L'olmo e l'edera/I
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L’OLMO E L’EDERA
I.
Racconto una storia vera, giusta il mio costume, che dovrebb’essere di tutti coloro i quali non sono molto esercitati nell’arte del novelliere. Facile è lo inventare, e ci si mette quanto a dir male del prossimo; difficilissimo, poi, dare alle sue invenzioni la evidenza del vero, lumeggiarle con quei tocchi di pennello che le fanno balzar quasi dalla tela. I fatti, per tal guisa affastellati, si tengono ritti per miracolo; i caratteri, dipinti di maniera, non istanno nè in riga nè in spazio; gli è insomma un guazzabuglio, il quale non mette nulla in rilievo, nulla, se non forse la tracotanza dell’autore.
Io, digiuno di studi, e non rallegrato che da una scarsa vena di fantasia, ho pigliato da un amico il savio consiglio di non dipingere mai, se non quello che ho veduto; di non scrivere se non quello che m’è rimasto impresso nella memoria, de’ casi miei, o degli altrui. E qui mi soccorre eziandio l’autorità di un grande scrittore, il quale ebbe a dire come inventare non fosse poi altro che ricordarsi. Ma egli dovette pure ricordarsi di grandi cose, poichè ne inventò di così svariate e mirabili; laddove io, uomo di corta memoria, non vi dirò che una storia semplicissima, che mi parrà molto se starete a leggerla, senza badare a chi scrisse.
Siamo dunque intesi; varietà poca, o nissuna; ma verità da capo a fondo. E cotesto non dico per accattar fede al racconto, il quale, del resto, è fatto col debito riserbo, con nomi mutati e prudenti contraffazioni; sibbene (e vo’ dirlo candidamente) per farmi benevola quella parte di gentili lettori, i quali pigliano maggior gusto alla narrazione di cose che sanno essere un giorno accadute.
Ora, narrando a memoria, debbo lasciare in bianco l’anno e il mese da cui la mia storia incomincia. Ma se il lettore genovese ricorda in che stagione si rappresentasse sulle scene del teatro Carlo Felice, e per la prima volta, il Ballo in Maschera del maestro Verdi, egli può scrivervi di suo pugno la data.
Era per l’appunto in quell’anno e in quella stagione; sulle scene del teatro Carlo Felice si rappresentava, non so se per la decima o per l’undicesima sera il Ballo in Maschera, e non c’era più in platea quella frequenza di spettatori che è (salvo il diverso giudizio degli impresari) il malanno delle prime rappresentazioni.
Scemata la calca, il teatro diventa, per così dire, una famiglia; rimangono i consueti frequentatori, che si conoscono tutti tra loro; si gira liberamente da un capo all’altro dell’emiciclo, dando un saluto a diritta, una stretta di mano a sinistra, appuntando il canocchiale sulla mostra di avorii molli che fa la marchesa Collalto, sui diamanti della signora Vallechiara, sugli occhi della signorina Morati che brillano assai più dei diamanti e, a parer mio, valgono anche di più; si naviga insomma con placido remeggio in un lago di cui si vedono d’ogni parte le sponde, di cui si conosce ogni promontorio, ogni golfo, e sto per dire ogni seno.
Quella sera, adunque, nel secondo intermezzo dello spettacolo, ero andato a piantarmi comodamente, e senza paura di gomitate, contro la parete circolare della platea, e là, fantasticando non so che cosa, volgevo sbadatamente le lenti del binoccolo su questo e su quello dei palchetti di seconda fila. Ma siccome non c’è viaggio che non abbia la sua stazione, anche il mio binoccolo fece sosta, e lunga sosta, al palchetto della marchesa Bianca di Roccanera, quella meravigliosa bruna, che parecchi de’ miei lettori rammentano di certo, dalla persona snella, dal portamento di ninfa, celebrata pel ricco volume dei neri capegli, attorcigliati con leggiadra negligenza là dove il conte Ugolino amava mettere i denti all’arcivescovo Ruggieri, e ricadenti sul collo in due larghe ciocche crespate, che le davano un’aria (ma intendiamoci bene, un’aria!) di malinconia incantevole.
La marchesa Bianca ci aveva un’altra aria eziandio, che non s’ha a dimenticare in un ritratto come questo. Sebbene ella avesse già varcato i venticinque, e i suoi occhi, quando a caso si posavano su qualcheduno, avessero virtù di trapassargli il cuore e lasciar nella ferita l’impressione gelida dello strumento omicida, la ci avea pure un non so che di vergineo, anzi d’infantile a dirittura, che traspariva da tutti i suoi modi, e guai a chi ci si fosse lasciato cogliere; imperocchè quel candore, se non era artificiale, era pur tuttavia il più pericoloso di tutti gli artifizi, come quello che era in lei un retaggio della natura, una forma, un’apparenza, una lusinga di più, della quale essa era come inconsapevole, ma che, anco inconsciamente, le serviva per tirarle ai piedi quegl’incauti, che poi dovevano morire assiderati sulla soglia del santuario, sempre chiuso com’era.
Io ho parlato colla marchesa Bianca due volte appena, in tutto quel tempo ch’ella stette a Genova, ma tuttedue le volte in carnevale, colla maschera sul volto. L’incantesimo di quella sua meravigliosa bellezza o di quel candore vergineo fu tale, che la paura soverchiò la fidanza, e cansai sempre le occasioni di esserle presentato. Dell’anima mia nel mondo di là non so che debba accadere; ma se l’inferno c’è, non voglio cominciare a provarlo nel mondo di qui; però, dopo averne saggiato una volta, temporibus illis, fuggo le pene dello spirito come il diascolo l’acqua santa. Egli c’è a questo proposito un adagio, triviale se volete, ma calzante: «il cane non torna dove fu bastonato.»
La marchesa Bianca sembrava non saper nulla della sua tentatrice bellezza, o, se ella lo sapeva, le doveva parere la cosa più naturale del mondo; donde avveniva che non ne facesse pompa. Ma ogni suo gesto, ogni volger di ciglio, facevano scorgere quella bellezza sotto un aspetto nuovo e sempre migliore del primo. E cotesto, siccome ho detto, senz’ombra d’artifizio. Sia che la si facesse guardare di profilo o di fronte, sia che arrovesciasse il capo e mostrasse una fila di denti candidissimi e piccini, sia che pensierosa aggrondasse le lunghe ciglia sugli occhi semichiusi, ella era sempre la più bella, la più desiderata tra le donne. Arguta e colta com’era, neppure si avvedeva di dire cose leggiadre, e mostrava di accorgersi sempre di quelle che si dicevano a lei, o dintorno a lei. Segnatamente per le sue sorelle in Eva, ella era cosiffattamente buona, da parere, non che magnanima, spensierata. Figuratevi che la dicea schietto alle sue amiche qual veste o quale acconciatura di capo ella avesse divisato mettere per la festa da ballo della Prefettura, o per altra delle pochissime a cui si aprivano le sale de’ suoi pari. E quelle subito ad imitarla; ma, quantunque facessero, la sarta non conferiva loro quel garbo della persona, quella grazia che spesso è ascosa in una piega da nulla, come gli amorini nello zendado di Venere.
Tutto insomma era natura in costei. Nata bella in una culla d’oro, cresciuta in mezzo a tutti gli agi di un lusso intelligente, tra i profumi della nativa eleganza, io credo che ella succhiasse l’arte col latte. Credo eziandio che facesse versi, ma sarei pronto del pari a scommettere che non avesse imparate mai le regole della prosodia. Ella era, giusta la frase culminante della adorazione mascolina, un angelo sceso in terra, ma un angelo femmina, s’intende, a cui fossero state recise le ali per tornarsene in cielo. La qual cosa, quanto sia vera per gli angeli, dicano i teologi. Per la marchesa Bianca, io reputo che un po’ meno di bellezza e un po’ più di cuore, non avrebbero guastato, anzi avrebbero reso più ragionevole il paragone.
Ho fatto un lungo discorso della marchesa di Roccanera, in primo luogo perchè le cose rare vogliono una più grande attenzione, e poi perchè la era l’unica donna che io guardassi molto, a que’ tempi. Non l’amavo, e, come ho già detto, fuggivo le occasioni di accostarmi a lei; ma, poichè era bellissima, mi pareva che, veduta ad una ragionevole distanza, colorisse alla mia mente il tipo della donna; e in lei guardavo un tipo, non altro; consolavo un affetto d’artista, soddisfacevo ad una curiosità di studioso. Così, allorquando m’ero ristucco colle noie della vita giornaliera, me ne andavo a teatro, dove sapevo di trovar la marchesa, al davanzale del suo palchetto, nel suo solito posto, colle spalle rivolte alla scena; andavo a piantarmi ben lontano da lei, all’altro fuoco dell’elisse; e laggiù, confuso nella moltitudine, mettevo mano allo strumento di Galileo e investigavo il mio tipo, facendovi su ogni sorta di dotte considerazioni. Ero come l’astronomo che guarda una stella lontana nello spazio, ne misura il volume o la densità, ne arguisce la temperatura e tutte l’altre proprietà fisiche.
Da cotesto argomentate che cosa io facessi per l’appunto in quella sera donde piglia cominciamento la mia narrazione. Senza desiderio di lei, senza invidia del marito, senza fastidio de’ cavalieri serventi, che facevano la dozzina come i segni dello Zodiaco, m’ero posto a contemplare la bellissima donna. Ella in quel momento, col gomito fermo, alzava ed abbassava in cadenza la mano, percuotendo leggermente il velluto del davanzale con un occhialino di madreperla, raccomandato all’anulare da una sottil catenella d’oro. Guardavo quella manina sottile che scherzava col suo gingillo meno prezioso di lei, e quel braccio che usciva, stupendamente tornito e stupendamente bianco, da un’onda di pizzo nero. Dal pizzo i miei occhi salivano all’omero ignudo (faticosa salita dove si sarebbe voluto far sosta ad ogni tratto, come su per gli scaglioni della piramide di Chèope), e dall’omero, considerata l’impervia dirittezza del collo, spiccavano un salto sul viso. La marchesa Bianca rideva; rideva pazzescamente, ascoltando certi complimenti che, col viso curvato a poca distanza dal suo, le andava sciorinando Eugenio Percy, seme forastiero trapiantato in terra nostra, uno dei più ricchi, dei più eleganti e dei più colti cavalieri di Genova.
Mentre io stava fantasticando di questa guisa, una mano posata sulla mia spalla e il suono di una voce nota, mi vennero a rompere il filo delle considerazioni. Erano la mano e la voce di Guido Laurenti.
— Sempre fermo al tuo posto di combattimento! — mi disse egli sorridendo.
— Sì, al mio posto, ma non già di combattimento, come tu dici. Io sono neutrale, come l’Inghilterra; e tu?
— Io! qui certamente più dell’Inghilterra e di te.
— Che vorresti tu dire, Laurenti? O perchè saresti più neutrale di me?
— Non guardi tu la Roccanera? — mi chiese egli. — Non è ella, per tua stessa confessione, la donna che tu guardi più volentieri da un pezzo?
— Sì, la guardo, e che perciò? È uno studio innocente il mio, e null’altro. Quella donna mi piace, come a te, naturalista famoso, un coleòptero dalle ali più vagamente screziate, o una bella conchiglia dell’epoca terziaria, e ne faccio argomento di studio. Poi, dove giungo io? Pianto forse una spilla nella tenera corazza del coleòptero, o porto la conchiglia nella mia stanzuccia? Tu lo vedi; mi contento di guardarla da lunge; piglio da lei quello che non mi potrebbe negare, che non desta la gelosia di nessuno, e che non mi costa la menoma fatica ad ottenere.
— Lassù, — rispose Laurenti — ce n’è un altro il quale vorrebbe qualcosa di più.
— Si serva, se così piace a lui e alla dama.
Laurenti stette un tratto senza rispondere, ma guardando sempre col suo binoccolo verso il palchetto della Roccanera; poi, seguendo il filo di un interno ragionamento, esclamò a bassa voce:
— Povera Luisa!
— Tu hai toccato il tasto; — soggiunsi. — Ma che vuoi, Laurenti? questi signori uomini sono tutti d’una pasta, o, per dir meglio, d’una mota. Le donne per fermo hanno ad essere migliori di noi; e non già perchè abbiano un altro sangue nelle vene, ma perchè più gelosamente educate. Del resto, la signora Luisa si consolerà anche lei, come tante altre.
— T’inganni, ideologo, e consenti che il naturalista t’insegni qualcosa. Ella è su d’un letto, sfinita, abbandonata alle cure prezzolate de’ suoi servi, e senza un amico che la conforti, al capezzale. Intanto il signor Percy, la cagione di tutti i suoi mali, è qui, a fare il cascamorto presso quest’altra. Che te ne pare?
— Ah! se la è così, mi duole della Roccanera, che non capisce queste cose.
— Ella? O che vuoi che le ne importi? Tu che studi quel corpo celeste (e non si può negare che lo sia) hai forse trovato che abbia una densità centrale da potersi mettere in conto? In quel corpicino snello, il cuore non c’è che come un centro ai canali del sangue, ma non pretendere che faccia altro. Quelle, amico mio, sono donne incaricate da Dio dell’alta e bassa giustizia in materia di amore. Fanno pagare a certi uomini, in sospiri, angoscie d’ogni maniera, e talfiata anco in colpi di pistola alle tempie, i dolori, le angoscie, che essi hanno cagionato a lor volta. Laonde io penso che siano necessarie nella economia sociale, come tanti altri malanni, imperocchè, senza di loro, non ci sarebbe più giustizia in questo mondo per le donne tradite.
— Sono sconfitto, Laurenti; dò un calcio alla ideologia e mi metto a studiare di scienze naturali. Del resto, io non ho mai pensato che madonna fosse diversa da quella che tu la dipingi, e per giungere a cotesto non ho avuto mestieri di studiarla. In quanto a lui, fa la sua strada. Dieci anni di amore, dei quali bisogna contarne quattro di catena, gli hanno fatto sentire il bisogno di scuotere il giogo. Egli ha fatto come una delle tue crisalidi, dopo una troppo lunga dimora nel bozzolo.
— Egli è un tristo! — interruppe Laurenti.
— Un tristo? e perchè? qui posso darti lezione io, Laurenti. Questa che tu biasimi, è la natura dell’uomo, come della crisalide.
— Lo credi? Sarà: ma, dato il caso, a me pare di non essere di questa specie di animali.
La conversazione tirava al serio; Laurenti s’era fatto buio come un’imposta chiusa. Stava per cominciare il terz’atto dell’opera, e l’amico mi porse la mano, a mo’ di commiato.
— Te ne vai?
— Sì, me ne vado.
— Aspettami, vengo anch’io.
— O che? — mi disse egli, accompagnando la frase con un sorriso ironico. — Non rimani a studiare la densità della tua stella?
— Ti pare? La m’è venuta in uggia maledettamente.
— Ma se lo dicevo io! — esclamò Laurenti. — E ci voleva tanto a persuadersene?
Ciò detto, Laurenti ficcò il suo braccio sotto il mio, e ambedue ce ne andammo a passeggiare all’Acquasola, facendo un dialogo scucito e malinconico, in continuazione di quello che ho riferito ai lettori.