L'avventuriere onorato/Atto I
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ATTO PRIMO.
SCENA PRIMA.
Camera di donna Aurora.
Donna Aurora e Berto.
Aurora. Viene a me questo viglietto?
Berto. Sì signora, a lei.
Aurora. Non vi è la soprascritta. Hanno detto che tu lo dessi a me?
Berto. A lei propriamente.
Aurora. Bene, io l’aprirò. Ritirati.
Berto. Mi ritiro.
Aurora. Dimmi, hai fatto quel che occorre in cucina, hai preparato il bisognevole per il desinare?
Berto. Niente affatto, signora.
Aurora. Come niente? Perchè?
Berto. Per una piccola difficoltà.
Aurora. Come sarebbe a dire?
Berto.1 Perchè il padrone questa mattina non ha quattrini da darmi.
Aurora. Come! Mio marito non ha denari?
Berto. Questa è un’infermità, signora mia, che la patisce spesso. E poi lo sa ella meglio di me.
Aurora. Mi dispiace per quel forestiere che abbiamo in casa; non vorrei che avessimo a restare in vergogna.
Berto. Per questa mattina io ci vedo poco rimedio.
Aurora. Tieni questo scudo. Compra qualche cosa, e fa presto.
Berto. Oh sì, signora, subito. (Le preme farsi onore col signor Guglielmo. Per suo marito questo scudo non lo avrebbe messo fuori). (da sè, parte)
SCENA II.
Donna Aurora sola.
Gran disgrazia è la mia, aver sempre da ritrovarmi fra le miserie! Un cittadino che non ha impiego e non ha grandi entrate, passa magramente i suoi giorni. Mi dispiace per il signor Guglielmo, che abbiamo in casa. Io lo vedo assai volentieri, e non vorrei che se ne andasse. Ma vediamo chi è che mi scrive questo viglietto. (lo apre) Ah sì, è donna Livia. Questa è una femmina fortunata; nacque mercantessa, ed è prossima ad esser dama. È giovine, è ricca, e quel che più stimo, è vedova e gode tutta la sua libertà. (legge) Amica carissima. Le gentili maniere del signor Guglielmo dimostrano esser egli un uomo civile ed onesto... Ah, ah, la vedovella è rimasta colta dal forestiere! Viene in casa mia col pretesto di veder me, e lo fa per il signor Guglielmo. Egli barzellettando narrò ieri sera con buonissima grazia le sue indigenze, ed io mi prendo la libertà di mandar venti doppie... Mandar denari ad una persona che è in casa mia? È un affronto gravissimo ch’ella mi fa: di mandar venti doppie a Voi... A me? acciò con buona maniera le facciate tenere a lui. Non è necessario2 ch’egli sappia che il denaro esca dalle mie mani; onde manderò fra poco un mio servitore colle venti doppie, il quale a voi le consegnerà, e le darete al signor Guglielmo quando vi parrà3. Quand’è così, la cosa non va tanto male. Quest’è un affronto che si può tollerare. Mi pare ancora impossibile, ch’ella mi mandi questo denaro. Sarebbe una femmina troppo generosa. Ecco mio marito.
SCENA III
Don Filiberto e detta.
Filiberto. Signora donna Aurora, questo forestiere quando se ne va di casa nostra?
Aurora. Non dubitate. Ha detto che fra otto o dieci giorni ci leverà l’incomodo.
Filiberto. Sono quattro mesi che va dicendo così. L’abbiamo ricevuto in casa per otto giorni, e sono quattro mesi.
Aurora. Abbiate un poco di convenienza. Se abbiamo fatto il più, facciamo anche il meno.
Filiberto. Ma in qual linguaggio ve l’ho da dire? M’intendete ch’io non so più come mi fare? Che non ho denari? Che non voglio fare altri debiti per causa sua?
Aurora. Per oggi ho dato io uno scudo da spendere.
Filiberto. E domani come faremo?
Aurora. Domani qualche cosa sarà. (Se venissero le venti doppie di donna Livia). (da sè)
Filiberto. Se non foste stata voi, l’avrei licenziato subito.
Aurora. Avreste fatto una bella finezza a que’ due cavalieri Napolitani, che ve l’hanno raccomandato.
Filiberto. Quelli sono andati via, e nessuno mi dà quattrini per provvedere la tavola d ogni giorno.
SCENA IV.
Berto e detti.
Berto. Signora, è domandata.
Aurora. Vengo subito. (Fosse almeno il servitore di donna Livia!) (da sè, parte)
Filiberto. Chi è che domanda mia moglie?
Berto. Un servitore.4 (in atto di partire)
Filiberto. Servitore di chi? Voglio saperlo.
Berto. Oh signor padrone, che novità è questa?
Filiberto. Novità di che?
Berto. Ella non ha mai usato voler sapere le ambasciate e le visite della padrona.
Filiberto. Da qui innanzi le vorrò sapere.
Berto. Ho paura che sia tardi... Basta... E il servitore di donna Livia. (parte)
Filiberto. Anche quella donna mette su mia moglie, e mi fa far delle spese5.
SCENA V.
Don Filiberto e donna Aurora che torna.
Filiberto.6 Ebbene, chi era che vi domandava?
Aurora. Il signor Guglielmo.
Filiberto. Subito una bugia. Non era il servitore di donna Livia?
Aurora. Se lo sapete, perchè me lo domandate? Sì, era il servitore di donna Livia, ma mi voleva anche il signor Guglielmo.
Filiberto. Se questo signore non se ne va colle buone, lo faremo andare colle cattive.
Aurora. Mi maraviglio che parliate così. Il signor Guglielmo è un galantuomo, è un uomo onorato e civile, e non va trattato sì male.
Filiberto. Sarà come dite voi, ma io spendo, e non ne posso più.
Aurora. Guardate s’egli è un uomo veramente garbato. Ora mi ha chiamato alla porta della sua camera; mi ha fatto un complimento di scusa...
Filiberto. E poi si è licenziato.
Aurora. E poi mi ha pregato ricevere dieci doppie per comprare della cioccolata.
Filiberto. Dieci doppie? Dove sono?
Aurora. Eccole in questa borsa.
Filiberto. Ma questo non è un affronto ch’egli ci fa?
Aurora. Che affronto? Di questi affronti bisognerebbe riceverne parecchi, e poi si può trattare con maggiore delicatezza? Ce li dà per la cioccolata.
Filiberto. Donde pensate voi che possa egli aver avuto questo denaro?
Aurora. L’avrà avuto dal suo paese.
Filiberto. Crediamo ch’egli sia una persona nobile?
Aurora. Egli non ha mai voluto dire nè il suo vero cognome, nè la sua condizione. Ma per quello che ho sentito dire ai due Napolitani che ce lo hanno raccomandato, è persona molto civile.
Filiberto. Bisognerà dunque comprare un poco di cioccolata, e farla subito.
Aurora. Questa mattina andiamo a berla da donna Livia. L’ambasciata me l’ha mandata per questo.
Filiberto. Al signor Guglielmo io non dico nulla delle dieci doppie.
Aurora. No certamente, egli non ha nemmen da sapere che voi le abbiate avute.
Filiberto. Sì, sì, ringraziatelo voi; a me non avete detto niente. Vediamo di uscirne con onore, se mai si può. Non vorrei però che con queste dieci doppie pretendesse egli di star qui dieci anni.
Aurora. Eccolo.
Filiberto. Vado via. Subito ch’ei ci lascia, ci converrà andar a stare un anno in villa, per rimediare alle nostre piaghe. (parte)
SCENA VI.
Donna Aurora, poi Guglielmo.
Aurora. A tempo giunte sono le venti doppie. Se donna Livia mi lascia in libertà di disporne, posso impiegarne dieci per acquietar mio marito, e ciò facendo, tornano anch’esse in profitto di quello a cui erano destinate.
Guglielmo. Servitore divoto della signora donna Aurora.
Aurora. Serva, signor Guglielmo; che vuol dire che mi parete confuso?
Guglielmo. Per dirle la verità, batto un poco la luna.
Aurora. Che cosa avete che vi disturba?
Guglielmo. Non vedo lettere di casa mia; passano i giorni e i mesi, e sono stanco di essere sfortunato.
Aurora. Via, abbiate pazienza. Seguite a tollerar di buon animo le vostre disavventure. La sorte s’ha da cambiare, e ha poi da farvi quella giustizia che meritate.
Guglielmo. Ma non sono più in caso di differire. Conviene ch’io faccia qualche risoluzione.
Aurora. Siete annoiato di stare in questa casa?
Guglielmo. Un uomo onorato, quale io professo di essere, deve poi arrossire di aver dato un incomodo così lungo ad una casa che lo ha favorito con tanta bontà.
Aurora. Queste sono inutili cerimonie. Servitevi, che ne siete il padrone; e quanto più state in casa nostra, tanto più ci moltiplicate il piacere.
Guglielmo. Conosco di non meritar tante grazie. Nel caso in cui sono, la loro pietà è per me una provvidenza del cielo. Ma non posso tirar innanzi così; conviene per assoluto ch’io me ne vada.
Aurora. Perchè mai, signor Guglielmo? Perchè?
Guglielmo. Signora, io sono un uomo schietto e sincero, e non mi vergogno parlar delle mie miserie. Oltre la casa, oltre il vitto, si sa quante cose sono necessarie ad un galantuomo; non dico altro; veda ella se mi conviene partire.
Aurora. (Il discorso non può essere più opportuno). (da sè) No, signor Guglielmo, voi non avete da partire per questo. In tutta confidenza, eccovi dieci doppie, servitevene nelle vostre occorrenze.
Guglielmo. Dieci doppie?... La mi perdoni; non sono in grado di riceverle7.
Aurora. Per qual ragione le ricusate?
Guglielmo. Domanderò a lei, se mi dà licenza, per qual ragione8 me le vuol dare.
Aurora. Perchè ne avete bisogno.9
Guglielmo. Ne ho bisogno, è vero, ma non per questo...
Aurora. Oh via, tenetele e non parlate.
Guglielmo. Ma, la supplico. Da chi viene l’offerta? Da lei o dal signor don Filiberto?
Aurora. Ricevetele dalle mie mani, e non cercate più oltre.
Guglielmo. E s’io le ricevessi, a chi ne sarei debitore?
Aurora. A nessuno.
Guglielmo. Non permetterò certamente...
Aurora. Orsù, la vostra insistenza nel ricusarle è un’ingiuria che voi mi fate.
Guglielmo. Non so che dire... Per non mostrare di essere ingrato, le prenderò. (Ne ho di bisogno, ma pure le accetto con del rimorso). (da sè)
Aurora. (Povero giovine! Può essere più modesto? Può essere più discreto?) (da sè)
Guglielmo. Non so che dire. Sono confuso da tante grazie...
Aurora. Non ne parliamo più. Ditemi, signor Guglielmo, siete dunque afflitto perchè non avete lettere?
Guglielmo. Da che sono a Palermo, non ho avuta nuova di casa mia.
Aurora. E della vostra signora Eleonora avete avuto notizia alcuna?
Guglielmo. Nemmeno di lei.
Aurora. Questo sarà il motivo della vostra malinconia, perchè non avete avuto nuove della vostra cara.
Guglielmo. Le dirò; la signora Eleonora l’ho amata10, come le ho raccontato più volte, ma se devo dire la verità, l’ho amata più per gratitudine che per inclinazione. Per impegno le ho promesso sposarla, e per lei mi sono quasi precipitato. Sono quattro mesi ch’ella non mi scrive. S’ella si è scordata di me, procurerò io pure di scordarmi di lei.
Aurora. Lo sa che siete in Palermo?
Guglielmo. Lo sa, perchè gliel’ho scritto.
Aurora. Non lo sapete? Lontan dagli occhi, lontan dal cuore; ne avrà ritrovato un altro.
Guglielmo. Quasi avrei piacere che fosse così. Conosco che io facea malissimo a sposarla. Ma quando uno è innamorato, non pensa all’avvenire; e dopo fatto, lo sproposito si conosce.
SCENA VII.
Berto e detti.
Berto. La signora donna Livia ha mandato la carrozza, e dice che se ne servano per andar da lei, e che non beve la cioccolata senza di loro.
Aurora. Bene, bene. Di’ al cocchiere che aspetti.
Berto. Sì signora. (Eccoli qui, sempre insieme, e il padrone non dice nulla). (da sè)
Aurora. Che dite della vedovella che or ora andremo a ritrovare? Vi piace?
Guglielmo. Per dir il vero, ella non mi dispiace.
Aurora. Pare giovinetta, ma non lo è poi tanto; nessuno11 sa quant’anni ell’abbia, meglio di me.
Guglielmo. Lo credo benissimo.
Aurora. Qui da noi passa per una bellezza; eppure non vi sono questi miracoli.
Guglielmo. Oh! non si può dire ch’ella non abbia il suo merito.
Aurora. Sapete che cosa ha di buono? È ricca.
Guglielmo. Non è poco. Quando una donna è ricca, pare bella se anche non è, e tutti le corron dietro.
Aurora. Signor Guglielmo, sareste anche voi uno di quelli che le correrebbero dietro per la ricchezza?
Guglielmo. Io non sono nel caso, signora mia: perchè per isposarla no certo, essendo con un’altra impegnato, per mangiarle qualche cosa nemmeno, perchè in queste cose sono delicatissimo.
Aurora. Non vi consiglierei che vi attaccaste con donna Livia. Ella è pretesa dai primi soggetti di questa città: dal marchese d’Osimo, dal conte di Brano, e che so io. Avreste degli impegni non pochi.
Guglielmo. Conti e marchesi? Che figura vorrebbe ella che facesse fra questi gran signori un povero disgraziato?
Aurora. Per altro, circa alla condizione, ci potreste stare anche voi.
Guglielmo. Per grazia del cielo, son nato anch’io galantuomo.
Aurora. Ma siete proprio di Venezia?
Guglielmo. Sì, signora, e me ne glorio; e spero che le mie disgrazie non mi renderanno mai indegno di nominar la mia patria.
Aurora. Orsù, io vado a dare alcuni ordini. Allestitevi per uscire, che andremo insieme da donna Livia. Via, state allegro; non pensate a disgrazie; siete in casa di buoni amici; non vi mancherà nulla; e se avete bisogno, disponete e comandate con libertà. (parte)
SCENA VIII.
Guglielmo solo.
Io non la capisco. Don Filiberto è un povero signore, di buon cuore sì, ma di poche fortune; e sua moglie, dieci doppie non sono niente: se vi occorre, parlate, disponete. O donna Aurora ha delle rendite che non si sanno, o vuol mandar in rovina il povero suo marito. Io però non l’ho da permettere. Non ho cuore da tirar innanzi così; ogni giorno, quando mi metto a tavola, mi vengono i rossori sul viso. Un uomo civile, nato bene e bene allevato, non può soffrire di vedersi lungamente dar da mangiare a ufo, e spezialmente da uno, che fa per impegno più di quello che le di lui forze permettono ch’egli faccia. Sarei partito anche prima d’adesso, ma donna Aurora bada a dire ch’io resti. Se fossi, per esempio, in casa di quella vedova ricca, non avrei tanti scrupoli a mangiarle un poco le costole; in questo mondo siamo tutti soggetti a disgrazie; e non è vergogna raccomandarsi, quando uno si trova in necessità. Qualche volta anch’io sono stato bene; ora son miserabile; ma la non ha da ire sempre così. Ho passato tante burrasche, passerà anche questa. Vo’ stare allegro, vo’ divertirmi, non voglio pensare a guai. Anzi voglio rider di tutto, e fissar in me questa massima, che l’uomo di spirito deve essere superiore a tutti i colpi della fortuna. (parte)
SCENA IX.
Camera in casa di donna Livia.
Donna Livia, poi il di lei Paggio.
Livia. Ecco, quattro partiti di matrimonio mi si offeriscono, ma niuno di questi mi dà nel genio, credendoli tutti appassionati, non già per me, ma per l’acquisto della mia12 dote. O goder voglio la libertà vedovile, o se nuovamente ho da legarmi, far lo voglio per compiacermi, e non per sacrificarmi. Oh, se quel Veneziano che è in casa di donna Aurora, fosse veramente una persona ben nata, come dimostra di essere, quanto volentieri lo sposerei! Ancorchè fosse povero, non m’importerebbe; diecimila scudi l’anno di rendita, che mi ha lasciato mio padre, basterebbono anche per lui. Spero che quanto prima colle lettere di Venezia potrò assicurarmi del vero.
Paggio. Signora.
Livia. Che c’è?
Paggio. È qui la signora donna Aurora. È smontata, ed ha salito mezze le scale.
Livia. E sola?
Paggio. Non signora. È in compagnia d’un forestiere.
Livia. Sarà quello che sta in casa con lei. Non lo conosci?
Paggio. Oh, se lo conosco! E come! Se ne ricordano le mie mani.
Livia. Le tue mani? Perchè?
Paggio. In Messina, dove io sono stato, egli faceva il maestro di scuola, e mi ha date tante maledette spalmate.
Livia. Faceva il maestro di scuola?
Paggio. Signora sì, e ora che mi ricordo, mi ha anche dato due cavalli. E sa ella dove? Se non fosse vergogna, glielo direi.
Livia. (Il maestro di scuola! Non vi è gran nobiltà veramente), (da sè) Eccoli. Fa che passino. (al paggio)
Paggio. (Se mi desse ora le spalmate e i cavalli, gli vorrei cavare un occhio). (a sè, parte)
SCENA X.
Donna Livia: poi donna Aurora, Guglielmo e i Servitori.
Livia. Eppure all’aspetto pare un uomo assai più civile. Basta, lo assisterò tant’e tanto, e se non mi sarà lecito di sposarlo, procurerò almeno ch’egli resti impiegato in questa nostra città.
Aurora. Amica, eccomi a darvi incomodo.
Livia. Voi mi onorate.
Guglielmo. Fo umilissima riverenza alla signora donna Livia.
Livia. Serva, signor Guglielmo, accomodatevi. La cioccolata. (siedono: donna Aurora nel mezzo. Servitori partono). Come ve la passate, signor Guglielmo? State bene?
Guglielmo. Benissimo, per ubbidirla13.
Livia. Mi parete di buon umore questa mattina.
Guglielmo. Piuttosto; in grazia della signora donna Aurora.
Livia. Amica, che cosa avete fatto per lui?
Aurora. Niente. Io non posso far niente, e non ho merito alcuno.
Guglielmo. Perdoni, io sono fatto così. Quando ricevo una grazia, un benefizio, ho piacere che tutto il mondo lo sappia. La signora donn’Aurora mi ha voluto dar dieci doppie.
Aurora. Sì, ma io non ne ho il merito. Nè voi sapete da chi vi vengano somministrate.
Guglielmo. Io so che le ho ricevute dalle sue mani.
Livia. Dieci doppie gli avete dato? (a donna Aurora)
Aurora. (Questa cosa m’imbroglia un poco). (da sè)
Livia. Perchè non dargliene venti? (a donna Aurora)
Guglielmo. Oh signora! Sono anche troppe le dieci.
Aurora. Vi dirò, gliene avrei date anche venti, ma siccome egli è un giovane generoso, potrebbe spenderle con troppa facilità, perciò mi riserbo di dargliele un’altra volta14.
Livia. (Donn’Aurora vuol far troppo l’economa). (da sè)
Guglielmo. (Io ci scommetterei che questo denaro viene da donna Livia).15 (a sè)
Livia. E bene, signor Guglielmo, come vi piace questa nostra città?
Guglielmo. Mi piace assaissimo; ma tanto non mi piace la città, quanto i bei mobili che ci sono.
Livia. E dove sono questi bei mobili?
Guglielmo. I mobili più preziosi di questa città sono in questa camera.
Livia. Queste tappezzerie non sono sì rare, che possano attrarre le vostre ammirazioni.
Guglielmo. Eh signora, c’è altro che tappezzerie? Ciò che adorna questa camera e questa città, sono due begli occhi, una bella bocca, un bel viso, un trattar nobile, una maniera che incanta.
Aurora. Oh via, signor Guglielmo, non principiate a burlare; qui non ci sono le belle cose che dite.
Livia. (Sto a veder ch’ella creda, ch’egli intenda parlar di lei), (da sè) Per altro in questa città ci stareste voi volentieri? (a Guglielmo)
Guglielmo. Sì, signora, ci starei volentieri.16
Livia. Sarebbe bene, se voleste rimanere in Palermo, che aveste un impiego.
Aurora. Dite, amica, che impiego credereste voi adattato per il signor Guglielmo?
Livia. Col tempo potrebbe aver qualche cosa di buono; frattanto, per non istare in ozio, per aver una ragione presso il pubblico di trattenersi, potrebbe fare il maestro di scuola.
Guglielmo. (Oh diamine, che cosa sento!) (da sè)
Aurora. Il maestro di scuola!
Livia. Signor Guglielmo, non l’avete voi esercitato in Messina? Il mio paggio è stato alla vostra scuola.
Guglielmo. Le dirò: è vero, non lo posso negare. A Messina ho dovuto insegnar l’abbici. Sappiano, signore mie, che partito da Napoli con un bastimento per venire a Palermo, una burrasca mi ha fatto rompere vicino al Faro. Ho perso la roba ed ho salvato la vita. Sono andato a Messina senza denari, malconcio dal mare e dalla fortuna, sconosciuto da tutti, senza sapere come mi far per vivere. Sono stato accolto con carità da un maestro di scuola, ed io, per ricompensa del pane che egli mi dava, lo sollevava dalla fatica maggiore, e per tre mesi continui ho insegnato a leggere e scrivere a’ ragazzi: professione che non17 pregiudica in verun conto nè alla nascita, nè al decoro di un uomo onesto e civile.
Aurora. Sentite, il signor18 Guglielmo è una persona civile. Ha fatto il maestro per accidente19. (a donna Livia)
Livia. Come poi avete fatto a partir di Messina?
Guglielmo. Coll’aiuto di un mio paesano. Noi altri Veneziani per tutto il mondo ci amiamo come fratelli, e ci aiutiamo, potendo. Mi ha egli assistito, mi sono imbarcato, e son giunto in Palermo.
Aurora. Quei due Napolitani amici di mio marito, che vi hanno a lui raccomandato, dove li avete voi conosciuti?
Guglielmo. Per accidente, nella tartana che qui mi trasportò da Messina. Presero a volermi bene, e mi fecero il maggior regalo del mondo, collocandomi in una casa che mi ha colmato di benefizi.
Aurora. Il signor Guglielmo si fa adorare da tutti.
Livia. Sì, è vero; ha maniere veramente gentili.
Guglielmo. Le prego, non mi facciano arrossire.
SCENA XI.
Fermo cameriere e detti, poi il Conte di Brano.
Fermo. Signora, è il signor conte di Brano. (a donna Livia)
Livia. Venga, è padrone.
Fermo. Quel signore mi par di conoscerlo. (osservando bene Guglielmo; e parte)
Aurora. Se avete visite, vi leveremo l’incomodo. (a donna Livia)
Livia. No, trattenetevi. Questi è uno de’ miei pretendenti; ma non gli abbado. È un ipocondriaco collerico, non so che fare di lui.
Aurora. (Quanta superbia per essere un po’ ricca!) (da sè)
Conte. Servo di donna Livia. (tutti s’alzano)
Livia. Serva, signor Conte. Accomodatevi. Sedete. (tutti siedono)
Conte. Voi siete in buona conversazione. (a donna Livia)
Livia. Quel signor forestiere è venuto con donna Aurora a favorirmi.
Guglielmo. Servitor suo umilissimo. (al Conte che lo guarda)
Conte. Padron mio riveritissimo... Mi pare, se non m’inganno, avervi veduto qualche altra volta.
Guglielmo. Non è niente più facile.
Conte. Non avete nome Guglielmo?
Guglielmo. Per obbedirla.
Conte. Voi dunque siete il signor dottor Guglielmo, che esercitava in Gaeta la medicina?
Livia. (Un medico?) (da se)
Aurora. (Un dottore?)20 (da sè)
Livia. (Se è medico, può esser nobile). (da sè)
Guglielmo. Sì, signore, è verissimo, a Gaeta ho esercitato la medicina, ma non son medico di professione. Mio padre era medico, ho imparato qualche cosa da lui, qualche cosa ho imparato a forza di leggere e di sentir a discorrere. Ho girato il mondo, ed ho acquistato delle cognizioni particolari. Partito da Napoli, per causa di una disgrazia accadutami, mi sono ritirato a Gaeta, e non sapendo come altrimenti poter campare, mi sono introdotto in una spezieria, mi sono inteso collo speziale, son passato per medico, ho ricettato, ho curato, ho guarito, ho ammazzato, ho fatto anch’io quello che fanno gli altri. Insomma campai benissimo, e qualche cosa ho potuto anche avanzarmi. Finalmente, per curiosità di sapere che cosa era successo di una certa ragazza, son ritornato a Napoli ed ho abbandonato la medicina, la quale per quattro mesi continui m’aveva fatto passare in Gaeta per l’eccellentissimo signor Guglielmo.
Aurora. Bravissimo: lodo il vostro spirito.
Livia. Signor dottore, io patisco qualche incomodo, mi prevarrò della vostra virtù.
Guglielmo. Può essere ch’io abbia un medicamento a proposito per il suo male.
Aurora. Siete in casa mia, signore, avete prima da operar per me. De’ mali ne patisco anch’io.
Guglielmo. Non dubitino; le risanerò tutte e due.
Conte. Dite: perchè avete lasciato di coltivare la medicina? Siete forse poco ben persuaso in favore di una tal professione?
Guglielmo. Anzi la venero e la rispetto.
Conte. Eppure ci sarebbe molto che dire...
Guglielmo. Signor Conte, mi perdoni, non dica male de’ medici. Perchè se si dice male de’ cattivi, se ne offendono ancora i buoni.
SCENA XII.
Fermo cameriere di donna Livia, e detti.
Fermo. Signora, il signor marchese d’Osimo. (a donna Livia)
Conte. (Ecco un mio rivale). (da sè)
Livia. È padrone. (Anche costui mi secca). (da sè)
Guglielmo. (Or ora viene qualche Principe, qualche Duca), (da sè)
Fermo. Signore, servitor suo. (a Guglielmo, mettendo una seggiola vicino a lui)
Guglielmo. Vi saluto.
Fermo. Ella non mi conosce più?
Guglielmo. Mi pare, ma non mi sovviene.
Fermo. Non si ricorda a Roma, che abbiamo servito insieme?
Livia. (Che sento!) (da sè)
Aurora. (Come?) (da sè)
Guglielmo. Servito? Dove? In qual maniera?
Fermo. Sì signore, io era cameriere, ed ella era segretario.
Guglielmo. Da servire a servire vi è della differenza21.
Livia. Andate a rispondere all’imbasciata del signor Marchese. (a Fermo)
Fermo. (Vuol fare il Cavaliere, e anch’egli mangiava il pane degli altri). (da sè, e parte)
Aurora. Colui deve sbagliare; non vi conoscerà.
Guglielmo. Non signora, non ha sbagliato, dice la verità. A Roma ho servito da segretario. Partii dalla patria per i disordini della gioventù. Andai a Roma per mio diporto; finchè ho avuto denari, me la sono goduta; terminati questi, ho principiato a far de’ lunari. Non sapeva più come andar innanzi. Trovai un cavaliere che, conoscendomi, ebbe compassione di me, e l’ho servito da segretario. La carica per altro di segretario con un cavaliere di rango e di autorità, non toglie, anzi accresce l’onore ed il merito a un giovine nato bene, che voglia esercitarsi per avanzare le sue fortune.22
Livia. S’io fossi una signora di rango, esibirei al signor Guglielmo la mia piccola segretaria.
Guglielmo. Mi sarebbe di gloria l’onor di poterla servire.
SCENA XIII.
Il Marchese d’Osimo e detti.
Marchese. Oh! signora donna Livia, siete ottimamente accompagnata. (tutti sì salutano vicendevolmente)
Livia. Io ho piacere di non restar sola.
Marchese. Avete delle liti?
Livia. Perchè?
Marchese. Vedo che avete qui l’avvocato.
Livia. E chi è questo avvocato?
Marchese. Eccolo qui: il signor Guglielmo. Io l’ho conosciuto in Toscana, ed egli forse non si ricorda di me.
Guglielmo. Mi ricordo benissimo di aver avuto l’onor di vederla. So ch’ella aveva una causa di conseguenza, e so anche che l’ha perduta.
Aurora. (Anche l’avvocato?) (da sè)
Livia. Avete fatto l’avvocato in Toscana?
Guglielmo. È verissimo. Ho fatto anche l’avvocato. Stanco della soggezione che deve un segretario soffrire, ho cambiato paese ed ho cambiato ancora la professione. Ho esercitato la professione legale, e posso dir con fortuna; in poco tempo avea acquistato credito, aderenze e quattrini; e se io tirava innanzi per quella strada, oggi forse sarei in uno stato da non invidiare nessuno.
Livia. Ma perchè abbandonare?...
Aurora. Perchè ha voluto venir a stare in Palermo23. Caro avvocato, volete far la vostra professione da noi?
Livia. Io ho delle liti e ho delle parentele parecchie; non dubitate, non vi lascierò mancar cause.24
Conte. (Donna Livia si scalda molto per quel forestiere; sta a vedere che è di lui innamorata). (da sè)
Marchese. (Non vorrei che il signor avvocato facesse giù donna Livia. La sua dote non ha da essere sagrificata). (da sè)
SCENA XIV.
Targa, altro cameriere di donna Livia, e detti.
Targa. Signora, il signor conte Portici. (a donna Livia)
Livia. Venga pure. Mettete una seggiola. (a Targa)
Guglielmo. (Or ora viene tutta Palermo). (da sè)
Targa. Servitor umilissimo. (a Guglielmo, mettendo la seggiola)
Guglielmo. Addio, galantuomo.
Livia. Che! lo conoscete anche voi? (a Targa)
Targa. Sì signora, l’ho conosciuto in una città dello Stato Veneto, dove era cancelliere del Criminale. (parte)
Aurora. (È bellissima).25 (da sè)
Livia. Quanti mestieri avete fatti?26 (a Guglielmo)
Guglielmo. Che vuol ch’io le dica? Ho fatto anche da cancellier criminale; e per dirle la verità, questo fra tanti mestieri che ho fatto, è stato, secondo me, il più bello, il più dilettevole, il più omogeneo alla mia inclinazione. Un mestier civilissimo, che si esercita con nobiltà, con autorità; che porge l’occasione di trattar frequentemente con persone nobili; che dà campo di poter far del bene, delle carità, dei piaceri onesti; che è utile quanto basta, e tiene la persona discretamente e virtuosamente impiegata.
Livia. Sappiate, signor Guglielmo, che nella mia eredità vi è una giurisdizione comprata da mio padre, in cui vi posso far cancelliere.
Aurora. Se mio marito andrà fuori per governatore, non lascierà voi per un altro.
SCENA XV.
Il Conte Portici e detti.
Conte. Riverisco lor signori. (tutti salutano) Oh poeta mio, vi sono schiavo. (a Guglielmo) Siete qui per fare alcuna delle vostre opere?
Guglielmo. Padrone mio riverito.
Aurora. (Un’altra novità). (da sè)
Livia. Anche poeta? (verso Guglielmo)
Conte. Io l’ho conosciuto in Napoli. Ho inteso delle sue poetiche composizioni, ed ho veduto in parecchi teatri delle sue fatiche.
Aurora. Oh, questa è una bella professione!
Livia. Questo è un mestier dilettevole!
Guglielmo. Il comporre per i teatri lo chiamano bella professione, mestier dilettevole? Se sapessero tutto, non l’intenderebbono già così. Di quanti esercizi ho fatto, questo è stato il più laborioso, il più difficile, il più tormentoso. Oh, l’è pure la dura cosa faticare, sudare, struggersi ad un tavolino, per far una teatrale composizione, e poi vederla gettar a terra, sentirla criticare, lacerare, e in premio del sudore e della fatica, aver de’ rimproveri e de’ dispiaceri?
Aurora. Ma credo poi sia un piacer grande, quando si sentono le proprie fatiche applaudite dall’universale.
Guglielmo. Prima le dirò che poche volte l’universal si contenta, e poi quand’anche siasi più volte di uno scrittor compiaciuto, una cosa sola che sia o che sembri esser cattiva, fa perdere il merito a tutte le cose che furono applaudite. E se la lode si dà a mezza voce, il biasimo si precipita sonoramente e con baldanza.
Livia. È meglio che facciate l’avvocato. Io vi procurerò degli amici, e questi cavalieri vi assisteranno.
Aurora. E poi mio marito non vi lascierà mancar cause.
Marchese. La nostra città è ben provveduta; non c’è bisogno che un forestiere venga ad accrescere il numero degli avvocati. (Costui si va acquistando il cuore di donna Livia). (da sè)
Livia. Signor Marchese, se voi non volete prestargli la vostra protezione, non importa; tant’e tanto il signor Guglielmo avrà da vivere nella nostra città.
Marchese. Sì, avrà da vivere. Basta che una vedova ricca lo voglia mantenere.
Livia. Una vedova ricca può disporre del suo, senza essere soggetta alle censure di chi non deve imbarazzarsi ne’ fatti suoi.
Marchese. Per non imbarazzarmi ne’ fatti vostri, vi leverò il disturbo. Spero che il signor avvocato avrà cervello, e prima di prendere alcun impegno, s’informerà chi è il marchese d’Osimo. (parte)
SCENA XVI.
Donna Livia, donna Aurora, Guglielmo, il Conte di Brano, il Conte Portici.
Guglielmo. Ho capito, signore mie, si principia male.
Aurora. Eh, non abbiate paura, mio marito vi difenderà.
Guglielmo. L’avvocato non lo fo sicuramente. Non vorrei che il signor Marchese...
Livia. Bene, farete il medico.
Conte di Brano. Che? Abbiamo noi necessità di medici? Chi volete si fidi di un ciarlatano?
Guglielmo. Mi onora troppo questo cavaliere. (con ironia)
Livia. Signor Conte, voi parlate male di una persona che io ammetto alla mia conversazione.
Conte di Brano. (Costui l’ha innamorata senz’altro). (da sè) Sì, ecco le persone che si proteggono dalle belle donne. Un incognito, un avventuriere, un impostore. Servitevi come vi aggrada; ma il signor medico dispongasi a mutar aria. (parte)
SCENA XVII.
Donna Livia, donna Aurora, Guglielmo ed il Conte Portici.
Guglielmo. Per quel ch’io sento, andiamo sempre di bene in meglio.
Aurora. Non abbiate paura, mio marito vi difenderà.
Guglielmo. Nè anche il medico non lo fo certo, non voglio, come forestiere, che mi prendano per un ciarlatano.
Livia. Non avete detto, che più vi va a genio la professione del cancelliere?
Guglielmo. È verissimo.
Livia. Io vi procurerò una delle migliori cancellerie, se la mia non sarà lucrosa tanto che basti.
Aurora. Mio marito, mio marito ve la troverà.
Conte. Oh, la sarebbe bella che un forestiere venisse a mangiar il pane, che è riserbato per i paesani. Io mi protesto, che cancellerie il signor Guglielmo non ne avrà.
Guglielmo. Obbligatissimo alle di lei grazie. (al conte Portici)
Conte. (A poco a poco donna Livia lo fa padrone del di lei cuore e delle di lei ricchezze). (da sè)
Livia. Signor Conte, voi non disponete delle cariche di questo Regno.
Conte. Eh via, signora, se vi preme il bel Veneziano, mantenetelo del vostro, e se volete beneficarlo, sposatelo, che buon pro vi faccia.
Guglielmo. (Questo sarebbe il più bell’impiego del mondo). (da sè)
Livia. Nelle mie operazioni non prendo da voi consiglio.
Aurora. Eh, che il signor Guglielmo non ha bisogno di pane.
Livia. In ogni forma resterete in Palermo, e per far conoscere il vostro spirito, il vostro talento, darete al nostro teatro alcuna delle vostre composizioni.
Conte. Sì, veramente ci farà un bel regalo. Verrà colle sue opere a rovinare anche il nostro teatro. Io parlerò altamente contro di lui; e se a voi, signora, piacciono le di lui opere, fatelo operare in casa. (Non sarà vero che un forestiere mi contrasti il cuore di donna Livia). (da sè, parte)
SCENA XVIII.
Donna Livia, donna Aurora e Guglielmo.
Guglielmo. Mi vogliono cacciar via di legge. 27
Livia. Orsù, a dispetto di tutto il mondo, voi resterete in Palermo. Se vi contentate28, la mia casa è a vostra disposizione.
Aurora. Oh perdonatemi, donna Livia, egli è in casa mia: non abbandonerà mio marito. Signor Guglielmo, andiamo; leviamo l’incomodo a donna Livia. (s’alza)
Guglielmo. Sono a servirla. (Io mi trovo nel più curioso imbarazzo del mondo). (da sè, alzandosi)
Livia. Disponete della mia casa. Ricordatevi che ho della stima di voi; che potete fare la vostra fortuna; e non vi lasciate sedurre.
Aurora. Venite o non venite? (a Guglielmo, in atto di partire)
Guglielmo. Vengo. (Sono imbrogliato davvero), (da sè) All’onore di riverirla. (a donna Livia) (Non so che risolvere... Basta, mi regolerò). (da sè)
Aurora. Serva, donna Livia.
Livia. Servitevi della mia carrozza, se vostro marito non ve ne avesse mandata un’altra.
Aurora. Andiamo, andiamo. (con dispetto a Guglielmo, e parte)
Guglielmo. (Si prende spasso. Questo è il solito; il ricco burla il povero). (parte)
SCENA XIX.
Donna Livia sola.
Il signor Guglielmo è un giovine che merita tutto il bene e tutto l’amore. Sempre più mi piace. Sempre più ho concepito stima di lui. Sì, lo voglio io assistere a dispetto di chi non vuole. Non curo il Marchese, non abbado al conte d’Osimo, rido del conte Portici, e donna Aurora mi fa compassione. Assisterò questo giovine a dispetto di tutto il mondo, poichè da tutto quello che si raccoglie della sua vita sinora, egli è un uomo civile, egli è un Avventuriere onorato. (parte)
Fine dell’Atto Primo.
Note
- ↑ Nell’ed. Paperini precede: Glielo dirò che nessun senta.
- ↑ Pap.: Non voglio.
- ↑ Segue nell’ed. Pap.: Lasciandovi in libertà di dire che siete voi medesima che gliele somministrate.
- ↑ Pap. aggiunge: Vado a spendere.
- ↑ Segue nell’ed. Pap.: «Ber. Vado a spendere, se si contenta. Fil. Sì, vai, e bada bene se di quello scudo può avanzar qualche cosa per domani. Ber. Ci è quel forestiere che mangia per quattro. Fil. Non vedo l’ora ch’egli se ne vada. Ber. Anch’io da vero. Mangia, si fa servire, e non mi dona mai niente, parte».
- ↑ Precede in Pap.: È uno spiantataccio... E bene ecc.
- ↑ Pap.: di poterle ricevere.
- ↑ Pap.: a lei, signora, per qual ragione.
- ↑ Segue nell’ed. Paper.: «Gugl. Il bisogno non mi farà perder di vista la convenienza. E anche troppo il bene che ho ricevuto da questa casa; non permetterò certamente che per causa mia s’abbia da incomodare. Aur. Voi ci trattale da miserabili; dieci doppie non alterano lo stato nostro. Gugl. Signora... io non lo dico per questo... Ma la mi compatisca; io non le posso ricevere. Aut. Ditemi la ragione. Gugl. Non saprei... Che la moglie doni dieci doppie... Che cosa vuol ella che dica il marito? Aur. È mio marito che vi offerisce questo denaro; non sono io. Gugl. Il signore D. Filiberto mi vuol dare codeste doppie? Per qual ragione? Aur. Per atto di confidenza, di buona amicizia, perchè sa che ne avete bisogno. Gugl. Chi gliel’ha detto che io abbia tale bisogno? Aur. In quattro mesi si è avveduto dello stato vostro. Gugl. Ed io in quattro mesi mi sono assicurato che dieci doppie non le può egli considerare come dieci paoli. Aur. Orsù, se le ricusate, mi dichiaro da Voi affrontata. Gugl. Non so che dire... Per non mostrare ecc.».
- ↑ Pap.: Le dirò, signora. Eleonora l’ho amata ecc.
- ↑ Pap.: sapete, nessuno.
- ↑ Pap.: della mia ricca.
- ↑ Pap. continua: «Gugl. Benissimo, signora, che non posso star meglio. Liv. Mi parete di buon umore questa mattina. Gugl. Le dirò. Quando ho danari, sono sempre allegro. Liv. Certamente; i danari rallegrano qualche volta. Gugl. Grand'obbligazioni ho qui alla signora Donna Aurora. Da vero: oltre l'onorarmi a tavola... Aur. Oh via, non dite altro. Gugl. Ella mi perdoni. Io son fatto così. Quando ricevo un benefizio, ho piacere che tutto il mondo lo sappia. Sì signora, la signora Donna Aurora mi ha donato... a Donna Livia. Aur. Non dite altro, vi dico. (Amica, io non posso soffrire sentirmi attribuire un merito che avete voi), piano a Donna Livia. Liv. (Ed io di questa cosa ne godo infinitamente), piano a Donna Aurora. E bene, signor Guglielmo, che cosa vi ha regalato la signora Donna Aurora? Aur. Zitto, a Guglielmo. Gugl. Dieci doppie, a Donna Livia. Frattanto che parlano, i servitori portano la cioccolata, la bevono tutti e tre, e dopo i servitori partono. Aur. (Oh diamine!) da sè. Liv. Dieci doppie e non più? Gugl. Le paiono poche? A me mi sembrano molte. Una doppia da quattro e tre doppie da due, nello stato in cui sono, mi paiono un tesoretto. Liv. Dieci doppie sole? perchè non dargliene venti? a Donna Aurora. Gugl. Oh, sarebbero state troppe. Aur. Vi dirò, gliene avrei date ecc.».
- ↑ Pap.: perciò dieci gliene ho date ora, e dieci gliene darò un’altra volta.
- ↑ Paper, ha invece: (Dove, Domine, ritrova cotante doppie!)
- ↑ Segue nell’ed. Pap.: «Gugl. Sì Signora, ci starei volentieri. Aur. La mia casa sarà sempre a vostra disposizione. Liv. (E non ha da mangiar per lei), da sè. Sarebbe bene, se voleste rimanere in Palermo, che aveste un impiego. Gugl. Certamente ci starei allora più volentieri. Aur. Dite, amica ecc.».
- ↑ Pap.: professione che non è trattata dalle persone nobili, quando e mercenaria, ma che non ecc.
- ↑ Pap.: Sentite? Il signor ecc.
- ↑ Pap.: aggiunge: già me lo aveva detto.
- ↑ Pap. aggiunge: Sì, sì, me l’hanno detto che ha fatto il medico.
- ↑ Pap. aggiunge: signor somaraccio.
- ↑ Segue nell’ed. Pap.: «Aur. Eh, io lo sapeva che aveva fatto anche il segretario. Liv. S’io fossi ecc.»
- ↑ L’ed. Zatta attribuisce a Guglielmo queste parole: Perchè ho voluto ecc.
- ↑ Segue nell’ed. Paper.: «Aur. Chi ha roba, ha litigi. Mio marito n’è pieno. Vi darà un tanto l’anno. Liv. (Povera pezzente!) da sè».
- ↑ Pap. aggiunge: È vero, è vero; lo so.
- ↑ Pap.: che avete fatti!
- ↑ Segue nell’ed. Pap.: «Aur. Eh, non abbiate paura, mio marito vi difenderà. Liv. Orsù ecc.
- ↑ Pap.: degnate.