L'avvenire!?/Capitolo ventiseesimo
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CAPITOLO VENTISEESIMO
Se a qualcuno è permesso sbagliarsi nel computare i giorni della settimana, credo che le circostanze mi faranno perdonare questo errore. Infatti, se mi avessero detto che il metodo adottato per regolare il tempo era cambiato e che la settimana contava ora cinque, dieci o quindici giorni invece di sette, non mi sarei stupito dopo quanto avevo visto ed udito del 20° secolo. La mattina che seguì la conversazione citata nel capitolo precedente, sentii per la prima volta a parlare dei giorni della settimana. Il dottor Leete mi chiese se desideravo sentire una predica.
«È dunque domenica oggi?» esclamai.
«Sì,» rispose egli. «È venerdì dell’altra settimana che facemmo la felice scoperta della camera sepellita; scoperta alla quale dobbiamo di godere della vostra compagnia questa mattina. Sabato sera verso mezzanotte vi destaste per la prima volta e la domenica, dopo mezzogiorno, vi svegliaste una seconda volta, interamente rimesso in forze».
«Sicchè avete ancora delle domeniche e delle prediche?» dissi. «A noi era stato profetizzato che esse avrebbero cessato presto d’esistere; son curioso di sapere in quali rapporti stanno la chiesa e la società. Suppongo che avrete una specie di chiesa nazionale della quale i preti sono gl’impiegati».
Il dottor Leete si mise a ridere e la signora Leete ed Editta ebbero l’aria di prendersi giuoco della mia domanda.
«Ma, signor West,» disse Editta, «voi ci credete assai strani; già al secolo XIX avevate abolito le istituzioni religiose nazionali e volete che noi siamo tornati indietro?»
«Ma come mai una chiesa libera ed una professione ecclesiastica non ufficiale, possono andare d’accordo col diritto di proprietà nazionale su tutti gli edifizi e col servizio industriale che vien richiesto a tutti gli uomini?» chiesi.
«Gli usi religiosi del popolo si sono naturalmente assai cambiati in un secolo,» replicò il dottor Leete; «ma anche ammettendo che ciò non fosse, il nostro sistema sociale si adatterebbe benissimo ad esse. Contro garanzia dell’interesse, la nazione impresta ad una o più persone gli edifizi, di cui essi rimangono pigionali fin tanto che pagano. Se poi un certo numero di persone ha bisogno, per uno scopo privato, fuori del dominio nazionale, dei servizi di un individuo, esse possono benissimo procurarselo, naturalmente purchè l’individuo consenta; ed allora fanno come facciamo noi coi nostri redattori, danno alla nazione un compenso per la perdita di servizio da essa subita. Questo compenso corrisponde al salario che, ai vostri tempi, davate all’individuo; e un tale principio lascia ad ognuno l’iniziativa di fare tutte quelle cose che non sono sottoposte al controllo nazionale. Per quanto concerne la predica d’oggi, potete andare in chiesa od ascoltarla stando a casa».
«Come mai posso sentir a predicare, se resto a casa».
«Semplicemente accompagnandoci, all’ora fissata, nella sala di musica e prendendovi una comoda poltrona. Taluni preferiscono ancora le prediche in chiesa; ma per lo più esse non sono più pubbliche ma lette in locali acustici che comunicano per mezzo di fili con le case degli abbonati. Se preferite andare in chiesa, vi accompagnerò ben volentieri; ma credo che non sentirete in nessun posto una predica migliore di questa. Vedo dal giornale che è il signor Barton che predica oggi ed egli non lo fa che per mezzo del telefono e spesso per 150.000 uditori».
«Se anche non mi vi spingessero altre ragioni, soltanto la novità del caso, cioè l’ascoltare in tal modo una predica basterebbe ad indurmi a far parte dell’uditorio del signor Barton,» dissi. Alcune ore dopo, siccome ero nella biblioteca e leggevo, Editta venne a cercarmi e mi condusse nella sala di musica ove già ci aspettavano il dottore e la signora Leete. Ci eravamo appena seduti, che il campanello risuonò e dopo pochi minuti udimmo la voce di un uomo; essa non era più forte di una voce ordinaria, sicchè pareva che provenisse da una persona invisibile nella camera. Ed ecco quanto udii:
La predica del signor Barton.
«Fin dalla scorsa settimana abbiamo fra noi un rappresentante del secolo XIX, dell’epoca dei vostri antenati; sarebbe quindi singolare se un caso tanto straordinario non occupasse tutti i nostri pensieri. Molti si saranno forse sentiti spinti a rappresentarsi la società del secolo scorso e ad immaginarsi la vita d’allora, sicchè credo, offrendovi ora di fare con voi alcune osservazioni a questo proposito, di rispondere al vostro desiderio».
A questo punto Editta mormorò all’orecchio di suo padre, che le rispose con un cenno affermativo e si rivolse a me dicendomi:
«Signor West, Editta teme che non abbiate da rimaner imbarazzato nell’udire le ragioni che il signor Barton sta per esporre; se così è, possiamo ascoltare un’altra predica. Potremo metterci in comunicazione con la sala ove parla il signor Sweetser e posso promettervi una conferenza interessante».
«No, no,» dissi; «vi assicuro che preferisco sentire quanto dirà il signor Barton».
«Come credete,» rispose il mio ospite.
Mentre suo padre parlava con me, Editta aveva toccato una vite e la voce del signor Barton aveva cessato subito di risuonare; la premette allora nuovamente e si riudì quella voce simpatica e seria che mi aveva già tanto impressionato.
«Mi è forza ammettere che questo sguardo indietro ha avuto, su di noi tutti, un effetto simile: quello cioè di farci parere ancora più sorprendente il grandioso cambiamento che un breve secolo ha arrecato nella situazione morale e materiale dell’umanità.
Però, per quanto concerne il contrasto fra la povertà della nazione e del mondo al secolo XIX, e la loro ricchezza attuale, esso non mi par maggiore di quello che esistette, per es. fra la miseria di questo paese nel periodo della colonizzazione al secolo XVII e la sua ricchezza, relativamente tanto considerevole, sul finire del secolo XIX; e nemmeno mi par maggiore di quello che presenta l’Inghilterra del tempo di Guglielmo il Conquistatore, paragonata all’Inghilterra sotto il regno di Vittoria. Quantunque la fortuna accumulata da una nazione non permettesse di dare un giudizio preciso dell’abilità di un popolo, vi sono certi esempi, con l’aiuto dei quali si può giungere a stabilire alcuni paralleli circa il lato puramente materiale del contrasto esistente fra il secolo XIX ed il XX.
Considerando poi il lato morale del contrasto, ci troviamo in presenza di un fenomeno del quale, per quanto ci affatichiamo a guardare indietro, non riusciamo a trovare esempi nella storia. Si potrebbe perdonare a colui che esclamasse: «Ciò è certamente un miracolo!» Ed esaminandolo più precisamente, siamo costretti a persuaderci che esso è veramente un miracolo. Per spiegare questo fatto, non è necessario premettere una trasformazione morale dell’umanità, derivante dall’annientamento dei cattivi e dalla conservazione dei buoni; esso trova la sua spiegazione, più semplice e naturale, prodotta nella natura umana in seguito ad un cambiamento in tutto quanto la circondava; esso indica che una forma di società la quale si basava falsamente sull’egoismo, ha ora cessato di appoggiarsi sul lato antisociale e brutale della natura umana, per fondarsi soltanto sul disinteresse vero e ragionevole e sull’istinto sociale e nobile degli uomini.
Amici miei, se desideraste vedere uomini simili a quelli del secolo XIX, basterebbe che rimetteste in uso il vecchio sistema sociale ed industriale, il quale insegnava a cercare nel proprio simile una preda naturale, ed a trovare il proprio guadagno nelle perdite degli altri. Son certo che voi pensate che nessun bisogno, foss’anche il più terribile, potrebbe farvi risolvere a togliere agli altri ciò che ad essi è necessario; ma supponiamo che voi non foste soli responsabili della vostra vita; so che molti, se si fosse trattato di loro soli, sarebbero periti piuttosto che togliere ad altri il pane; ma essi non potevano far ciò. Vi erano altre vite care che da essi dipendevano; gli uomini amavano le loro mogli allora, come adesso. Dio solo sa perchè essi ardissero aver figli, ma erano padri e dovevano pensare a nutrire ed a vestire quei piccoli esseri che loro erano tanto cari. Le creature più mansuete diventano feroci quando devono difendere i propri figli ed in quella società di lupi, il sentimento più nobile dava origine alla lotta più tremenda.
Per mantenere quelli che da lui dipendevano, l’uomo era costretto a combattere, ad ingannare, a respingere, a soverchiare, a comprare pagando meno del valore per guadagnare rivendendo e far andar male gli affari del proprio vicino, a costringere gli altri a comprar quello che loro non occorreva, ed a vendere ciò che avrebbe dovuto conservare, ad opprimere coloro che lavoravano per lui, ad importunare i propri debitori e ad ingannare i creditori. Un uomo che avesse cercato attivamente un modo di provvedere al sostentamento suo e della sua famiglia, era quasi sempre costretto, per trovarlo, a soverchiare un rivale più debole, togliendogli il pane di bocca; perfino i servi della religione dovevano sottostare a questa crudele necessità. Essi premunivano i loro parrocchiani contro l’amore al danaro, ed eran costretti, per riguardi alla propria famiglia, a profittare dei vantaggi pecuniari del loro impiego.
Poveretti! Era invece assai difficile il loro compito; essi dovevano predicare una generosità ed un disinteresse, i quali, visto lo stato del mondo, e, messi in uso, avrebbero resi miserabili quelli che li avessero praticati; dovevano stabilire leggi che gli uomini eran costretti ad infrangere, per poter sovvenire al proprio sostentamento. Scorgendo l’inumanità della società, questi degni uomini deploravano amaramente la corruzione del genere umano; ma neppure un angelo avrebbe potuto resistere e non essere corrotto da una scuola tanto diabolica.
Oh, amici miei! credetelo; non ora soltanto, in questo secolo felice, l’umanità dà prova della sua innata divinità; anche allora, in quei tristi giorni in cui la grazia era pazzia, perfino la lotta per l’esistenza non riesciva a bandire dalla terra la generosità e la bontà. Si può benissimo giungere a spiegare la disperazione con cui uomini e donne, i quali, in altre condizioni, avrebbero potuto essere buonissimi, lottavano e si contendevano il possesso dell’oro, riflettendo a ciò che allora significava il non averne ed a ciò che era la miseria in quel tempo. Per il corpo era la fame e la sete, la sofferenza, l’abbandono nella malattia ed il lavoro ingrato e crudele nei giorni di salute; per la natura morale era l’oppressione, il disprezzo, l’obbligo di sopportare ogni umiliazione; la perdita dell’innocenza infantile, della grazia, femminile, della dignità virile; per la mente eran le tenebre dell’ignoranza, e l’annientamento di tutte quelle qualità che ci distinguono dagli animali, la riduzione della vita ad un continuo lavoro materiale.
O amici miei, se voi ed i vostri figli foste costretti a scegliere fra questa sorte e l’accumulazione di tesori, per quanto tempo sareste capaci di resistere, prima di accettare il punto di vista dei vostri antenati?
Due o tre secoli fa accadde nelle Indie un fatto talmente barbaro che, quantunque non fossero molte le vittime che dovettero soccombere, esso verrà eternamente ricordato per la straordinaria crudeltà con cui fu compiuto. Alcuni prigionieri inglesi furono rinchiusi in uno spazio contenente una quantità d’aria respirabile, appena sufficiente alla decima parte di essi. Quegli sventurati erano uomini valorosi, fedeli compagni di servizio; eppure, non appena si furono resi conto del pericolo di soffocazione che li minacciava, dimenticarono tutto e lottarono furiosamente, gli uni contro gli altri, per poter giungere ad avvicinarsi alle strette aperture, dalle quali entrava l’aria pura. Fu una lotta nella quale gli uomini diventarono bestie ed il racconto, che i pochi sopravissuti, fecero del loro spavento, impressionò talmente i nostri antenati che, anche un secolo più tardi, questo fatto veniva citato, nella letteratura, come esempio tipico di ciò che è capace di fare un uomo che si trovi nel bisogno. I vostri antenati certamente non pensavano che il «buco nero di Calcutta» con la sua calca di uomini furenti che si calpestavano e si sbranavano nella lotta, per avvicinarsi agli spiragli, ci avrebbe servito come immagine della loro società. Mancava però qualche cosa per rendere perfetta quest’immagine: nel «buco nero» non v’eran donne nè fanciulli, vegliardi nè storpi; gl’infelici eran tutti uomini che molto potevano sopportare.
Questo stato di cose si mantenne sino alla fine del secolo XIX e noi che consideriamo le nostre innovazioni come cose già vecchie, perchè le abbiamo ereditate dai nostri genitori, possiamo chiederci con meraviglia, come mai un tal cambiamento siasi operato tanto rapidamente. Questa meraviglia però diminuirà, se riflettiamo all’abilità degli uomini dell’ultimo quarto del secolo scorso. Quantunque non si possa dire che esistesse nella società d’allora un’istruzione universale come noi l’intendiamo, è certo che, paragonata con le generazioni precedenti, quella fosse assai intelligente. La prima inevitabile conseguenza di questo progresso, fu la scoperta dei difetti della società che erano più che mai appariscenti. Fu l’intelligenza delle masse che costituì la differenza, nello stesso modo che la luce rende visibile la sordidezza dei contorni, che sembravano sopportabili all’oscuro.
La caratteristica della letteratura di quel tempo, fu una gran compassione per i poveri e gl’infelici, un grido di lamento sdegnato, per l’impotenza della macchina sociale a sollevare la miseria. Da questi lamenti si vede che l’orrore morale di quanto li circondava, era riconosciuto almeno dagli uomini migliori di quel tempo e che la coscienza di questo male rendeva insopportabile la vita a quanti avevano cuore e sentimento.
Quantunque l’idea dell’unità reale della famiglia umana e la realizzazione di una fratellanza generale non venisse intesa come principio morale, erriamo negando che essi non avessero sentimenti a quelli corrispondenti. Potrei citarvi alcuni brani di scrittori di quel tempo, i quali vi dimostrerebbero che una tale idea era chiaramente intuita da taluni, mentre per la maggioranza essa era ancora indistinta. Oltre a ciò non dobbiamo neanche dimenticare che il secolo XIX aveva nome di cristiano e la circostanza che l’organizzazione industriale e commerciale della società aveva uno spirito anticristiano, deve aver dato a quelli che si dicevano cristiani, l’idea di fermarsi; ma ciò non era sufficiente.
Chiedendoci perchè, dopo che la maggioranza aveva sopportato lo scandalo delle istituzioni sociali esistenti, essi pure vi si adattarono od almeno si contentarono di lievi modificazioni, siamo condotti ad osservare un fatto notevole. Era ingenua credenza degli uomini migliori di quel tempo, che i soli elementi durevoli della natura umana, sui quali si potesse fondare un sistema sociale, fossero le sue inclinazioni più cattive, così era stato loro insegnato ed essi credevano che l’avidità e l’egoismo fossero i soli principi atti a mantenere gli uomini uniti e che tutte le società umane avrebbero cessato di esistere, quando fossero stati distrutti quei principi o diminuito il loro effetto. In una parola, essi credevano — e perfino quelli stessi che avrebbero pur voluto pensare altrimenti — assolutamente il contrario di quanto a noi sembra tanto chiaro; credevano cioè che le facoltà antisociali dell’uomo, anzichè le sociali, rappresentassero la forza di coesione della società. A loro pareva cosa ragionevole che gli uomini vivessero insieme, soltanto per pregiudicarsi e schiacciarsi l’uno con l’altro e che, una società avente tali aspirazioni, si mantenesse salda; mentre avrebbero dato poca speranza di vita a quella società, che avesse voluto basarsi sull’idea della cooperazione al bene universale. Pare un’assurdità il domandare che si creda che gli uomini abbiano realmente avuto tale convinzione; eppure è un fatto provato dalla storia che essa, non solo influenzò i nostri antenati; ma fu responsabile dell’indugio messo a trasformare il vecchio sistema. E pure questa ragione che spiega il pessimismo della letteratura dell’ultimo quarto del secolo XIX, il carattere malinconico della poesia e lo scherno che accompagnava sempre lo scherzo.
Benchè si comprendesse benissimo che la situazione del genere umano era insopportabile, non si aveva nessuna speranza di miglioramento; si credeva che l’umanità, sviluppandosi, fosse entrata in una via senza uscita.
Lo stato della mente umana, a quel tempo, è descritto stupendamente in alcuni trattati che si trovano tuttora nelle nostre biblioteche, in essi vediamo la ricerca penosa di argomenti atti a provare che, per quanto triste sia la vita dell’uomo, fatte le debite considerazioni, val meglio vivere che sacrificarsi. Disprezzandosi, finivano col disprezzare il loro Creatore, e v’era una decadenza generale nella fede religiosa.
Soltanto alcuni raggi pallidi e nebbiosi, velati dal dubbio e dal timore, rischiaravano il caos della terra. Ci sembra degna di compassione la pazzia degli uomini che dubitavano di Colui che aveva dato loro la vita e temevano la mano che li aveva creati; ma dobbiamo riflettere che fanciulli coraggiosi durante il giorno, sono spesso paurosi all’oscuro. Da allora s’è fatto giorno: è assai facile il credere in Dio, al secolo XX.
Non ho potuto accennare che brevemente e per quanto lo consentiva il carattere della mia conferenza, le cause che prepararono le menti umane al passaggio dal vecchio al nuovo sistema e le cause che spiegano il perduramento della disperazione. Il raggio di sole, che brillava dopo una notte così lunga ed oscura, dovette abbagliare. Dal momento che gli uomini si permisero di vedere che l’umanità potesse progredire illimitatamente, la reazione dev’essere stata rapidissima; son certo che non v’è nulla che possa uguagliare l’entusiasmo destato da questo nuovo sentimento. In questa occorrenza si deve avere sentito che non v’era alcun avvenimento storico che reggesse al paragone di quello. Non fu necessario sacrificare nessuna vittima, quantunque un fatto simile ne meritasse milioni e milioni; un semplice cambiamento di dinastia in un piccolo regno, costò spesso assai più vite che non la rivoluzione, che condusse finalmente il genere umano sulla retta via.
Chi vive nei nostri bei tempi non pensa nemmeno di desiderare un’altra sorte, eppure io ho spesso pensato che cederei volentieri la mia parte di giorni felici, per poter occupare un posto in quel tempestoso periodo di passaggio, in cui alcuni eroi spalancarono, agli sguardi di una stirpe senza speranze, le solide porte del futuro e le mostrarono, invece del muro che sbarrava il sentiero, una via di progresso rischiarata da luce abbagliante. O amici miei!, chi è che, avendo vissuto a quell’epoca, in cui la minima influenza era una leva al contatto della quale i secoli tremavano, non si chiamerebbe degno di godere di una parte di quest’era di gioia.
Voi conoscete la storia dell’ultima e grande rivoluzione nella quale non si sparse sangue. Gli uomini della nuova generazione smisero gli antichi costumi sociali e le loro barbare abitudini, introducendo un’ordine sociale ragionevole e degno dell’essere umano. Rinunciarono alle loro rapaci consuetudini e trovarono nel lavoro comune e nella fratellanza l’arte di farsi ricchi e felici.
Che cosa devo mangiare e bere e come devo vestirmi? Era questa una domanda ansiosa e continua che gli uomini rivolgevano sempre a sè stessi. Quando poi incominciarono a considerare questa domanda dal lato fraterno anzichè dal lato individuale, sparirono tutte le difficoltà.
Per la massa dell’umanità, il voler sciogliere il problema del sostentamento, attenendosi al punto di vista individuale, aveva recato la miseria e la schiavitù; ma non appena la nazione fu divenuta l’unico capitalista ed il solo padrone, non solo il benessere surrogò la miseria, ma sparve dalla terra ogni traccia di oppressione; la schiavitù sì spesso limitata, diventò impossibile. I mezzi per la vita non furono più impartiti alle donne dagli uomini, ai dipendenti dal principale, ai poveri dai ricchi; ma presi dai fondi universali ed egualmente ripartiti; gli uomini non poterono più servirsi dei loro simili come di strumenti utili al loro guadagno. Ormai, l’unico guadagno possibile era la stima; e nelle relazioni reciproche degli uomini, non entrò più per nulla l’usurpazione nè la sottomissione; per la prima volta dopo la creazione ognuno stava direttamente davanti a Dio.
Siccome l’abbondanza era assicurata a tutti, erano motivi inutili il timore della povertà e il desiderio del guadagno, mentre era cosa impossibile l’ottenere un possesso smisurato.
Non vi furon più nè mendicanti, nè bisognosi, l’uguaglianza tolse alla beneficenza ogni sua occupazione; i dieci comandamenti diventarono inutili in un mondo in cui non v’erano tentativi di furto, nessuna occasione di menzogna, nessun luogo per l’invidia, ove tutto era uguale e non c’era incitazione alla violenza, poichè gli uomini avevano perduto ogni potere di nuocersi vicendevolmente. Il vecchio sogno di libertà, eguaglianza e fratellanza, così spesso deriso dall’umanità, s’era avverato.
Nello stesso modo con cui prima il generoso, il giusto, il buono erano stati negletti, ora non fu concessa nessuna relazione col mondo al perverso, all’avido, all’egoista. Ora, che per poter vivere non c’era più bisogno di sviluppare le facoltà brutali dell’umana natura, e che le ricompense incoraggiate dall’egoismo erano state non solo abolite, ma si basavano sul disinteresse, si potè vedere ciò che fosse realmente la natura umana incorrotta. Tutte le inclinazioni perverse che avevano sin allora tanto danneggiato le buone, cessarono d’esistere e le qualità migliori ebbero un rigoglio improvviso che trasformò gli schernitori in panegiristi e spinse per la prima volta al mondo gli uomini a divinizzarsi. Si scoperse pure ciò che avevano sempre ricusato di credere i teologi ed i filosofi precedenti; si scoperse cioè che la natura umana è buona e non perversa, che gli uomini sono per natura generosi e non egoisti, pietosi e non crudeli, compassionevoli e non superbi, simili a Dio nelle loro aspirazioni. L’oppressione costante che la lotta per la vita aveva esercitato su generazioni numerose e che avrebbe corrotto anche gli angeli, non era riescita a cambiare essenzialmente la naturale nobiltà del genere umano e quando queste cause furono rimosse, esso ritornò nella sua posizione primitiva e normale, come un albero che fosse stato piegato.
Per rappresentarvi tutto ciò con una breve immagine, paragonerò l’umanità dei tempi andati, con un rosaio il quale era stato piantato in una palude ed era bagnato con acqua stagnante e nera; nel giorno respirava aria appestata, di notte trasaliva al contatto di rugiada velenosa. Molte generazioni di giardinieri si erano affaticati a farlo rivivere; ma non poterono mai ottenere che esso producesse più che un bottone mezzo aperto, nel cui centro stava un verme. Molti invero asserivano di non trattarsi di un rosaio, ma di un’erbaccia, la quale altro non meritava che di essere strappata e gettata al fuoco; la maggior parte dei giardinieri insisteva nel dire ch’esso apparteneva alla famiglia delle rosacee, ma che aveva una malattia incurabile la quale non permetteva ai bottoni di maturare e gli dava un aspetto così sofferente. Alcuni altri poi asserivano che la pianta era sana, e che, posta in un altro terreno, avrebbe potuto fiorire. Ma quelli non erano giardinieri dotti, e siccome furono accusati d’essere speculatori e sognatori, il popolo non volle badar loro.
Un celebre filosofo moralista, concedendo che quella pianta avrebbe prosperato in un altro centro, asserì che sarebbe stato per i bottoni una cultura migliore, se avessero imparato a fiorire in una palude, in più favorevoli condizioni. I bottoni sbocciati sarebbero stati naturalmente pochi, pallidi e inodori, ma avrebbero dato prova di possedere maggior forza morale che non quelli che si fossero aperti senza nessuna fatica in un giardino.
Fu fatta la volontà dei giardinieri dotti e dei moralisti: il rosaio rimase nella palude e continuò a ricevere lo stesso trattamento, si cercarono mille mezzi assai stimati per uccidere gli insetti nocivi e togliere la muffa. E così continuò per un pezzo. Talvolta v’era qualcuno che voleva intraprendere una nuova cura, ma v’era subito pronto qualcun altro che diceva che la pianta sembrava più che mai ammalata. Insomma non c’era mai un cambiamento notevole. Finalmente, siccome tutti si occupavano di questo rosaio, si ripetè la proposta di trapiantarlo, ciò che venne fatto. «Proveremo,» dicevano tutti, forse prospererà meglio altrove, mentre il continuare a curarlo qui sarebbe di effetto dubbioso. Ed allora il rosaio umano venne trapiantato in un suolo puro, caldo e asciutto, ove fu inondato di sole, ove le stelle gli sorridevano e lo accarezzava lo zeffiro. Sparvero gl’insetti nocivi e la muffa, e la pianta fu coperta delle più belle rose rosse, il cui profumo imbalsamava il mondo.
Il Creatore ha posto nel nostro cuore una misura per le nostre azioni, la quale ci fa sembrare insignificante ciò che abbiamo fatto, e fa sì che lo scopo ci appaia sempre più discosto. Se i nostri antenati avessero fondato una società in cui gli uomini fossero vissuti concordi, senza lotte nè invidia, senza violenza nè avidità; in cui ognuno avesse potuto seguire la propria vocazione, senza bisogno di lavorare più che non lo permettesse la salute, se non fosse più stato necessario di pensare al domani e che gli uomini non avessero dovuto curarsi maggiormente del loro sostentamento, che non l’albero che riceve il nutrimento da sorgenti inesauribili; se, dico, essi avessero potuto crearsi uno stato simile, sarebbe parso loro un paradiso. Lo avrebbero paragonato nella loro mente, al cielo, e non avrebbero immaginato che vi fosse al di là nulla di meglio.
Ma come la pensiamo noi che siamo giunti all’altezza da loro contemplata? Abbiamo già dimenticato, a meno che un’occasione speciale non ce lo rammenti, che vi fu un tempo in cui le cose stavano diversamente. Dobbiamo fare uno sforzo d’immaginazione per figurarci le situazioni sociali dei nostri antenati; le troviamo non naturali, la soluzione del problema del sostentamento non ci appare come la soluzione dell’edifizio; ma come il primo gradino che conduce al progresso dell’umanità.
Ci siamo soltanto liberati da un tormento pazzo ed inutile che impediva ai nostri avi di raggiungere il vero scopo dell’esistenza; siamo semplicemente preparati per la gara, nulla più. Somigliamo ad un bambino che abbia appena imparato a star ritto e cominci a camminare; è una gran cosa il primo passo per un bimbo, forse egli pensa allora che non ha più nulla da raggiungere; ma in capo ad un anno, ha già dimenticato che vi fu un tempo in cui non camminava; il suo orizzonte si estese, quando stette ritto, e più ancora quando egli fu in caso di muoversi da sè. Ed infatti, il suo primo passo, fu un grande avvenimento, ma come principio, non come fine; con esso cominciava la sua carriera.
La liberazione dell’umanità, al secolo scorso, dall’annientamento morale e materiale, derivante dal lavoro per i bisogni fisici, può essere considerata come una seconda nascita, senza la quale la vera introduzione nell’esistenza, che era soltanto un fardello, sarebbe rimasta sempre ingiustificata. Da allora l’umanità è entrata in una nuova fase di sviluppo spirituale, di uno sviluppo di facoltà elevate, l’esistenza delle quali era ignorata dai nostri antenati.
Invece del triste sconforto del secolo decimonono e del suo cupo pessimismo riguardo all’avvenire dell’umanità, l’idea vivificatrice del tempo presente è la comprensione entusiastica di ciò che offre la nostra esistenza e di quanto può l’umana natura. Il suo raffinamento fisico, spirituale e morale, di generazione in generazione, vien considerato come scopo maggiore, degno di qualsiasi sforzo e di qualsiasi sacrificio; crediamo che il genere umano ha concepito per la prima volta la realizzazione dell’ideale divino e che ogni generazione deve rappresentare un passo in avanti.
A chi chiede dove giungeremo quando infinite generazioni saranno morte, rispondo che la via che ci sta dinanzi, si estende assai lontano, e si perde nella luce. Perchè il ritorno dell’uomo a Dio, che è la nostra patria, è un doppio ritorno: quello dell’individuo mediante la morte, e quello del genere umano mediante la fine dello sviluppo, poichè il segreto divino, nascosto nel germe, dovrà svilupparsi completamente.
Con una lagrima per il cupo passato, volgiamoci ora al risplendente avvenire; andiamo avanti con gli occhi velati; il lungo e triste inverno è passato, l’estate è venuta, l’umanità ha rotto il suo bozzolo, e il cielo è in vista».