L'olmo e l'edera/XIII
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XIII.
L’amore è una triste cosa, e sto per dire una delle più gravi malattie dei tempi odierni. Non già che fosse sconosciuto agli antichi, chè sarebbe dir troppo; ma ogni lettore assennato vorrà ammettere che quella passione, rozza forma dell’istinto, passò per molte e molte filiere lungo il corso dei secoli, innanzi di affinarsi a quel modo che oggi si nota, e di aguzzarsi tanto, da penetrar nelle carni a guisa di pugnale.
Le svariate e progressive forme della educazione umana hanno temperato, mutato ogni cosa, e l’amore anzi tutto. L’uomo primitivo, colui che s’innoltrava nella boscaglia armato di una accetta di selce, non sentì altro nel cuore che la voce confusa dello istinto brutale. La donna non gli fu data da santità di connubio, ma dal furto, dalla rapina, e il giorno delle nozze non fu celebrato da geniali conviti, nè da canto di bardi. Chiusa nella spelonca, ella amò il suo rapitore, perchè era forte, perchè combatteva le fiere e portava a lei le spoglie sanguinose; perchè le ornava il collo coi denti del mostro ucciso, o con le pagliuzze del rilucente metallo, raccolte nel letto dei fiumi. Essa lo temeva e lo desiderava ad un tempo; non lo rispettava, non lo amava ancora. Ed egli, poi, non riconosceva che il diritto della forza; quando si sentiva offeso, combatteva; quando la donna gli andava a versi, combatteva ancora. La vita era la guerra; la soddisfazione dell’istinto era il trionfo.
Più tardi, fu gran segno di civiltà la donna chiusa in uno scompartimento della tenda. La famiglia creò le consuetudini; le consuetudini assunsero forma ed autorità di legge. Allora la donna non si rubò più; si ebbe dai parenti, in pegno d’alleanza, o in mercede di prestati servigi, sempre come una cosa, e senza dolersi molto, o rompere il patto, se ella aveva gli occhi cisposi. Si pigliava la donna come moglie, o come serva, ma non la si amava ancora; ella per contro incominciava ad amare colui che la rendeva feconda. Per lei, talfiata, se bella, si facevano guerre; il nemico calava sulla tribù come un avvoltoio sulla preda; uccideva il padrone, e ne ereditava la donna, timida creatura, senza volontà per resistere, senza odio per respingere l’amplesso di mani insanguinate.
Il greco ed il romano, tutti intesi alla vita pubblica, non hanno tempo per gli affetti soavi. La donna che amano e cantano, non è mai la moglie, ma una facile bellezza, straniera alla famiglia, Lalage, Lesbia, Cinzia, e tutte l’altre regine dell’ode e della elegia, sono donne intorno alle quali si perde la umana dignità, donne che fanno piangere in distici Catullo, Tibullo e Properzio, ma non uccidono nessuno. L’amore è un arciero bendato, che scaglia le sue frecciate perfino a Giove, suo avolo; ma nessuno muore per le conseguenze della ferita. Paragonate cotesto con Werther e Jacopo Ortis.
Antichi esempi di forti amori ve n’ha, ma feroci, teatrali, cantabili, come la forma tragica od epica per cui gli hanno fatti passare i signori poeti. L’amore da pari a pari, che si filtra in tutte le costumanze, in tutte le bisogne della vita, è scaturito dal medio evo, da questo gran crogiuolo di cose nuove, da questo ricostruttore del mondo. La donna nelle più umili sfere sociali è già la compagna dell’uomo; nelle più alte è, più che compagna, regina; tende a superarlo, e ne verrà a capo, imperocchè essa ha più virtù, più affetto, più sottile intelligenza di lui. Egli è ancora per molti rispetti lo schiavo della materia; essa è già la forma eterna, il weibliches Wesen del dottor Fausto, la diva degli antichi. Anchise che fu innalzato al talamo di Venere, Peleo che ottenne in maritaggio da Giove la più bella delle sue oceanine nipoti, non sono più a’ tempi nostri invenzioni mitologiche. Il mondo appare a prima giunta più materiale, ed è in quella vece dieci cotanti più poetico di prima. Si soffre per l’amore, perchè l’amore si è immedesimato nella vita. È egli vero che noi diventiamo più deboli, più infermicci, diventando più civili? Le armature degli avi ci opprimono col loro peso, nè più verremmo a capo di tendere l’arco di Ulisse. Per contro, un dardo che a’ tempi andati vellicava la cute, oggi ci entra nelle carni e ne uccide. L’amore è una malattia. Chi lo avrebbe mai detto ad Ippocrate?
Guido Laurenti era infermo da senno. Come fu uscito dalla casa Argellani e si ridusse nella sua camera, pianse a guisa d’un bambino, ma le lagrime non valsero a sollevarlo. Il suo caso era grave. Se la signora Luisa fosse stata una donna leggiera, la quale avesse stuzzicato l’amor suo per farsene giuoco di poi, egli avrebbe potuto odiarla tre mesi e disprezzarla per tutto il rimanente della sua vita. Questi odii e questi dispregi, anco sragionati (poichè non sempre si ha ragione intiera contro la donna che ci offende) aiutano a vivere, e danno, se mi è consentita la frase, il tono, il chiaroscuro alla vita. Ma come odiare la donna gentile, che era innocente d’ogni artifizio, d’ogni lusinga più lieve con lui? E come sperare di farsi amare da lei, da quella donna diventata necessaria alla sua esistenza, se nel cuore di quella donna era scolpita l’immagine di un altro? Pari alla vezzosa Minoide, abbandonata dormente sul lido di Nasso, egli non vedeva scampo, nè uscita, nè speranza, nè tregua.
Uscì finalmente di casa, dopo avere stancata la mente in ogni più disperato proposito. Aveva giurato di non andar più da quella donna; ma come fare? Non era egli il suo medico? E doveva lasciarla morire, perchè essa non lo amava e non lo avrebbe amato giammai? Era dicevole, onesto, generoso, il fuggire da lei?
Questa interna battaglia durò molti giorni. Il povero giovine voleva e disvoleva; malediceva e pregava; rimpiangeva le gioie della materia e la vita sollazzevole che avrebbe potuto fare, ad annegarvi dentro quella delicatezza di sentire che è sempre ragione di tanti patimenti; cercava gli amici e li sfuggiva; andava a consolare l’inferma, poi correva a teatro, dove qualche volta vedeva il Percy, e si struggeva a guardarlo. Se avesse potuto sfogarsi contro di lui! Ma la vendetta gli avrebbe forse divelto l’amore dal seno?
Intanto la donna gentile era sospesa tra la vita e la morte. La scienza di Guido la teneva in vita, senza salvarla, senza allontanarla d’un passo dall’orlo pauroso del nulla.
Fu questo dolente spettacolo quotidiano che rafforzò nell’anima tribolata di Laurenti il più generoso consiglio: rimanere al suo posto, contenderla con ogni sua possa alla morte, o morire con lei. Questa specie di patto, di compromesso tra il suo dolore e il dovere, valse a calmarlo, e, mostrandogli la morte come una uscita aperta nel fondo, a farlo rimanere, tranquillo in apparenza e sereno, presso la povera donna.
La malattia della signora Argellani, fatta più grave dalla ricaduta, non era di quelle che inchiodano la loro vittima sul letto. V’erano giorni ch’ella stava alzata e scendeva anche in giardino; ma lo sfinimento era manifesto, e riusciva più doloroso a vedersi, in quanto che si scorgeva la bellissima donna attendere tranquillamente a tutte le consuetudini della vita.
Un giorno, con dolce violenza, egli l’aveva condotta a diporto in capo alla prateria, vicino alla conserva delle piante esotiche. Là seduta, ella stava guardando in aria, senza fare parola.
— A che pensate, signora? — le chiese Guido, mettendo per la prima volta nel suo discorso la forma amichevole del voi.
— Penso al sole che muore; — rispose Luisa. — Vedete che dolce morire, senza improvvisi contrasti di luce e di tenebre! I raggi si vanno allontanando man mano dalla terra; poi le nuvole, anch’esse, di rosee si fanno pallide; giunge il crepuscolo.... e tra poco la notte, inavvertita quasi, apportatrice di calma.
Laurenti si nascose il viso tra le mani, per celare le lagrime che gli rompevano improvvise dagli occhi; ma il singhiozzo, che non potè nascondere del pari, fece volgere dal suo lato la signora.
— Perchè piangete, amico mio?
— Oh, voi mi fate un gran male con simiglianti discorsi! — proruppe egli a dire. — Ho la disgrazia di esser giovine, e di non saper conservare la serenità dell’animo, dinanzi alle malattie come la vostra, nelle quali la prima cagione è la volontà, e che assumono, già ve l’ho detto una volta, il carattere del suicidio. Morire! morire, perchè un uomo non vi ama!....
— No, signor Laurenti; mi conoscete assai poco. Io morirò perchè la vita non mi par bella, nè desiderabile punto. Anche gli uomini possono aver contribuito a farmela parer tale, ma non è per essi che io muoio.
— Sofisma! — esclamò il giovine, — Voi, intanto, infastidita del presente, rimpiangete il passato.
— Se ciò fosse vero, ve lo direi schiettamente; — rispose la donna gentile. — Credetemi, amico; e che io possa perdere la stima di un uomo generoso come voi siete, se io non penso ora, e fermamente, che, posta innanzi a me la scelta tra la più misera esistenza e il ritorno delle prime illusioni, non istarei in forse un solo momento ad eleggere quella. Ma, noi, povere donne, siamo pur troppo come quell’edera lassù, che dal vostro muraglione è andata ad allacciarsi al tronco dell’olmo. Non l’avete mai osservata, voi?
Guido sospirò, e non rispose.
— Or bene, io l’ho guardata spesso, e sempre con tenerezza ineffabile. Essa è il nostro simbolo, sebbene l’abbiamo così mal battezzata nel dizionario dei fiori; essa è il simbolo del cuore, di cui le sue foglie hanno quasi la forma, di cui le sue costumanze riproducono la vita. «Où je m’attache, je meurs» bella impresa che fa trovata, io credo, da una povera figlia d’Eva, la quale guardò una pianta di edera prima di me, e vi riconobbe l’immagine sua!
— L’uomo, dunque...... sempre l’uomo! — esclamò, con accento di amarezza Laurenti.
— Sì, l’uomo, se così volete, — soggiunse la signora Argellani, — ma non già un certo uomo. Strappate quell’edera dall’albero, al quale s’è abbarbicata, ed ella muore. Ma muore ella forse perchè non può più avvinghiarsi a quell’albero, e pendere in graziosi festoni dai rami? No, signor Laurenti; essa muore perchè è stata divelta, schiantata ed infranta. Noi siamo come l’edera; divelte dal nostro luogo di elezione moriamo; ma non istate a credere che rimpiangiamo l’affetto degli uomini dappoco, e che moriamo perchè esso ci manca; dite piuttosto che siamo le vittime dei nostri errori, e paghiamo largamente colla vita un fallato giudizio. Io dunque non rimpiango nulla, se non forse di aver fatto perdere il tempo al mio ottimo medico.
Guido la ringraziò con un cenno del capo, ma non rispose motto. Egli pensava a mille cose in un tempo, e, tra i concetti che gli giravano confusi nella fantasia, gli pareva che dovesse esserci il buono. Però stava cercando, e non rispondeva nulla a quel disperato ragionamento. Ma come gli parve di aver trovato, si alzò in piedi e le disse:
— Mi avete promesso di venire domani a fare una gita in carrozza.
— Sì, e non disdico la mia parola. Sarà la mia ultima uscita. A che ora verrete?
— Alle undici, se non vi dispiace.
— No, certo; e dove andremo?
— Perchè questa curiosità? Quando io vi ordino qualche pozione, domandate voi come si chiama?
— Avete ragione, e poichè non c’è nulla che m’abbia a risanare, mi farò presso di voi un merito di non chiedervi nulla.
Laurenti stette muto per la terza volta; ma per la prima volta, accompagnandola in casa, le offerse il suo braccio. Ella del resto era molto stanca, e ne aveva bisogno per reggersi in piedi.