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208 ATTO PRIMO

SCENA VIII.

Guglielmo solo.

Io non la capisco. Don Filiberto è un povero signore, di buon cuore sì, ma di poche fortune; e sua moglie, dieci doppie non sono niente: se vi occorre, parlate, disponete. O donna Aurora ha delle rendite che non si sanno, o vuol mandar in rovina il povero suo marito. Io però non l’ho da permettere. Non ho cuore da tirar innanzi così; ogni giorno, quando mi metto a tavola, mi vengono i rossori sul viso. Un uomo civile, nato bene e bene allevato, non può soffrire di vedersi lungamente dar da mangiare a ufo, e spezialmente da uno, che fa per impegno più di quello che le di lui forze permettono ch’egli faccia. Sarei partito anche prima d’adesso, ma donna Aurora bada a dire ch’io resti. Se fossi, per esempio, in casa di quella vedova ricca, non avrei tanti scrupoli a mangiarle un poco le costole; in questo mondo siamo tutti soggetti a disgrazie; e non è vergogna raccomandarsi, quando uno si trova in necessità. Qualche volta anch’io sono stato bene; ora son miserabile; ma la non ha da ire sempre così. Ho passato tante burrasche, passerà anche questa. Vo’ stare allegro, vo’ divertirmi, non voglio pensare a guai. Anzi voglio rider di tutto, e fissar in me questa massima, che l’uomo di spirito deve essere superiore a tutti i colpi della fortuna. (parte)

SCENA IX.

Camera in casa di donna Livia.

Donna Livia, poi il di lei Paggio.

Livia. Ecco, quattro partiti di matrimonio mi si offeriscono, ma niuno di questi mi dà nel genio, credendoli tutti appassionati, non già per me, ma per l’acquisto della mia1 dote. O goder

  1. Pap.: della mia ricca.