cessi per l’appunto in quella
sera donde piglia cominciamento la mia narrazione. Senza desiderio di
lei, senza invidia del marito, senza fastidio de’ cavalieri serventi,
che facevano la dozzina come i segni dello Zodiaco, m’ero posto a
contemplare la bellissima donna. Ella in quel momento, col gomito
fermo, alzava ed abbassava in cadenza la mano, percuotendo leggermente
il velluto del davanzale con un occhialino di madreperla, raccomandato
all’anulare da una sottil catenella d’oro. Guardavo quella manina
sottile che scherzava col suo gingillo meno prezioso di lei, e quel
braccio che usciva, stupendamente tornito e stupendamente bianco, da
un’onda di pizzo nero. Dal pizzo i miei occhi salivano all’omero
ignudo (faticosa salita dove si sarebbe voluto far sosta ad ogni
tratto, come su per gli scaglioni della piramide di Chèope), e
dall’omero, considerata l’impervia dirittezza del collo, spiccavano un
salto sul viso. La marchesa Bianca rideva; rideva pazzescamente,
ascoltando certi complimenti che, col viso curvato a poca distanza dal
suo, le andava sciorinando Eugenio Percy, seme forastiero trapiantato
in terra nostra, uno dei più ricchi, dei più eleganti e dei più colti
cavalieri di Genova.