire quell’impertinente.

Rosaura. E come dovrò io fare? Aiutami, per pietà.

Fiammetta. Aspettate, vedo il signor Lelio, lo chiamerò.

Rosaura. No, per amor del cielo, che sua consorte è troppo gelosa.

Fiammetta. Se è pazza, suo danno. Il signor Lelio vi può giovare. In casi simili non conviene trascurar cosa alcuna. Eh, signor Lelio, favorisca. [p. 573 modifica]

SCENA XVI.

Lelio e detti

Lelio. Che bramate, amenissima giovine? Ma qui la signora Rosaura? Oh degnissima coppia!

Fiammetta. Signore, la signora Rosaura ha gran bisogno di voi.

Lelio. Volesse il cielo che la mia insufficienza valesse a prestar servizio al merito singolarissimo di una sì degna donzella37.

Fiammetta. Ma questa volta, signore, bisogna dar mano ai superlativi davvero, e fare una superlativa vendetta.

Lelio. Contro di chi?

Fiammetta. Contro il signor Florindo.

Lelio. Che vi ha egli fatto? (a Rosaura)

Rosaura. Ardì macchiar l’onor mio.

Lelio. Laverà la macchia col suo sangue.

Rosaura. Tanto spero dall’aiuto del cielo.

Lelio. Dite ancora dal valor del mio braccio.

Fiammetta. Egli ardì far credere che la povera signora Rosaura lo avesse invitato ad illeciti divertimenti.

Lelio. Temerario!

Rosaura. S’introdusse di nottetempo in questa casa.

Lelio. Indegno!

Fiammetta. E in faccia sua sostenne le sue menzogne.

Lelio. Sfacciato!

Fiammetta. Fatelo disdire.

Lelio. Svelerà le indegne sue frodi.

Rosaura. Restituitemi il mio decoro.

Lelio. Tornerà al suo lucente fulgore.

Fiammetta. Siete un cavaliere generosissimo.

Lelio. Sono ammirator del bel sesso.

Rosaura. A voi mi raccomando.

Lelio. Son tutto vostro.

Fiammetta. Tutto della signora Rosaura, e niente per me? [p. 574 modifica]

Lelio. Data la debita proporzione, distinto il merito e la condizione, son buono amico di tutte due.

SCENA XVII.

Beatrice e detti.

Beatrice. E per me, signor Lelio, non vi resta nulla?

Lelio. Il cuore38, che è tutto vostro.

Rosaura. (Ecco la gelosa). (da sè)

Fiammetta. (Ecco la pazza). (da sè)

Beatrice. No, no, seguite pure. Io non voglio disturbare i vostri interessi.

Rosaura. Signora, voi anzi potete contribuire alla mia quiete.

Beatrice. Certo, potrei consolarvi col soffrire e tacere.

Fiammetta. Non impedite un’eroica azione del vostro signor consorte.

Beatrice. Bell’eroismo! Cicisbeare sugli occhi della propria moglie!

Lelio. Signora Beatrice, siete in errore.

Beatrice. Toglietevi dagli occhi miei. Lasciatemi stare. Uomo senza giudizio e senza riputazione.

Lelio. Orsù, ho capito. Aspettatemi, che ora sono da voi. (parte)

SCENA XVIII.

Rosaura, Beatrice e Fiammetta.

Beatrice. Che pretende di fare? Giuro al cielo, se mi perderà il rispetto, l’avrà da far meco. E voi, signora Rosaura, fareste meglio a badare a’ fatti vostri, e lasciar stare mio marito; e tu, impertinente, vattene tosto di questa casa.

Fiammetta. Oh certo, che mi fate un gran dispiacere a licenziarmi dal vostro servizio. Le donne della mia qualità sono ricercate, pregate39, e non pregano. (parte)

Rosaura. Ma possibile, signora Beatrice, che vi lasciate così ac[p. 575 modifica]ciecare dalla gelosia, senza riflettere all’offesa che fate alle persone d’onore, senza considerare al vostro decoro, e senza prima assicurarvi del fondamento? Io sono una figlia onorata. Sono una sventurata amante d’Ottavio. Florindo mi perseguita, m’insidia, mi calunnia, mi vuole precipitare. Chiamo in soccorso il signor Lelio vostro consorte; egli per pietà, per cavalleria, mi promette assistenza, e voi lo rimproverate, e voi così mi mortificate? E di lui e di me così ingiustamente ardite di sospettare? Pensateci meglio; vergognatevi di voi medesima; mutate costume, se non volete vivere da insana e morire da disperata. (parte)

SCENA XIX.

Beatrice, poi Lelio.

Beatrice. Questa volta dubito di essermi veramente ingannata. Finalmente non ho veduto cosa di conseguenza. Ma quel mio marito non ha niente di giudizio... Però, per dir vero, lo tormento un po’ troppo... Non vorrei tirarlo a cimento... Se mi perde l’amore e mi abbandona?... È capace di farlo... Orsù, bisogna raddolcirlo un poco, andargli colle buone, e vedere di far la pace. Eccolo che ritorna.

Lelio. Signora consorte gentilissima, abbiamo tutti due a mutar vita. Io vivrò da eremita, e voi vivrete da ritirata. Le vostre gioje e i vostri abiti più non hanno a servir niente. Queste sono le chiavi dello scrigno e della guardaroba; ecco ch’io le ripongo in tasca, e non isperate di vederle mai più.

Beatrice. Come! I miei abiti? Le mie gioje?

Lelio. Voi siete gelosa di me; io sono geloso di voi. Voi temete ch’io mi renda colla cortesia troppo amabile; io temo che voi coll’abbellirvi siate troppo vezzosa.

Beatrice. (Questo è un colpo mortale!) (da sè) Ma io, se mi mostro di voi gelosa, lo fo perchè vi voglio bene.

Lelio. Ed io, perchè vi amo teneramente, penso a custodirvi con tal cautela.

Beatrice. Ah, voi volete vendicarvi di me. [p. 576 modifica]

Lelio. Vendicarmi di voi? Pensate! Ho troppo rispetto pel vostro merito.

Beatrice. Sapete che vi amo colla maggior tenerezza.

Lelio. Effetto della vostra singolar bontà.

Beatrice. Vi ho preso con tanto amore.

Lelio. Beato me, per un sì pregevole acquisto.

Beatrice. Di che vi potete dolere?

Lelio. Di nulla. Siete adorabile.

Beatrice. Conosco che parlate col fiele sulle labbra.

Lelio. Anzi son per voi tutto zucchero.

Beatrice. Voi mi farete dare nelle disperazioni.

Lelio. E voi mi farete morire.

Beatrice. Siete troppo crudele.

Lelio. Anzi sono di voi pietosissimo.

Beatrice. Dunque datemi almeno un’occhiata amorosa.

Lelio. Ecco, vi miro colla maggior tenerezza del cuore. (con caricatura)

Beatrice. Voi mi schernite.

Lelio. V’ingannate.

Beatrice. Datemi la mano.

Lelio. Ecco la destra, e con la destra il cuore.

Beatrice. Datemi...

Lelio. Che cosa, idolo mio? Comandate.

Beatrice. Vorrei...

Lelio. Disponete, arbitrate di me.

Beatrice. Le chiavi delle mie gioje.

Lelio. Quando avrete giudizio, ve le darò. (parte)

Beatrice. Poter di bacco! Mi burla, mi deride, e ho da soffrirlo? Ma! Ha trovato un segreto troppo potente per umiliarmi. Senz’abiti e senza gioje? Piuttosto senza pane, che senza simili adornamenti. Dunque che farò? È meglio umiliarsi in privato, per comparire in pubblico. Farò due carezze al marito, per andar vestita alla moda, e soffrirò anche qualche domestico dispiacere, per far figura nelle conversazioni.

Fine dell’Atto Secondo.


Note

  1. Vedasi Appendice.
  2. Vedasi Appendice.
  3. Vedasi Appendice.
  4. Vedasi Appendice.
  5. Pasq.: che!
  6. Paper., qui e più sotto: hoia.
  7. Vedasi Appendice.
  8. Vedasi Appendice.
  9. Zatta: per non essere scoperto.
  10. Vedasi Appendice.
  11. Bettin.: gran bel.
  12. Bett.: «Pantal. Vardè che matto, el me vede a vegnir, e el stua la luse. Chi mai dirave che un omo cussì grando e grosso fusse vergognoso più de un putello? El vorrà far le so cosse a scuro. Ottavio dov’estu? Estu qua?»
  13. Bett.: «Pant. Dov’estu. digo? Xestu andà via?»
  14. Bett.: «Pant. Vien qua, dame la man».
  15. Bett: «Pant. Eh via, quanti dottoressi. Ottavio, dame la man».
  16. Bell.: «Pant. Via, tocchevela lutti do. Marideve cussì a scuro, che questo xe un mistier che el se pol far senza luse».
  17. Bett.: «Pant. Forti là; non ve movè. Sta promission no la tegnerave, se no ghe fusse do testimoni. Oe, delà gh’è nissun?»
  18. Bett.: «Pant. Eh, pezzo de matto, no ti me scampi. Ch’i nissun? digo».
  19. Bett. «Pant. Olà! Coss’è sto negozio? Coss’è sto tradimento? Costa feu qua, sior Florindo?»
  20. Bett.: «Pant. Come seu qua? Perchè? Presto, parlè».
  21. Bett.: «Pant. Una bagatella!»
  22. Bett.: «Pant. Me par impussibile anca a mi; el saria un tradimento troppo terribile. Finzer d’amar mio fio... In casa mia!... Oh, no la posso creder».
  23. Zatta ha solo: di amar mio...
  24. Bett.: «Pant. Orsù, sior Florindo, no posso e no voggio creder che siora Rosaura abbia fallo sto gran maron».
  25. Bett.: «Pant. Cossa vustu da mia fia?»
  26. Bett.: «Pant. Come! Arlecchin...»
  27. Così Bett.; invece Pap., Pasq., Zatta: Mi? Digo.
  28. Bett.: «Pant. Ti, tocco de desgrazià...»
  29. Bett.: «Pant. Mi no l’ho da saver?»
  30. Bett.: «Pant. Ola!
  31. Bett.: «Pant. Chi l’ha dà sto ordine?»
  32. Bett.: «Pant. Chi l’ha dito che no gh’ho da esser?»
  33. Bett.: «Pant. Costù l’è un pappagallo; no se sa cosso diavolo che el diga».
  34. Vedasi Appendice.
  35. Bett.: Oh galeotto maledetto!
  36. Bett.: e loro.
  37. Bett.: di una fanciulla sì degna.
  38. Bett.: Il mio cuore.
  39. Bett.: sono pregate.