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564 | ATTO SECONDO |
SCENA XV.
Rosaura e Fiammetta.
Rosaura. Oh me infelice! Mi può far peggio la sorte? Farmi credere infedele, farmi comparire poco onesta?
Fiammetta. Ma, signora Rosaura, parliamoci fra di noi con vera confidenza e femminile libertà. Come va questa faccenda? Il signor Florindo è roba vostra sì o no?
Rosaura. Ti giuro, Fiammetta, sull’onor mio, e per quanto vi è di più sacro in cielo, che io non ne so nulla, che l’odio e l’aborrisco, e che egli è un temerario impostore.
Fiammetta. Oh maledetto1! E con tanta franchezza sostiene una tal falsità? E poi dice che noi altre donne siamo avvezze a fingere? E il signor Pancrazio, anch’egli si diletta di dire: siete donne, e tanto basta? Venga la rabbia a questi omenacci impertinenti, che ci vogliono far passare per doppie e per bugiarde, quando essi2 sono il ritratto della bugia e della falsità. Le donne, che hanno giudizio, fanno bene a non dir loro la verità, poichè, se si ha da soffrire delle mortificazioni, è meglio soffrirle per qualche cosa.
Rosaura. Ma quell’indegno, quel briccone d’Arlecchino, poteva dir peggio?
Fiammetta. Oh! in quanto a colui, parla sempre a sproposito. Mio fratello mi vorrebbe precipitare. Il mio merito non esige un uomo di così vil condizione. Basta, non è ancor mio marito. Ma voi, signora mia, non ve la lasciate passare così facilmente, vi va della vostra riputazione. Fatelo disdire quell’impertinente.
Rosaura. E come dovrò io fare? Aiutami, per pietà.
Fiammetta. Aspettate, vedo il signor Lelio, lo chiamerò.
Rosaura. No, per amor del cielo, che sua consorte è troppo gelosa.
Fiammetta. Se è pazza, suo danno. Il signor Lelio vi può giovare. In casi simili non conviene trascurar cosa alcuna. Eh, signor Lelio, favorisca.