L'imperatore Diocleziano e la legge economica del mercato
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L'IMPERATORE DIOCLEZIANO
E
LA LEGGE ECONOMICA DEL MERCATO
UNA LEZIONE DI PIÙ
MEMORIA
DEL PROF. ANGELO MESSEDAGLIA.
LETTA ALL'ATENEO VENETO NELL'ADUNANZA DEL 1.° MARZO 1866.
Diocleziano fu in riputazione di grande amministratore. Egli diede all’Impero Romano, da lui diviso in quattro parti, un assetto amministrativo che somiglia per le forme alle monarchie le più fortemente accentrate dei giorni nostri. Introdusse l’adorazione della Maestà, la camuffò all’orientale; e dopo aver celebrato l’ultimo dei trionfi romani in Campidoglio, scese dal trono, e commise impassibilmente lo Stato all’ultimo stadio della sua decadenza.
Un giorno che, repulsi i barbari su tutto il confine, e assodate le relazioni esteriori, l’Augusto, co’ suoi socj d’impero, potea volger l’animo tutto intero alla interna felicità dei suoi popoli, la sua attenzione fu chiamata a sè da un disordine che affliggeva tutte le provincie, e sembrava roderne fin nel midollo la vitale economia.
Mentre l’azienda pubblica parea docilmente comporsi a suon di legge, i prezzi delle cose correvano più che mai sregolati ed indocili, senza una moderazione che fosse lor posta, e il mercato era alla discrezione non soltanto delle stagioni (che passi ancora!), ma della cupidigia altresì, cupidigia insaziabile e senza misericordia di mercatanti ed incettatori. Nulla faceavi l’affluenza di alcune annate, o quella abituale di qualche fortunata provincia; a quando a quando, a certi ritorni sopratutto, l’ingordigia e la cupidità riescivano a tenere così potentemente la balìa dei prezzi, che questi non aveano più modo e misura, e il popolo n’era affamato, e l’imperiale erario esausto fino all’ultimo danaro.
Un’occasione andava singolarmente segnalata da così fatto malanno. Quest’era il momento in cui numerosi eserciti doveansi trasferire dall’una all’altra parte dell’Impero, a preservarne il confine. Un nugolo d’incettatori traeva allora sulle loro orme, la carestia veniva ad essi seguace, i prezzi salivano di quattro ed otto volte tanto (ce lo attesta Diocleziano medesimo); nè a tanto teneasi ancor sazia la libidine de’ guadagni in que’ depredatori (depraedatores), e il soldato esinanito vi perdeva il salario ed il donativo.
Ben si comprende che la sorte del soldato dovesse occupare la mente e le cure dell’Imperatore ancor più di quella de’ rimanenti suoi sudditi. Ed è pur cosa ch’egli ci volle testificata di propria sua bocca.
Tal era il fatto.
E le cause? — Le cause prime e profonde, altre da quelle immediate dell’ingordigia e perversita de’ mercatanti, come voleasi dire; le cause che traevano i prezzi al rialzo e permettevano a codesta ingordigia medesima di esercitarsi in sì larga e rovinosa misura, di signoreggiare con aspro, irrefrenato arbitrio il mercato; le cause insomma economiche generali di quell’ordine di vicissitudini. — Ne ha indicate alcune Lattanzio, che fu di que’ tempi, e ve ne ha di più recondite ed adeguate di quelle da lui avvisate.
Lattanzio reca senz’altro la colpa della carestia a Diocleziano stesso. — La partizione dell’Impero in quattro, e lo smodato incremento di forze militari che ne conseguì; la moltiplicazione degli uffizj e uffiziali pubblici; la vanitosa libidine dell’edificare; una novella e assai rigida censuazione; infine la cupidità non mai satolla di Diocleziano: — tali sarebbero state le cagioni, alle quali era da ascriversi quella condizione di cose che sì profondamente affliggeva l’Impero.
Lattanzio però, com’altri ebbe a notare, non era probabilmente imparziale ne’ suoi giudizj su Diocleziano, egli volea mettere per intero sulla coscienza di costui ciò che in realtà avea ben altre e più profonde radici. E ben altre n’erano le primarie cagioni: — l’agricoltura stremata, le arti avvilite, i commerci svigoriti, la produzione tutta quanta mal sicura, e perciò sregolata, saltuaria, insufficiente; — effetti anche questi alla lor volta di altre cagioni ancor più lontane e profonde: — la servitù, il despotismo, l’abbiezione politica, le guerre incessanti e devastatrici, sì intestine che alla frontiera, la pessima amministrazione precorsa, le frequenti adulterazioni della moneta (che anzi Diocleziano emendò); — e al fondo di tutto, causa suprema, e primum mobile efficiente, lo sfinimento e la cancrena morale d’una società che volgeva rapidamente all’occaso.
L’agricoltura in ispecie, priva d’opera e di capitale, deperiva. e disertavasi ognor più; alle braccia libere, ora mancate, degli antichi coltivatori, venivansi indarno surrogando altre, stanziatevi di forza, di barbari coloni, misero ristoro e presto alla sua volta sciupato.
Intere provincie versavano in profonda abituale miseria, e spopolavansi di più in più. Al varcare di una di quelle vaste agglomerazioni di genti che formavano un esercito del grande Impero, in mossa pel Danubio o per l’Eufrate, le poche scorte locali erano prontamente consunte, e la carestia facevasi in larga cerchia all’ingiro.
Tali erano le cause prime e proporzionate del fatto; l’avarizia, la cupidità, le usufruttavano; ma esse non le aveano originariamente create.
È pur possibile che ragione immediata del rincaro, in quella misura che questo appalesavasi generale ed uniforme, fosse una sproporzione intervenuta, per le cause prime anzidette, fra le cose venali dall’una parte, e la moneta, ossia la massa dei metalli circolanti, dall’altra; di guisa che quelle si fossero rese relativamente più rare, e per ciò più care: — come appunto avrebbe inteso interpretare il fenomeno, forse in modo troppo esclusivo, un moderno economista (Levasseur, La question de l’or. Intr.)
E il rimedio? — Il rimedio vero, efficace, potea solo consistere nel togliere di mezzo le cause efficienti, rianimare la produzione, ricondurre per essa la generale affluenza dei beni. Ma tal rimedio, a tradurlo in atto, non era di pronta e agevol opera, nè còmpito ormai da quegli uomini e da quei tempi; e i consigli imperiali non aveano forse chi nemmeno vi pensasse, o vi si intendesse.
Perlochè Diocleziano, risoluto a cessare il male, pensò ad altro riparo; fido nell’onnipotenza della legge; e non bastando a creare l’affluenza, che da sè sola avrebbe poi moderato i prezzi, divisò di ricondurre per atto di autorità i prezzi a moderazione; non potendo la copia dei beni, decretò in sua vece e addirittura il buon mercato. — Un editto pose ai prezzi il termine massimo che non potesse esser varcato; e guai a chi avesse osato contravvenire alla prescrizione imperiale!1.
Dovette di certo essere stata una singolar gioja, un giorno di vera felicità pegli archeologi, quello in cui venne primamente annunziata la scoperta di un editto mercimoniale di Diocleziano. — Esso fu ritrovato nel 1709, e in parte copiato da Sherard, sui muri esteriori di un edifizio in marmo fra le rovine delle citta di Stratonicea nell’Asia Minore; in appresso, nel 1817, quell’iscrizione fu rilevata per intero dal viaggiatore inglese William Bankes, che al suo ritorno ne pubblicò un fac-simile di notevole fedeltà.
Un altro frammento fu ritrovato nel 1807 in Egitto, scolpito in pietra, che oggi conservasi nel Museo di Aix di Provenza, e che fu illustrato nel 1829 da Fonscolombe. Poi il Le Bas ne scoperse differenti frammenti a Aezani, Mylasa, e nella Chiesa di Hagios Jannis a Geraki, l’antica Geronthra, in Laconia, in lingua greca; uno, nella stessa lingua, a Carystos in Eubea, pubblicato la prima volta da Mommsen, sulla copia dell’architetto tedesco Schaubert; alcuni, sempre in greco, incontraronsi in Livadia, e finalmente uno ultimo a Megara da Francesco Lenormant nel 1860.
Diocleziano avea voluto che il suo comando si scolpisse in marmo ed in bronzo, nelle due lingue classiche ed uffiziali dell’Impero, la latina e la greca, a norma delle varie provincie; e in questo esso fu puntualmente obbedito. Il che, se non gran fatto ai contemporanei di lui, giovò almeno ai moderni eruditi, una classe di gente, alla cui felicità è probabile che l’Augusto, cotanto preoccupato di quella de’ suoi sudditi, è probabile non abbia rivolto nemmeno lontanamente il pensiero.
Illustrato man mano da Dureau de la Malle (Écon. pol. des Romains, liv. I., ch. XII, XIII.), da Mommsen (Das Edict Diocletians, 1851), e da altri pure, quell’editto ci sta ora innanzi ristampato, integrato, per quel che danno le più recenti scoperte, illustrate di un copioso commento, per opera di W. H. Waddington, sotto il titolo di Édit de Dioclétien, établissant le maximum dans L’Empire romain, publié avec de nouveaux fragments et un commentaire, etc. (Parigi, Didot, I864 in-4°): — lavoro questo, che è esso medesimo un estratto del Commentario delle Iscrizioni greche e latine, raccolte in Asia Minore da Ph. Le Bas, la cui pubblicazione fu commessa al Waddington dall’Accademia delle Iscrizioni e Belle Lettere dell’Istituto di Francia.
Ed è sulle traccie di tale lavoro che io vengo ordendo questo breve discorso; pigliando per mia parte il soggetto, non già dal punto di vista dell’erudizione e della critica, che non sarebbe invero del fatto mio, ma da quello dell’Economia politica, e dell’istruzione che se ne può derivare a francheggiare i principj di questa. — Vi è un’altra classe di gente, alla cui contentezza Diocleziano avea probabilmente pensato ancor meno che a quella degli eruditi; ed è la classe degli economisti. Sta bene che, anche senza l’imperiale sua licenza, essi vengano a fare lor prò del suo esperimento.
Ed anzi tutto convien fermare le idee circa la vera natura dell’editto e dei prezzi che vi sono decretati.
L’editto (lo dice l’Imperatore nel preambolo, dove dà ragione delle sue prescrizioni) non intende punto stabilire i veri prezzi venali delle cose: ciò che sarebbe ingiusto (le son sue parole); bensì il limite che i prezzi non devono sorpassare, affinchè negli anni di carestia il flagello dell’avarizia sia contenuto in moderati confini per virtù della legge.
Brevemente, la è, come si usa dire, una legge del massimo, una meta, al di sotto della quale è lecito vendere, ma non al di sopra; fissata forse con certa latitudine rispetto ai prezzi ordinarj; ma con i quali criterj determinata, non saprebbesi dire, giacchè nulla se ne accenna.
Per quanto è della giustizia od ingiustizia della cosa, lasciam là. — Per vero, una certa logica, o, se vuolsi, un certo buon senso volgare, avrebbe potuto suggerire alla coscienza timorosa di Diocleziano che se è ingiusto stabilire i prezzi delle cose, lo è pure in qualche grado anche stabilire il limite massimo che essi non deggiano in alcun caso sorpassare, a meno che il limite non si ponga tant’alto che non possa mai essere raggiunto: al qual patto si può anche cansar la briga di segnarlo del tutto, e risparmiarsi addirittura il disagio di far la legge; ma probabilmente Diocleziano, da quell’uomo di Stato che era, non avea alcun bisogno di apprendere da certo scrittore politico venuto dappoi, che la logica è stata spesso la rovina degli imperi. — E ad ogni modo, se mai egli avesse avuto uno scrupolo su ciò, rispettiamolo, e accettiamo la lezione quale da lui ci venne.
Tanto più che per ogni altro rispetto, davvero che di logica l’editto non manca.
Dal momento infatti che Diocleziano sembra essersi persuaso che la legge può infrenare l’intemperanza dei prezzi, e creare o mantenere fra certi limiti il buon mercato, egli applica la legge a tutto, e fa una tariffa universale. Il che va indubbiamente a filo di logica. — Come avrebb’egli forse sorriso della pusillaminità de’ nostri moderni, i quali hanno fede che sia data facoltà e discrezione di costringere la cupidità degli incettatori di biade, il monopolio affamatore di fornaj e macellaj, e assentono invece illimitata balìa al primo capitato di porre e discutere a suo talento e capriccio i prezzi di tutte l’altre cose; quasichè codesta nostra perversa natura non rimanesse in ogni sua relazione la medesima, e la libertà non trasmodasse dappertutto e sempre ad intemperanze e disordini; — quasichè il mercato potesse egli obedire, in via di ragione, a tutt’altra legge che non sia quella di chi ha in sua mano la somma delle podestà civili, e tiene l’ufficio di essere la providenza vivente, oculatissima, immanchevole, della societa! — Eh via! Se la legge è buona per condurre ad obedienza e moderazione i prezzi delle granaglie e delle carni, e perchè no adunque quelli del vino, delle vesti, degli utensili? E se si tassano gli alimenti, perchè no anche le opere? — Sembra almeno che così vorrebbe la coerenza; e se si è persuasi di far il bene in un campo, non si dovrebbe poi essere restii a cimentarsi di farlo in tutti.
Ad ogni modo, siamo nuovamente al caso di dover dire che Diocleziano l’intese cosi; e a partire da questo punto, il merito della logica non gli può essere contrastato.
L’editto può distinguersi in capi (nel testo di Waddington sono XVIII), e mostra non volere dimenticar nulla di ciò che a quei tempi componeva la suppellettile delle cose venali. Il primo capo, per es., tratta dei grani e legumi in 35 articoli, il secondo dei vini, e ne enumera 19; il terzo degli olj, e ve n’ha 12; poi vengono le carni in 50 titoli, e i pesci in 12. Il capo sesto è destinato agli erbaggi e alle frutte, e sono 96 gli oggetti posti in elenco.
Seguono le mercedi degli operaj, i quali sono di 41 specie. Poscia i lavori metallurgici (aeramentum) in 76 articoli, le pelli, e tutti i lavori coriarj, per oltre un centinaio; i materiali da costruzione; i carri ed altri mezzi di trasporto, le vesti e gli oggetti di abbigliamento, ecc. ecc.
È un inventario completo, e mostrerebbesi tale ancor più se l’editto si possedesse nella sua integrità, anzichè in forma per gran parte ancora frammentaria, e mutilato.
Il Waddington lo assomiglia alle più moderne tariffe che per eufemismo diconsi protettive; ed anzi egli tenta in tale riscontro una certa scusa per Diocleziano. E nel fatto il Waddigton ha ragione. Le due sorte di tariffe hanno una certa aria di cognazione comune, pur differendo in parte nell’intento e nel mezzo. Sono come due sorelle in certa numerosa famiglia, di cui altri potrebb’essere tentato ripetere, con reminiscenza classica, e per la centesima applicazione:
Facies non omnibus una,
Nec diversa tamen, qualis decet esse sororum.
L’una aspira a fare la felicità dei consumatori col buon mercato, e l’altra la felicita dei produttori col rincaro; la comune parentela sta nel convincimento di chi regge e governa che sia da emendarsi per decreto la necessità economica delle cose; e l’ideale del tentativo, su cui giova richiamare l’attenzione de’ vecchi esperti, sarebbe di combinarle tutte e due insieme: — la protezione al confine e la meta alli interno! — Avrebbesi il vero trionfo dell’arte amministrativa2.
Nè basta; e il logico imperiale procede assai più innanzi, quasi a far ammenda di quel primo scrèpolo di che egli potesse mai essere redarguito nel preambolo.
Se si può intimar la legge al mercato; se questo è abbastanza docile per lasciarsela imporre, o abbastanza discreto e prudente per rassegnarvisi, suo buono o mal grado, e perchè non si potrà anche imporglierla in modo dappertutto uniforme, o almeno fra limiti (se così piace) uniformemente insormontabili? Intimare con sovrano comando al mare fluttuante dei prezzi: — tu giungerai fino a qui e non più oltre: — senza riguardo alla plaga a cui battano le sue onde? — Si badi bene, si tratta ad ogni modo di un massimo, sotto cui i prezzi possono muoversi a loro beneplacito: la munificenza imperiale ne fa loro comodità!
E se pur aveasi buona l’uniformita nello spazio, e perchè no, a ragion di logica, anche nel tempo? Perchè rifuggire dal decretare la meta siccome unica per tutte le provincie, e del pari siccome invariabile e perenne per tutte le età, ossia (che è poi il medesimo) tanto che non piaccia per sovrana benevolenza mutarla?
E così fu. — Chi ebbe a scrivere che il merito massimo, od anche talvolta il diffetto, dei giureconsulti romani abbia consistito nel rigore della loro logica, chi sa se non avrebbe alla perfine riscontrato la stessa tempera anche in Diocleziano. — A questo punto almeno, egli non mostrava aver più nulla di quello scrupolo e di quella apprensione che più sopra notavasi.
Nè il caso potea dirsi assolutamente senza esempio. — È vero che, a quanto sembra, i prezzi delle cose rimasero ordinariamente liberi nel mondo romano, ma dalla legge delle XII Tavole in poi, quella merce universale che è il danaro avea tariffa uniforme senza riguardo a spazio e circostanze, nonchè senza grandi divarii nel tempo: e la cosa non mutò sostanzialmente nemmeno nei sedici secoli che decorsero da Diocleziano a’ giorni nostri. — Tassare l’uso del denaro, l’usura, come si dice, egli è pur un tantino aver la pretesa di tassare tutte le cose venali. E Diocleziano alla sua volta, tassando con certa norma i prezzi monetarj di tutte le cose venali, che veniva egli a fare inversamente se non a tassare il valore, la potenza d’acquisto della moneta essa medesima? — La era virtualmente una vera tariffa monetaria quella sua, tariffa reale, a ragione di cose e prodotti, anzichè semplicemente da specie a specie, come le tariffe monetarie solite.
Adunque una sola legge, un solo massimo per tutto l’Impero, quanto esso era vasto; e quel massimo, decretato invariabile, scolpito in bronzo ed in marmo, a perenne universale statuto, nelle due lingue sovrane del mondo romano, la lingua latina e la greca. Ed è in questa duplice forma, si disse, e per merito di siffatto intendimento, che riescì a preservarsi e che fu scoperto l’editto, a delizia degli eruditi e degli economisti.
L’Impero, all’apogeo de’ suoi limiti, stendevasi allora dall’Atlantico al Tigri, dal grande Deserto africano al mar di Germania, esso racchiudeva nel suo seno, come un lago veracemente romano, il mare Mediterraneo. Comunque stremato in gran parte di genti, vi avea per molte diecine di milioni di abitatori, chiamati a godere della felicità apprestata dall’imperiale sollecitudine.
Pertanto, da un capo all’altro dell’universo orbe romano (universo orbi3), la segale, al modio castrense, non più di danari 60; il miglio pesto 100; il miglio in grano e il panico, 50; i piselli fratti, i ceci, 100; l’avena, 30; il seme di lino, 150; la veccia secca, 80, ecc.
Il vino piceno, il tiburtino, il falerino, e qualche altro, per sestario d’Italia, danari 30; il vino vecchio, di primo gusto (vini veteres, primi gustus), 24; quello di secondo gusto (sequentis gustus), danari 16; il vino rustico, ossia ordinario, del paese, 8; il decotto, 20; il condito (cotto con miele e pepe), 24; l’assenzio, 20, e il rosato altrettanto.
Le tre qualita d’olio d’oliva, flos, sequens, cibarium, rispettivamente, per la stessa misura (il sestario), denari 40, 24, 12; l’aceto, 6; il sale, al moggio, 100.
La carne porcina, qualunque la qualità ed il luogo, alla libbra romana (pondo, libra), non più di denari 12; le lucaniche, 16; il fegato grasso (ficati optimi), 16; ed altrettanto il lardo di prima qualità (laridi optimi), la sugna, 12; un fagiano ingrassato, 250; un fagiano agreste, la metà tanto, 125; un’anitra grassa, 200; una pernice, 30; una lepre, 150; dieci cotorni, 20; un porcellino da latte, 16. Per 100 ostriche, denari 100; per una libbra di sardelle, 16.
Poi vengono i cardi, l’indivia, le malve, le cipolle, i porri, le bietole, i capperi, le zucche, i cocomeri, i poponi, gli asparagi, i fagiuoli e le fave, le avellane, le mele, le pesche precoci e le duracine (praecocia, e duracina maxima), i fichi, i datteri, ecc. ecc.: un elenco di quasi un centinaio di erbaggi e frutto, come gia indicavasi. — Tanta minutezza nelle ordinanze dell’Augusto lascia per poco presentire i gusti e le occupazioni del futuro ortolano di Salona.
Ed è poi curioso seguire le illustrazioni, di cui il Waddington accompagna siffatti registri, ed anche vedere gli eruditi impacciarsi alcun poco nell’assegnare la vera significazione delle pesche duracine, e udire il Mommsen, il quale ha pur dimorato alquanto in Italia, decidere addirittura che tra noi si chiamino in generale duracine le frutte invernali.
Segue il capo delle mercedi degli operaj; ed anche in ciò la logica è per Diocleziano.
Se si tassano tutti gli oggetti di produzione e consumo, va da sè che si abbiano a tassare anche i lavori. — Un socialista moderno non assentirebbe d’essere da meno; ma però con questo divario, che l’uno, il socialista, vorrebbe tassato il limite minimo, mentre l’altro ha stimato bene di segnare il massimo, così pei lavori, come per tutte l’altre cose. — La coerenza è ancora dalla parte di Diocleziano.
Il quadro poi è in singolar modo interessante, perchè se ne deriva il pregio relativo delle varie opere. E vi è pure una circostanza notevole per le pratiche del tempo: cioè che l’operajo a giornata era sempre nutrito, ossia condotto colle spese; a differenza di quello a còttimo.
Adunque, all’operajo di campagna, col pasto giornaliero (operario rustico, pasto diurni), denari 25; al tagliapietre muratore (lapidario structore), il doppio, 50; altrettanto al legnajuolo di edificj (fabro intestinario); all’operajo in mosaico (musaeario), 60; al pittore da pareti (pictori parietario), 70; al decoratore (pictori imaginario) 150; sempre col pasto.
Un pistore riceveva anch’esso; col pasto, 50 denari; un camelario, un asinario, un burdonario, 20. — Per un salasso (depletum) la meta era di 20 denari. — I salarj del barbiere e quelli del tonsore di pecore sono fissati nella stessa misura, 2 denari per capo, uomo o pecora.
Al sarto per la fattura di un pajo di brache (brachario pro brachibus), 20 denari; per quella di una camicia da uomo nuova di tela (in strictoria virili de tela, e dicesi pure camisia), quale usciva dal telajo, 10; e così via.
Un tabellione avea da riceverne non più di 25 per ogni 100 righe della scrittura di un atto.
Scendendo poi a fissare i salarj dei maestri che tenevano scuole pubbliche nelle principali citta e borghi, la tariffa serve a darci un’idea di ciò che era l’istruzione nelle scuole d’allora. Vi si vede che i varj rami dell’educazione scolastica erano la ginnastica, la lettura, il calcolo elementare, la scrittura ordinaria e la tachigrafia, la grammatica greca e latina, la geometria o disegno lineare, e infine gli elementi della letteratura e della filosofia. L’architettura, menzionata a parte, sembra che avesse un insegnamento speciale. — Il programma non è poi sì scarso; nè sembra che abbia da invidiare al famoso trivio o quadrivio di altri tempi dappoi, e dobbiamo qualche gratitudine a Diocleziano di aver trovato modo di farcelo conoscere.
L’onorario più elevato fra gli insegnanti era quello dell’oratore e filosofo (sofista): 250 denari al mese per ogni discepolo; il grammatico e il geometra ne aveano 200; il pedagogo, sorvegliante, o maestro inferiore, 50. — L’avvocato per una petizione (in postulatione) potea pretenderne 250, e per una sentenza, 1,000. È il massimo a cui si giunge.
Si può senza rammarico dispensarsi da altri particolari. Crederebbesi a mala pena fin dove si scenda. tassata perfino la frusta del mulattiere, correggia e manico (flagellum mulionicum cum virga), denari 16; e quella del cocchiere (corigia aurigalis), 2.
Un pregio singolare (analogo a quello or ora avvertito per le scuole) va tuttavia unito a quegli aridi elenchi di oggetti col prezzo corrispondente, per ciò che conferiscono alla cognizione delle condizioni economiche proprie dell’epoca. Sono come un inventario della produzione prima, dell’industria, del commercio, dei consumi, del lusso, dello stato del mercato d’allora; e i brevi, ma succosi commenti del Waddington tornano per tale rispetto preziosissimi.
Per esempio, si vede che a quel tempo le vesti di seta erano ormai di un uso generale. Vi erano stoffe di tutta seta (holoserica), e miste con lino a lana (subserica). Vi si indica la seta bianca naturale, la quale era un’importazione della China, e tassata in 1,000 denari la libbra. La seta trasportavasi in mazzuoli, o matasse, metaxa o mataxa, che significa pure la seta greggia, quale si trae dal bozzolo, e che è la voce passata poi nel greco moderno ad indicare la seta in generale.
Alcune volte è fornita occasione a curiosi riscontri di storia economica.
Le molte foggie d’abiti di origine gallica, la caracalla, il sagum, o sajo, la braca, suggeriscono al William Henry Waddington la riflessione che i Galli abbiano fin d’allora esercitato sulle mode del mondo lo stesso impero che oggidì si riconosce ai loro discendenti su quelle dell’Europa. — L’Oriente, e propriamente la Mesopotamia, somministrava la paragoda, o paragauda, specie di tunica, o dalmatica bianca in seta leggerissima, adorna di un orlo di porpora, e a trapunto d’oro: la quale è la faragia d’oggi, ossia il manto leggero delle donne turche, che viene dagli stessi luoghi, da Mossul e dal Diarbekir, industria colà immutevolmente stanziata dall’epoca dei Persiani e dei Parti.
Parimenti, varj passi comprovano che erano celebri i saj e i panni che fabbricavansi dai Galli Atrebates, la moderna Arras, che mantiene l’eguale rinomanza. Que’ saj sono tassati in 6,000 denari per capo.
Io non saprei dire invero con quale fondamento, ma l’illustratore dell’editto, il Waddington, opinerebbe altresì che le taurinae muliebres, o sandali muliebri in cuojo, potessero così chiamarsi, non tanto dalla qualità della materia, quanto dai Taurinii e dall'Augusta Taurinorum della Gallia Cisalpina, donde venissero i migliori: perlochè Torino avrebbe goduto fin d’allora d’una riputazione, che oggi ancora le è tributata pe’ suoi lavori in pelli.
Tutto ciò sta bene. - Ma che cosa era essa quella unità monetaria del denaro (denarius), impiegata nella tariffa?
Gli è qui veramente che manca la concordanza fra gli eruditi ed interpreti dell’editto, e la luce non si è ancor fatta completamente. Borghesi, seguito pure da Dureau de la Malle, fissava il valore del denaro, a ragione del metallo corrispondente, in 2 centesimi ½ di franco; ma sembra dimostrato che la sua stima si fondasse sopra un equivoco. Le Blas le stabiliva in 4 centesimi; Mommsen lo portava dapprima a 10, poi dichiarò non esservi certezza; e Waddington è anch’esso di quest’ultimo avviso, pur proponendo le ragioni per le quali gli sembra da anteporsi il valore di cen. 62/10.
Dell’altre misure si hanno ragguagli abbastanza bene accertati.
Traducendo pertanto in misura e moneta odierna alcuni fra i principali articoli della tariffa, si avrebbero i seguenti prezzi, quali sono riportati nel testo di Waddington:
Segale, | l’ettolitro | . . . . . . . | Fr. | 21,55 | |||||
Avena | ’’ | . . . . . . . | ’’ | 10,75 | |||||
Vino ordinario, | il litro | . . . . . . . | ’’ | 0,92 | |||||
Olio ordinario | ’’ | . . . . . . . | ’’ | 1,38 | |||||
Carne di porco, | il chilogrammo | . . . . . . . | ’’ | 2,28 | |||||
Carne di bue | ’’ | . . . . . . . | ’’ | 1,52 | |||||
Carne di montone, di capra, | il chilogrammo | . . . . . . . | ’’ | 1,52 | |||||
Lardo di I.ª qualità | ’’ | . . . . . . . . | ’’ | 3,04 |- | Un pajo di polli | . . . . . . . | ’’ | 3,72 | |
Un pajo di anitre | . . . . . . . | ’’ | 2,48 | ||||||
Una lepre | . . . . . . . | ’’ | 9,30 | ||||||
Un coniglio | . . . . . . . | ’’ | 2,48 | ||||||
Ostriche, | al 100 | . . . . . . . | ’’ | 6,20 | |||||
Uova, | al 100 | . . . . . . . | ’’ | 6,20 | |||||
Al contadino, | nutrito per giorno | . . . . . . . | ’’ | 1,55 | |||||
Al muratore e legnajuolo | . . . . . . . | ’’ | 3,10 | ||||||
Al pittore decorativo | . . . . . . . | ’’ | 9,30 | ||||||
Al barbiere, | per persona | . . . . . . . | ’’ | 0,12 | |||||
Al maestro di lettura, | per fanciullo, al mese | . . . . . . . | ’’ | 3,10 | |||||
Al maestro di calcolo | ’’ | . . . . . . . | ’’ | 4,65 | |||||
Al maestro di scrittura | ’’ | . . . . . . . | ’’ | 3,10 | |||||
Al maestro di grammatica | ’’ | . . . . . . . | ’’ | 12,40 | |||||
Al retore o sofista | ’’ | . . . . . . . | ’’ | 15,50 | |||||
All’avvocato, | per una petizione | . . . . . . . | ’’ | 12,40 | |||||
Allo stesso, pel conseguimento della sentenza | . . . . . . . | ’’ | 62,00 |
A dir vero, per un economista, ciò non significa ancor nulla, voglio dire che la cosa non ha ancor nulla in se da farne le meraviglie. Levasseur (op. cit) aveva già calcolato che all’epoca degli Antonini il valore reale dei metalli preziosi fosse con poco divario quello d’oggidì, segnando poi, in codesto intervallo di 17 secoli, 14 periodi (fino al 1848), nei quali il valore dei metalli stessi avrebbe oscillato fra i limiti estremi di 1 a 12. La meraviglia è soltanto per quelli che stimano che all’eguale valore della moneta, ossia dei metalli preziosi, risponda un’eguale entità della ricchezza generale. Il che assolutamente non è. — Il valore è cosa puramente relativa; la sua eguaglianza esprime soltanto l’eguaglianza di un rapporto, non quella dei termini fra cui il rapporto intercede. Da 1 a 10 il rapporto è eguale come da 10 a 100, o da 100 a 1000, e così indefinitamente; ma è ben diversa cosa il valore assoluto, o somma dei termini. L’essere stato eguale il valore dei metalli preziosi all’epoca di Diocleziano, rispetto a quello che è al presente, significa soltanto che era allora eguale a quello che è in oggi il rapporto fra i metalli preziosi dall’una parte e la somma dei beni dall’altra; e più esattamente, non la somma dei beni in generale, ma di quelli che all’una e all’altra epoca formano oggetto di contrattazione monetaria, in altri termini, ciò vuol dire, senz’altro di più, che è eguale nei due tempi il rapporto fra la quantità della moneta e la somma delle contrattazioni fatte in moneta. In via assoluta, anzichè in via relativa, ossia di rapporto scambievole, moneta e beni mercatati potevano allora differire in qualsiasi proporzione da ciò che sono al presente, e per certo ne differivano enormemente, e ne differivano in meno. Per modo di esempio, in luogo di moneta 10, beni 100, vi potea essere non più di moneta 1, beni 10: — rapporti eguali, valori assoluti differenti dal semplice al decuplo.
Certo saremmo ben modesti a credere di non esser oggi più ricchi, o men poveri, di quello che fossero i docili sudditi di Diocleziano, se anche i nostri preposti non si prendano ormai più tanta cura della felicità nostra, da giungere a confortarci di una legge universale del massimo, come doveva esser quella; ed anzi lo siamo, e più lo diverremmo in buona parte per questo.
Una cosa rimane a vedersi: vale a dire per quali mezzi Diocleziano intendesse imporre il proprio editto a quelle arpie d’incettatori ed altra simile bruttura, che egli reputa sì scaltri e rapaci. Vuolsi cioè conoscere, a dirla con certa solennità, qual fosse la sanzione della legge: punto assai delicato, ben s’intende.
Poi v’ha il quesito ultimo, cioè come l’intimazione abbia provato nella pratica, e quale effetto siasene conseguito. — È il supremo argomento dell’esito, che conchiude tutte le ragioni, e le vale tutte ad una volta.
Sul primo punto Diocleziano è di una decisione, e direbbesi (se altro fosse) d’una ingenuità veramente portentosa. Comincia dal mettersi sotto il grave patrocinio degli antenati, i quali, uomini esperti, sempre inculcavano l’osservanza de’ loro editti mediante il timore di una pena (nota egli); soggiunge filosoficamente che il timore è il solo giustissimo moderatore in simiglianti ufficj, avvegnachè l’uomo difficilmente si lasci indurre al bene per solo buon volere; e perciò non gli sembra che punto esorbiti la sanzione se i violatori dell’editto, e i loro complici, e chi celasse le derrate per non recarle al mercato, sieno puniti niente meno che colla pena capitale. — E chi mai oserebbe, dic’egli, dar taccia di durezza alla legge, quando siavi una via tanto chiara ed aperta di sottrarsi ai suoi castighi, siccome quella di adattarsi senz’altro a ciò che ella indice? Nec quisquam duritiam statui putet (il testo merita davvero la citazione), cum in promptu adsit perfugium declinandi periculi modestiae observantia.
Giustificazione invero affatto impuntabile; la pena capitale è un nonnulla con siffatta comodità: ognuno ha intera balìa di evitarla. — Peccato che la Convenzione Nazionale francese, la quale nelle sue eroiche aberrazioni economiche propose la ghigliottina ai violatori del suo massimo, e che secondo il suo stile era fermamente risoluta di tener parola, non abbia avuto sott’occhio l’editto di Diocleziano, per copiarne quella ragione tanto persuasiva, a comprovare, se pur gliene importava, che al postutto essa non era punto crudele e nè tampoco eccessivamente severa. — Altri tempi, altre tempere!
E l’esito?
Diocleziano, per verità, non ce ne ha punto informati in persona; o, a meglio dire, non ci fu di lui preservato altro che il primo atto; questo solo venne inciso in marmo ed in bronzo, a quanto pare. — Però l’esito ce lo ha riferito Lattanzio nel libro che s’intitola De mortibus persecutorum, ed eccolo nel suo latino, citato testualmente dal Waddington, il quale non vi fa sopra osservazione di sorta: — Diocletianus cum variis iniquitatibus immensam faceret caritatem, legem pretiis rerum venalium statuere conatus est. Tunc ob exigua et vilia multus sanguis effusus, nec venale quidquam metu apparebat et caritas multo deterius exarsit, donec lex necessitate ipsa post multorum exitium solveretur (cap. 7).
Ossia, in linguaggio volgare: “Diocleziano, il quale colle molteplici sue iniquità avea egli stesso cagionato un’immensa carestia (e in ciò l’imputazione risentesi alquanto di parzialità ostile), tentò poi di porvi riparo collo statuire la legge ai prezzi delle cose venali. Il che costò molto sangue, sparso per sì poca e bassa cagione, e intanto le mercanzie celavansi per paura, la carestia rincrudì grandemente; e infine, dopo avere causato la rovina di un gran numero di genti, la legge si dovette abrogare per la necessità stessa delle cose.,,
Per la necessità stessa delle cose, necessitate ipsa. — Sta bene! Accadde quello che doveva necessariamente accadere, quello che sempre accade allorquando s’immagina di porre ciò che l’uomo chiama la propria legge in luogo delle leggi, che sono veramente tali, della natura. — Diocleziano non riescì meglio di altri, meglio dei formidabili tribuni di Francia, meglio degli editti che si arrogano di arrestare immutevolmente la ragione dell’interesse al 5 per 100, o intimare che per l’egual peso l’oro debba valere esattamente 15 volte l’argento; o peggio, che l’uno e l’altro metallo valgano più o meno, a discrezione e capriccio di chi può farne decreto a parole; o che uno straccio di carta stampato valga senz’altre osservanze come il metallo prezioso.
Il mercato ha la propria gravità, come il mondo materiale, esso obbedisce a leggi, che se non sono esattamente quelle di Galileo, vi si assomigliano però nella loro costanza ed inflessibilità. Occorrerebbe a mutarle, sì nell’uno che nell’altro caso, alcunchè di quello che suolsi stimare il miracolo; e ormai, quanto a miracoli, la scienza non mostra essere gran fatto inchinevole a prestarvi credenza; nè sono per certo gli amministratori quelli che possano seriamente pretendere d’averne mai operato.
Pertanto a cosiffatti tentativi falliti compete un grande valore; essi hanno il merito di un argomento negativo, che talvolta può dirsi un vero argomento ab absurdo. — Oggigiorno i principj sono abbastanza bene accertati per non abbisognare in assoluto di una prova di più; e nondimeno vi è pur sempre una compiacenza ed un vantaggio nel vederli suffragati dai fatti anco una volta, e in condizioni, per qualche rispetto, le più larghe ed acconcie che possano mai desiderarsi. Di ciò la scienza ha debito all’Imperatore Diocleziano, ed essa può essergli grata della lezione, se anche l’augusto autore ce l’abbia porta ignari di noi e delle nostre dottrine, e per certo a suo malincuore.
E con questa conclusione sia fine al presente discorso già forse troppo a lungo prodotto.
Note
- ↑ L’editto non è soltanto in nome di Diocleziano, bensì in quello di tutti e quattro gli imperanti, i due Augusti e i due Cesari, perchè valesse per tutto l’Impero; ma si è concordi nel riguardarlo come opera propria di Diocleziano. Esso mostra appartenere all’anno 301.
- ↑ Veggasi a questo proposito un curioso riscontro d’opinione in Francia, appuntato da un articolo di H. Baudrillart, nel Journal des Débats del 4 Gennajo 1866. V’ha chi persevera a domandare, come osserva l’illustre economista, il grano caro, perchè prosperi l’agricoltura, e il pane a buon mercato, perchè viva meglio l’operajo, o se ne possa aver l’ opera a minor costo: combinazione un po’ ardua davvero!
- ↑ Il testo è formale ed esplicito: Placet igitur ea pretia, quae subditi brevi scriptura designat, ita totius orbis nostris observantia contineri .....
Universo orbi provisum. — Bensì è vero che l’editnotato non venne finora ritrovato che nelle provincie orientali, Grecia, Asia Minore, Egitto.