L'avvenire!?/Capitolo ventottesimo
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CAPITOLO VENTOTTESIMO
«È un poco più tardi dell’ora fissatami per svegliarla. Ella dormiva più profondamente del solito, signor West.»
La voce era del mio servitore Saverio. Mi rizzai sul letto e guardai intorno stupito; mi trovava nella mia camera sotterranea, il dolce chiarore della lampada che ardeva sempre nella stanza quando c’era io, si spandeva sui muri e sui mobili. Al mio letto stava Saverio con in mano un bicchiere di Sherry che il dottor Pillsbury mi aveva ordinato di bere, risvegliandomi dal sonno mismerico, per scuotere le funzioni fisiche addormentate.
«Beva questo subito,» disse egli, mentre lo fissavo sbalordito, «ella sembra molto stanco, le farà bene...»
Respinsi il bicchiere e cominciai a pensare che cosa era avvenuto, ed era molto chiaro; tutta la storia del vigesimo secolo era stato un sogno; aveva sognato degli uomini illuminati e senza fastidi, delle loro semplici disposizioni, della gloriosa nuova Boston colle sue cupole ed i suoi comignoli, i suoi giardini e le sue fontane e di tutte le agiatezze esistenti dappertutto; l’amichevole benignità alla quale mi era abituato, il mio ingegnoso ospite e mentore, il dottor Leete, sua moglie e sua figlia la seconda e più bella Editta, mia fidanzata, erano anche immagini della fantasia.
Rimasi a lungo nella stessa positura; sedeva sul letto e guardavo nel vuoto, occupato a far passare in rivista gli avvenimenti della mia visione fantastica. Saverio si spaventava del mio aspetto e mi domandò, inquieto, che cosa avessi. La sua indiscrezione mi ricondusse al riconoscimento del mio vero stato; richiamai i miei pensieri e tranquillizzai il mio fedele servitore assicurandolo che non mi sentivo nulla. «Ho fatto un sogno stranissimo, Saverio, ecco tutto,» dissi, «un sogno stra-or-di-nario».
Mi vestii macchinalmente e mi tastavo non sicuro di me stesso; feci la colazione preparatami come al solito da Saverio, e poi uscii. Il giornale del mattino stava sul mio tavolo, lo presi e ne lessi la data, 31 maggio 1887. Dall’istante in cui apersi gli occhi, avevo compreso che le mie esperienze fatte in un altro secolo erano un sogno; epperò mi sorprendeva la prova convincente che il mondo non era che di due ore più vecchio. Guardando l’indice del giornale che dava le notizie del mattino, lessi la rivista seguente:
Cose estere.
Minaccie di guerra tra la Francia e la Germania. — Le camere francesi richiedono un nuovo credito militare per pareggiare l’accrescimento dell’armata tedesca. — Possibilità d’una guerra generale. — Grande miseria degli operai senza lavoro. — Gli operai di Londra domandano lavoro. — Dimostrazione mostruosa. — Le autorità intervengono. — Grandi scioperi nel Belgio. — Il governo si prepara a reprimere le sortite. — Fatti rivoltanti riferentisi al lavoro femminile nelle miniere di carbon fossile nel Belgio.
Notizie del paese.
Il contagio dell’inganno continua. — Sottrazione di un mezzo milione a New-York. — Cattiva amministrazione dei denari dei pupilli. — Gli orfani impoveriscono. — Abile furto di un impiegato della Banca: 50.000 dollari spariti. — Grandi fallimenti di case commerciali. — Si teme una crisi. — Discorso del prof. Brown sulla grandezza morale della civilizzazione del secolo XIX, ecc.
Era dunque realmente il secolo XIX in cui m’ero svegliato, non c’era nessun dubbio. Dopo tale sentenza sul secolo, espressa dalla cronaca, la quale non parlava che di sangue, di cupidigia e di tirannìa, quest’ultimo discorso sembrava un cinismo degno di Mefistofele, epperò era forse io ora il solo che comprendeva quel cinismo, mentre ieri non lo avrei compreso più degli altri. Il mio sogno compì tutta quella trasformazione e non so per quanto tempo io dimenticai quelli che mi circondavano, per agitarmi coll’immaginazione in quel mondo fantastico, in quella stupenda città dalle comode abitazioni e dai grandiosi palazzi pubblici. Mi circondavano nuovamente dei visi non sfigurati dalla tracotanza e dalla viltà, dall’invidia e dalla cupidigia, dall’ansiosa agitazione e dall’ambizione febbrile; mi circondavano imponenti figure di uomini e donne che non avevano mai conosciuto la paura del prossimo, nè s’erano appoggiati sulla loro arte; ma sempre invece, come dimostrava la predica (che mi era rimasta impressa) stavano ritti dinanzi a Dio.
Con un profondo sospiro ed il sentimento di un’irreparabile perdita, non meno dolorosa, benchè fosse di cosa non reale, mi strappai a’ miei sogni ed abbandonai la casa.
Fra la mia porta e la via di Washington mi fermai una dozzina di volte, a raccogliere i miei pensieri; tanto era potente la visione della Boston dell’avvenire, che la vera Boston mi sembrava estranea. Appena mi trovai sulla strada, m’impressionò il sudiciume e il cattivo odore che prima non avevo mai osservato; ancora ieri mi sembrava tanto naturale di vedere alcuni de’ miei cittadini vestiti di seta, mentre altri portavano i vestiti laceri; alcuni ben nutriti, altri morenti di fame. Ora m’irritava la palese ineguaglianza nell’abito e nell’apparenza degli uomini e delle donne che s’incontravano per istrada e ancora più la completa indifferenza dei ricchi verso i poveri. Erano questi esseri umani, che potevano guardare la miseria dei loro concittadini senza versare una lagrima? Pure dovevo persuadermi che io ero cambiato e non i miei contemporanei; avevo sognato di una città i cui abitanti erano tutti uguali, come i fanciulli d’una famiglia, e dove uno solo comandava ed era la guida di tutti.
Un altro tratto della vera Boston il quale mi dimostrò come le cose benchè conosciute, appaiano strane, se viste sotto luce diversa, era l’immensità di avvisi pubblici. Nella Boston del 20° secolo, non se ne vedevano, perchè non occorrevano; ma qui, di avvisi tappezzavano tutti gli edifizi, le finestre e persino il lastrico, coprivano pagine intere di giornali d’ogni colore, erano dappertutto infine fuorchè sul cielo, e sempre allo scopo di attirare, con innumerevoli pretesti, il denaro altrui nelle proprie tasche.
Per quanto diversa fosse la dicitura, il tenore di tutte queste innovazioni era lo stesso. Quegli avvisi erano variamente concepiti; ma il loro contenuto era sempre identico:
«Aiutate Giovanni Jones! Non datevi pensiero degli altri, son tutti truffatori: io solo, Giovanni Jones, sono un vero galantuomo. Venite da me, ascoltatemi, guardatemi. Badate di non sbagliare, Giovanni Jones è l’uomo che cercate e nessun altro. Lasciate che gli altri muoiano di fame; ma per l’amor del cielo pensate a Giovanni Jones!»
Non so se fu il linguaggio appassionato o il carattere spiacevole di quella scritta che mi fece provar l’impressione di essere un estraneo nella mia patria. Uomini disgraziati, avrei voluto gridare, che siete condannati a mendicare l’uno con l’altro, dal più potente al più umile, perchè non volete imparare ad aiutarvi reciprocamente? Questa spaventevole Babilonia di vergognosa lode a sè stessi e di scambievole denigramento, questo grido assordante di millanteria e di esaltazione personale, questo sorprendente sistema di svergognata pitoccheria, che erano mai se non il bisogno di una società nella quale l’occasione di essere utile al mondo si cercava lottando, invece di considerarla come lo scopo dell’organizzazione sociale!
Entrai nella via Washington ed andai nel punto più frequentato di essa; mi vi fermai e risi forte, scandalizzando i passanti; non potei trattenermi e, quand’anche ci fosse andata di mezzo la mia vita, non sarei riuscito a contenere l’ilarità suscitata in me, alla vista dell’infinità di negozi aperti ai due lati della strada, e fin dove giungeva la mia vista; ed a rendere lo spettacolo più ridicolo, questi negozi eran tutti dello stesso genere, e vi si vendevano oggetti i quali, a seconda del mio sogno, avrebbero potuto esser forniti da un solo magazzino ove il compratore, senza tanta perdita di tempo, avrebbe trovato tutto quanto gli occorreva. Ivi, il lavoro di divisione avrebbe concorso ben poco ad aumentare il prezzo della merce; il compratore non avrebbe pagato altro che le spese di divisione. Qui invece la divisione ed il maneggio della mercanzia accresceva il prezzo di un quarto, di un terzo, della metà ed anche di più. Tutti quegl’impieghi dovevano esser pagati, l’affitto, il personale d’ispezione, la legione di venditori, le migliaia di computisti, spedizionieri e servitori, con tutto quell’apparato di annunzi vengono fatti pagare dall’acquirente. Che grandiosa istituzione per render miserabile la Nazione!
Erano essi uomini seri o fanciulli costoro che facevano simili affari? Era mai possibile che uomini ragionevoli non si accorgessero di quella dissipazione? Mangiando con un cucchiaio che lascia cadere metà del proprio contenuto, dal piatto alla bocca, non si corre il rischio di aver fame levandosi da tavola?
Ero già passato più di mille volte dalla via Washington ed avevo osservato le abitudini di quei mercanti; pure, mai come allora, la mia curiosità era stata tanto eccitata. Provavo stupore alla vista delle vetrine e dei negozi pieni di stoffe, artisticamente disposte, allo scopo di attirare lo sguardo. Vedevo molte signore fermarsi ad ammirare, mentre il proprietario del negozio gioiva; entrai ed osservai che l’ispettore sorvegliava la vendita, invigilava i commessi incitandoli a fare il proprio dovere, spingendo i clienti a comperare ciò che loro non era necessario. Talvolta perdeva il filo e mi smarrivo per un momento; perchè darsi tanto fastidio onde costringere la gente ad acquistare?
Ciò non aveva certamente nulla da fare col vero commercio, che consiste nel vendere a chi ha bisogno di comperare; era una vera dissipazione questo costringere la gente a comprar cose inutili che forse sarebbero state utili ad altri. E, certo che ciò era un danno per la nazione, a che pensavano dunque tutti quei negozianti?
Allora mi ricordai che la loro attività non aveva nulla di comune con quella dei distributori dei negozi della Boston del mio sogno. Essi non servivano l’interesse pubblico; ma il loro interesse personale, e purchè potessero aumentare il proprio patrimonio, poco a loro importava che da tale procedere derivasse o no il benessere pubblico, perchè la merce era di loro proprietà, e quanto più ne vendevano, tanto maggiore era il guadagno. Più la gente spendeva, acquistando oggetti inutili, più era soddisfatto il venditore, e il vero scopo dei 10.000 negozi di Boston, era di promuovere lo scialacquo.
Questi commercianti ed i loro commessi non erano però più cattivi degli altri abitanti di Boston: dovevano guadagnarsi di che vivere con le loro famiglie, e dove mai avrebbero trovato un lavoro che non li costringesse ad anteporre il proprio interesse a quello degli altri? Non si poteva affatto pretendere che morissero di fame, aspettando che le cose si ordinassero come nel mio sogno, in modo cioè che l’interesse individuale e quello di tutta la nazione, fossero identici. Ma, Dio buono, c’era forse da meravigliarsi, se, con un tal sistema, la città aveva un aspetto miserabile e la gente era mal vestita ed affamata!
Subito dopo mi recai nella Boston meridionale, il centro fabbricante; ero andato spessissimo in questa parte della città; ma ora soltanto mi venne fatto d’osservarla realmente bene. Ero sempre andato altero delle 4000 fabbriche indipendenti, possedute dalla città di Boston; ma ora, in mezzo a quella massa indipendente, riconobbi il segreto per cui il prodotto totale della loro industria, era tanto minimo.
La via Washington m’era parsa una casa di matti, ma questa parte fece a me un effetto ancor più triste, poichè la produzione è funzione ben più importante che la divisione, e queste 4000 fabbriche, non solo non lavoravano concordemente, ciò che costituiva già un immenso svantaggio; ma cercavano di nuocersi l’una con l’altra, pregando la notte per la rovina del vicino e lavorando di giorno a sventarne i progetti.
Il frastuono e lo strepito delle ruote e dei martelli, non faceva pensare ad una industria pacifica; ma bensì all’urto di spade nemiche; ognuno di quegli opifici, sembrava un forte i cui cannoni fossero puntati sull’opificio vicino, che il corpo dei lavoratori avrebbe volentieri minato.
In ognuno di questi forti era mantenuto l’ordine industriale più rigido, e i singoli gruppi agivano sotto il comando di una autorità centrale.
Perchè mai non si vuol riconoscere la necessità di adottare un tal sistema per organizzare l’industria nazionale? se la mancanza di una tale organizzazione, pregiudica il lavoro di un solo opificio, quanto maggiormente non farà danno a quello di tutti i rami industriali della Nazione!
Come si troverebbe ridicolo un esercito nel quale non vi fossero nè compagnie, nè battaglioni, nè reggimenti, nè brigate, nè divisioni o corpi d’armata: nel quale non vi fosse unità organizzata maggiore della truppa sotto gli ordini di un caporale, ed ove non vi fossero ufficiali superiori ai caporali, dotati tutti della stessa autorità!
Eppure le fabbriche di Boston, al secolo XIX, somigliano appunto ad un esercito di quattromila truppe differenti, condotte da quattromila caporali, indipendenti l’uno dall’altro, ed aventi ognuno un piano di campagna diverso.
Qua e là, si vedevano piccoli gruppi di uomini disoccupati; alcuni perchè non poterono trovar lavoro, altri perchè non si volle dar loro il prezzo che ad essi pareva ragionevole. Parlai con uno di costoro, che mi narrò i suoi fastidi, e potei dargli ben poca consolazione; gli dissi solo: «Vi compiango; ricevete certamente una mercede assai meschina, eppure non mi meraviglio che fabbriche dirette così bene come le vostre, non siano in caso di pagarvi meglio, ma piuttosto mi meraviglia che esse possano darvi anche quel poco che vi danno».
Tornai indietro, e, alle tre, mi trovai nella via principale; osservai con stupore le banche, gli uffici di cambio e tutti gli istituti di credito, dei quali non v’era traccia nel mio sogno. Affaristi, uomini di fiducia e fattorini, entravano ed uscivano dalle banche, le quali non dovevano rimanere aperte che ancora pochi minuti.
Mi stava dirimpetto la banca che era incaricata dei miei affari; attraversai la strada, vi entrai, e mi misi in un canto per osservare tutto quell’esercito d’impiegati che maneggiavano il danaro ed i depositanti che aspettavano ritti innanzi agli sportelli. Un vecchio signore, mio conoscente, mi passò vicino, e vedendomi così attento, si fermò e mi disse: «Spettacolo interessante, nevvero signor West? Un macchinismo meraviglioso; io stesso la penso così; accadde anche a me di fermarmi qui, come voi, e di guardare: è tutto un poema, e si può proprio chiamarlo così. Non avete mai pensato che la banca è il cuore della vita commerciale? Da essa va e viene, in un continuo flusso e riflusso, il sangue vivificatore; oggi vi entra a fiotti, e domani se ne va via». E il mio interlocutore, pieno di gretto orgoglio, si allontanò sorridendo.
Ieri ancora avrei giustificato quel sorriso, ma poichè avevo visitato un mondo incomparabilmente più ricco, in cui il denaro era sconosciuto e considerato quindi inutile, esclamai:
«Ah! povero vecchio banchiere col suo poema! Egli ha confuso il battito di una piaga col palpito del cuore. Ciò che egli chiama un meccanismo amichevole, altro non è che un’istituzione incompleta che cerca di rimediare ad un difetto inutile, una gruccia massiccia, data ad uno che si sia storpiato da sè».
Dopo la chiusura delle banche, andai errando senza scopo, per due ore, nel quartiere commerciale della città; quindi mi sedetti sopra una panca, in una piazza pubblica. Mi interessava l’osservare la massa dei passanti: da ieri i miei concittadini mi erano divenuti tanto estranei, che mi pareva di avere dinanzi a me la popolazione di una città sconosciuta. Avevo vissuto trent’anni in quel centro e non mi era mai occorso di vedere, come ora, quanto essi avessero l’aria di essere infastiditi, tanto i ricchi come i poveri, gli scienziati quanto gl’ignoranti. E v’era una buona ragione per ciò, poichè vedevo ora una cosa che non avevo mai osservato prima; ognuno di essi era seguito dallo spettro dell’incertezza, che gli susurrava all’orecchio: «Continua a lavorare, alzati all’alba e coricati a notte inoltrata, ruba con abilità e servi fedelmente, non giungerai mai a sapere che cosa sia la sicurezza. Puoi esser ricco oggi e povero domani; non lasciar tanta fortuna ai tuoi figli, perchè chi ti dice che tuo figlio non divenga un giorno il servo de’ tuoi servi e che tua figlia non sia costretta a vendersi per un pezzo di pane?»
Un passante mi diede un foglietto sul quale erano accennati i vantaggi di un nuovo progetto di assicurazione sulla vita; ciò mi fece rammentare che un tal progetto, quantunque riconoscesse il bisogno universale, non faceva che tassare uomini e donne, offrendo loro un’apparente protezione contro l’incertezza, in tal modo i benestanti potevano comperare la dubbiosa sicurezza che, dopo la loro morte, i loro cari non sarebbero stati calpestati; ma questa era tutta la garanzia ed esisteva soltanto per chi poteva pagarla bene.
Ma come potevano mai gli abitanti di questo infelice paese, in cui ognuno lottava col prossimo, avere un’idea della vera assicurazione sulla vita, come l’intendevano gli uomini del mio sogno, nel quale ogni individuo era protetto contro i bisogni?
Poco dopo mi trovai di nuovo sulla scalinata di un edifizio della via Trémont ed osservai un reggimento di soldati che erano passati in rivista. Fu questo il primo spettacolo che mi ispirò pensieri non tanto tristi; qui vedevo finalmente l’ordine e la ragione; vedevo un esempio di ciò che può fare un’unione ben intesa. Era mai possibile che questa rivista non foss’altro che un semplice spettacolo per tutta quella gente che la osservava con volto raggiante?
Non si accorgevano essi che era l’accordo perfetto dei movimenti, l’organizzazione sotto un controllo, che faceva di quegli uomini una macchina temibile la quale sarebbe stata capace di vincere una massa di popolo dieci volte maggiore di essa? E se si rendevano conto di ciò, perchè non paragonavano il modo intelligente con cui la Nazione conduceva la guerra, al modo stolido con cui essi dirigevano il lavoro? Non dovevano essi chiedersi da quanto mai il fare la guerra agli uomini era divenuta cosa più importante, che il nutrirli e vestirli, e se un esercito ben ordinato meritava di esser considerato atto a combattere, quando tutto il lavoro era lasciato alla plebe?
Cominciava ad annottare e le strade eran piene di operai che tornavano dal lavoro, la corrente mi portò in una via sporca e miserabile, quali si trovano soltanto nel distretto di South-Cove.
Avevo visto altrove la pazza dissipazione del lavoro umano, e qui avevo sott’occhio la miseria, derivante da quella dissipazione: dalle porte e dalle finestre di quelle abitazioni usciva un’aria mefitica; passando scorgevo pallidi lattanti che aspiravano quelle soffocanti esalazioni; donne dal viso smunto dal bisogno, che non avevano più di femminile che la debolezza, e fanciulle che s’affacciavano alla finestra con fare svergognato. Fanciulli selvaggi e mezzo nudi si abbaruffavano nei cortili, gridando e bestemmiando e mi facevano pensare a quelle mute di cani affamati che percorrono le vie di una città orientale.
Tutto ciò non era nuovo per me; già altre volte avevo percorso questa parte della città ed avevo osservato con disgusto quello spettacolo che mi aveva sempre fatto pensare, con una sorpresa filosofica, alla tenacità con cui gli uomini si attengono alla vita. Ma ora dopo la visione di un altro secolo, la benda era caduta e vedevo non solo le pazzie economiche del secolo; ma anche il suo orrore morale. Non consideravo più gli abitanti di questo inferno con una curiosità spietata, quasi come se essi non fossero stati creature umane; ma scorgevo in essi i miei fratelli, le mie sorelle, i miei genitori, i miei figli, la carne della mia carne, il sangue del mio sangue. La miseria umana che mi circondava, non offendeva più soltanto i miei sensi; ma mi feriva il cuore e non potevo rattenere i miei sospiri ed il mio pianto; non la vedevo soltanto, mi pareva di sentirla anch’io.
Guardandomi intorno, scorgevo tanti morti; ogni corpo mi pareva una tomba; su di ogni fronte era scritto chiaramente: «qui giace un’anima morta».
Mentre osservava, rabbrividendo, tutti quei morti, mi colse una strana illusione dei sensi: vedevo quei visi animarsi e prender l’aspetto che realmente avrebbero dovuto avere, se l’anima e lo spirito fossero stati vivi; leggendo in quegli occhi il rimprovero, mi resi conto chiaramente di tutta la loro miseria; provai dolore e pentimento perchè anch’io avevo permesso che le cose ne venissero a quel punto. Perciò vedevo sui miei abiti il sangue dei miei fratelli, e quel sangue gridava vendetta: ogni pietra di quel suolo fumante, ogni sasso di quelle case infette, aveva preso una voce per gridarmi mentre fuggivo: «che hai tu fatto di tuo fratello Abele?»
Non mi ricordo null’altro, se non che mi trovai sulle scale della splendida casa abitata dalla mia fidanzata, nella Common wealth avenue. Nell’agitazione di quel giorno, l’avevo quasi dimenticata, ora però i miei passi, seguendo un naturale impulso, s’erano diretti alla sua abitazione. Mi dissero che la famiglia era a tavola, ma che mi pregavano d’entrare; v’eran pure molti invitati, persone tutte a me note; la mensa era coperta d’argento e di porcellane, e le signore elegantemente vestite portavano gioielli degni di regine; tutto era di un lusso eccessivo. La compagnia era di buonissimo umore ed ognuno scherzava e rideva.
Mi parve, dopo il triste spettacolo che mi aveva fatto piangere e mi aveva reso così disperato, di vedere, come in un quadro, una lieta società di schiamazzatori. Mi sedetti e stetti muto, finchè Editta incominciò a motteggiarmi per il mio silenzio, chiedendomi che cosa avessi. Gli altri si unirono a lei, sicchè fui preso di mira da mille scherzi e motti pungenti. Dove ero stato e che cosa mai poteva avermi reso sì triste?
«Sono stato sul Golgota,» risposi finalmente. «Ho veduto l’umanità appesa alla croce.
Non sapete voi su quali miserie e su quali dolori risplenda il sole poichè siete capaci di pensare e parlare di altro? Non sapete che davanti alle vostre porte vi è un gran numero di uomini e donne, carne della vostra carne, che menano una vita di lotte continue, dalla culla alla tomba? Ascoltate! essi son tanto vicini che, se cessate di ridere, potrete udire le loro voci lamentevoli, il pianto doloroso dei loro bimbi che succhiano la miseria col latte materno, le rauche imprecazioni degli uomini spietati, che la povertà ha quasi resi simili a bestie, le treccherie di un’esercito di donne costrette a vendersi per aver pane. Con che cosa avete turate le vostre orecchie, che non sentite quelle grida lamentevoli? Io almeno non sento altro».
Tutti tacquero; la compassione da me provata aveva dato passione alle mie parole, ma quando osservai i presenti, vidi che i loro visi, anzichè esser commossi, avevano una espressione di fredda e dura sorpresa, mista, sul volto di Editta, ad un certo dispiacere e su quello di suo padre, mista a collera. Le signore si scambiavano sguardi sdegnati, ed un signore, preso l’occhialetto, si mise ad osservarmi con una specie di curiosità scientifica. Quando vidi che ciò che a me pareva tanto insopportabile, non li commuoveva affatto e che le mie parole, sgorgate dal cuore, avevano destato il loro sdegno contro di me, fui dapprima stupefatto; ma poi mi colse il disgusto e lo sconforto.
Come sperare di sollevare tanta miseria, se uomini ragionevoli e teneri donne, non ne provavano compassione! Allora pensai che forse non avevo parlato convenientemente; avevo certamente mal patrocinata la mia causa; essi eran stizziti forse perchè credevano che io avessi voluto biasimarli e farli responsabili di ciò che avveniva, mentre Dio sà se pensavo ad altro che alla crudeltà del fatto.
Dominai la mia passione e cercai di parlare logicamente e tranquillamente, per cancellare quella brutta impressione. Dissi loro che non avevo inteso incolparli della miseria regnante; era vero però che il loro superfluo avrebbe potuto calmare molte sofferenze.
Le carni costose, i vini scelti, le masserizie preziose, i giojelli risplendenti, avrebbero bastato ad abbellire molte vite; essi quindi dividevano in parte la colpa di coloro che scialacquavano, mentre v’era dovunque tanta miseria. Però il superfluo dei ricchi non sarebbe bastato, bisognerebbe ripartire ugualmente; naturalmente i ricchi non avrebbero più che una crosta di pane in comune coi loro fratelli, ma essa sarebbe addolcita dall’amor fraterno.
Era la pazzia degli uomini e non la loro durezza di cuore che bisognava incolpare della miseria del mondo; non era il delitto di un individuo o di una classe, che rendeva tutta la stirpe così infelice; ma un errore terribile, una colpa immensa. Accennai poscia che i quattro quinti della forza umana, van perduti nelle guerre, derivanti dal difetto di organizzazione e di concordia negli operai.
Per spiegare poi loro più chiaramente la cosa, citai l’esempio di un paese, il cui suolo sterile, non frutterebbe che in grazia di una provvida irrigazione: feci loro osservare come, in un caso simile, spetti al governo il dovere di sorvegliare che quell’acqua necessaria, non venga trattenuta dall’egoismo degli uomini, ciò che potrebbe dare origine ad una carestia; a tal uopo l’uso di essa dovrebbe essere severamente regolato e non sarebbe permesso di lasciarla scorrere inutilmente.
La forza lavoratrice degli uomini, aggiunsi, altro non è che questo torrente fertilizzante, che rende abitabile la terra; per renderlo utile però, occorre un sistema regolatore che disponga giustamente di ogni goccia.
Ma quanto la pratica attuale era lontana da quel sistema! Ognuno adoperava questo prezioso fluido a seconda dei propri desideri, spinto soltanto dal pensiero di curare il proprio raccolto e di guastare quello del vicino, per poter vendere con maggior vantaggio il suo. Ora per avidità, ora per malvagità, si inondano o si prosciugano campi, consumando così inutilmente la metà dell’acqua; in un paese simile, pochi soltanto giungono a procacciarsi il lusso, mentre la massa ha per retaggio la miseria, ed i deboli e gl’ignoranti sono schiacciati da un eterno bisogno.
Ma i visi che mi circondavano, non espressero, come mi aspettavo, sentimenti simili ai miei; essi si fecero invece più oscuri, più irritati e più sprezzevoli. Invece dell’entusiasmo che mi aspettavo, le signore mostravano ribrezzo e paura, mentre gli uomini m’interrompevano con esclamazioni di biasimo e di disprezzo.
«Pazzo! Fanatico! Nemico della società!» tali erano i nomi che mi davano e colui che mi aveva prima guardato con l’occhialetto, gridò:
«Egli dice che non avremmo più poveri, ah, ah!»
«Cacciate fuori quell’uomo!» esclamò il padre della mia fidanzata e tutti si alzarono precipitandosi verso di me.
Mi pareva che il mio cuore dovesse spezzarsi, tanto era grande il mio dolore nel vedere che, tutto ciò che era per me così importante e chiaro, sembrasse loro insignificante, e nel pensare che ero impotente a farli cambiar d’idea. Il mio cuore era stato tanto commosso, che avevo creduto di poter sciogliere una massa di ghiaccio; non provavo animosità contro i miei oppressori; ma li compiangevo.
Benchè fossi disperato, non riuscivo a sottomettermi, i miei occhi erano molli di pianto, ansavo, sospiravo, gemevo ed in quel mentre... mi trovai seduto sul mio letto, nella mia camera in casa del dottor Leete ed il sole entrava a ondate dalla finestra aperta. Sbuffavo, il mio viso era inondato di lagrime e mi sentivo tutto tremante.
Riconoscendo che il mio ritorno nel secolo XIX era stato un sogno e che vivevo ora realmente nel 20°, provai ciò che deve sentire un forzato evaso il quale, dopo aver sognato di essere stato ripreso e nuovamente rinchiuso nella sua cella oscura, si sveglia e scorge il cielo sul suo capo.
Le crudeli immagini da me vedute nel mio sogno e delle quali la mia vita passata era pur stata testimone, erano, grazie al cielo, assai lontane; da molto tempo già, oppressi ed oppressori, profeti e dileggiatori eran ridotti in polvere; da più generazioni già, i ricchi ed i poveri non eran che parole dimenticate.
Ma in quel momento, mentre pensavo con riconoscenza infinita alla grande redenzione del mondo ed al privilegio a me concesso di poterla vedere, mi ferì come un coltello acuto un sentimento di vergogna, di pentimento e di rimprovero, che mi fece chinare il capo e desiderar quasi di esser morto coi miei contemporanei, giacchè anch’io era stato un uomo di quei tempi.
Che avevo io fatto per promuovere il riscatto di cui ora godevo? Che avevo io fatto per porre un termine alla crudeltà di quei tempi? Anch’io ero stato indifferente alla miseria dei miei fratelli ed avevo amato il caos e la notte, quanto tutti i miei contemporanei. Avevo piuttosto influito ad impedire questa redenzione che a promuoverla; che diritto dunque avevo io di godere di una liberazione che avevo schernita al suo sorgere?
«Sarebbe assai meglio per te,» diceva una voce in me, «che questo sogno fosse realtà e la realtà sogno; meglio che tu avessi parlato, ad una generazione sprezzantemente altera, in favore dell’umanità infelice, anzichè dissetarti ora ad una sorgente che non hai scavata e sfamarti col frutto di piante colle quali lapidasti il coltivatore;» e la mia mente rispondeva:
«Sarebbe meglio invero.»
Quando rialzai il capo, vidi Editta che, fresca come l’aurora, era discesa in giardino per coglier fiori; mi affrettai di andarla a raggiungere. Inginocchiato a lei dinanzi, colla fronte nella polvere, le confessai, piangendo, quanto poco meritavo di respirar l’aria di quel secolo d’oro e quanto era indegno di poter stringere al mio cuore il suo fiore più bello.
«Felice colui che, in un caso tanto disperato, trova, come me, un giudice tanto clemente!»
FINE.