L'asino (Guerrazzi, 1858)/Parte I/L'Asino incomincia la Orazione
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L'ASINO
INCOMINCIA LA SUA ORAZIONE
§. V.
Qual’è lo stile che si confaccia all’Asino. Si espone l’educazione dell’Asino qual sia. Al Maresciallo Melas fa bene il bastone. Con educazione di acqua, paglia e bastone, non si possono pretendere Galilei. Gli Asini vogliono la immortalità. Potrebbero dimostrare meritarla più degli uomini. Si contentano chiarire, che la meritano quanto essi. La permise Giove; quando, e perchè. Prova. L’Asino non conta su la promessa di Giove. La Ingratitudine, impicca a un fico la Promessa mandata dalla Paura ambasciatore al soccorso.
Sacra Corona, accingendomi a esporre il diritto de’ miei confratelli in asinaggine, che qui ti stanno pieni di riverenza al cospetto, io mi protesto, innanzi tratto, di volerlo fare con parole ingenue, e in istile piano e dimesso, conforme si addice da una parte alla natura e insufficienza mie, dall’altra alla modestia di loro. Epperò io mi confido, che tu sapientissimo fra i re vorrai tenermi per iscusato se io non partirò la mia orazione secondo le regole dell’arte e non argomenterò per filo e per segno, dacchè ti giuro da Asino di onore, che i miei parenti non pensarono mai mandarmi in Collegio, né appresi rettorica nemmeno nel libro del padre de Colonia chierico regolare di San Paolo, di cui pure intesi dire un sacco di bene a casa mia. Tu conosci, magnanimo re, quale sia stata la educazione mia, e quali i portamenti degli uomini con i miei confratelli e con me, finchè durammo la vita presso di loro nel mondo, comechè noi ci studiassimo con ogni nostro potere, e secondo la condizione nostra avvantaggiarli. Cotesti ingratissimi, in remerito di tanti benefizii da noi in pro loro operati, ci furono larghi di tre cose soltanto... e sai tu quali o mio re? Ah! S’io pongo mente alle tue regali sembianze commosse, troppo bene comprendo che tu le sai, e nondimeno io te le voglio dire: — paglia — acqua — e bastone...
Gli è vero che il maresciallo Melas fu udito da coloro, che ebbero la beatitudine di stargli attorno, profferire la seguente sentenza: — Spesso ho fatto dare le bastonate, e spesso ancora le ho ricevute; e in quanto a me confesso, che mi hanno fatto bene1. — Ma egli è mestieri riflettere, che il Sig. Melas era tedesco, e poi allevandolo col bastone non ci avevano mica aggiuntato l’acqua e la paglia.
Ora se con acqua, paglia e bastone si possa poi in buona coscienza pretendere argutezza e leggiadria, dillo tu, re, e tu giudica, sacra Corona, se al suono di questa musica tu stesso saresti riuscito quella cima che sei, e se, per dirla in rima:
«Con la paglia, coll’acqua e col bastone
Può cavarsi da un ciuco un Salomone?»
Ciò messo in sodo, io passo senz’altri prolegomini nelle viscere dello argomento.
Umile per natura e per genio l’arciconfraternita degli Asini, alla quale mi tengo onorato appartenere, non sosterrà (e lo potrebbe, e delle ragioni ce ne sarebbe di avanzo) com’ella meriti essere fatta immortale più degli uomini assai: starà contenta chiarire meritarlo quanto essi.
Temporibus illis! quando regnare nei cieli toccava a Giove (e anch’ei fu Dio, onde col mio senno di Asino trovo, che operarono pessimamente coloro, ch’egli ebbe successori nelle stanze dell’Olimpo, a bandirlo dai cieli come reo di lesa divinità e straziarlo come fecero al punto di chiamarlo demonio; avvegnadio a me paia, che per amore delle autorità i Numi avessero a reggersi fra loro sotto pena di cascare tutti abbracciati in un fascio sotto il dispregio dei tristi:) nei tempi dunque che Giove comandava, egli con fede di parola regia ne promise la immortalità.
E siccome per lo esempio e per la opinione altrui vengono ad acquistare credito maggiore le sentenze proposte, così imitando il costume degli avvocati i quali solevano nelle allegazioni loro cucire una dopo l’altra le autorità di antichi e di moderni scrittori, mettendoci di propio la carta (quando l’avevano pagata) e gli spropositi, che senza spesa gli mandava a casa la vera madre di carità, natura; mi stringerò a citare i versi di certo pellegrino ingegno, il quale con accorgimento stupendo celebrò i nostri fati così2:
Io mi ricordo, che mi fu contato
Una cosa, che dev’essere intesa,
Ond’ei sarà col tempo più laudato;
Questa è, che ancora gli resta sospesa
Quel che l’anima sua faccia post morte,
Ma ben ne sta con la speranza accesa.
Però, che quando Giove fece accorte
Le anime umane d’immortalitate
Eran presenti gli Asini per sorte.
E pregâr Giove con parole ornate
Che immortalasse le loro alme ancora
Per essergli anche dopo morte grate;
E seguitâr senza più far dimora:
Giove, noi sarem tuoi senza alcun fallo
E in vita e in morte serviremti ogni ora;
Farem cantando alle volte un bel ballo
Et alle feste che darà il tuo coro
Porteremo gli Dei tutti a cavallo.
Allor si ricordò Giove, che loro
Gli dier vinta la guerra co’ giganti
Quando in suo aiuto co’ Silvani foro;
I cui meriti allor furono tanti.
Che nello empireo ciel Giove ne prese
Memoria fra le stelle luccicanti,
Et hancor oggi si mostra palese;
Certe stelle del Granchio in ciel compreso
Di Asino han nome per ogni paese3.
Ma ritornando a Giove, che havea inteso
Quanto gli Asini havesser domandato
E di servirli si era tutto acceso,
Rispose loro: non è ragunato
Il gran collegio; alla prima tornata
Quanto chiedete alhor vi sarà dato,
E quando l’alma havrete immortalata
Io vi darò questo segnal per segno,
Che un di voi piacerà acqua rosata.
E qui nasce che l’Asino che ha ingegno
Fiuta ogni piscio, che per terra trova
Poi alza il capo, e dice: è questo il segno?»
— Ma Asino così non fui nel mondo, che prima non apprendessi, e più tardi dell’uomo assai non obliassi come la Paura prometta con la pala, e la Riconoscenza attenga con la lesina; anzi ricordo, che Pippo da Brozzi, il quale la sapea lunga e la sapea contare, scendendo da Fiesole per andare al mercato, certa volta parlò a Bobi del Castrone queste parole, ed io le intesi perchè gli camminava dietro col carico delle cipolle: Da’ rettà, Bobi, tu hai da sapere come la Paura trovandosi un giorno in grande stretta, chiamata a se la Promessa, l’ebbe a dire: sirocchia, mi faresti un piacere? A cui la Promessa, che fu sempre credenzona, tutto cuore da buttarsi nel fuoco per aggradire la gente, rispose: due. Or bene vattene a casa il Soccorso, e gli dirai da parte mia, che se corre a salvarmi io vo’ donargli il pastino dove unguanno ho piantato la vigna. E la Promessa va, e tanto prega e si raccomanda, che, cavato il Soccorso da letto, lo spinge fuori per le spalle. Uscita di pericolo la Paura tira in un canto la sua fante, certa cosaccia verde e guercia, che aveva nome Ingratitudine, e le sussurra dentro gli orecchi: quando mi si para davanti la Promessa mi sento rimescolare il sangue, però ch’io tema, che di punto in bianco il Soccorso me la metta su come testimone del pastino, che aveva detto di dargli, e non gli vo’ più dare; tu avresti ad agguantarmela quando meno se l’aspetta, e alla cheticella mettermela sotto chiave alle Murate4, talche di lei più non si udisse fiatare nemmeno: che se ti sovvenisse ripiego migliore di questo, guà io non ti lego le mani, basta che sia senza chiasso. La Ingratitudine che non intese a sordo, piglia un sacco, si addoppa ad una siepe, e quando la Promessa dinoccolata arriva al passo le muove per di dietro in punta di piedi, la imbavaglia alla sprovvista, e al primo fico, che le capita davanti gli occhi, ce la impicca per i piedi come si fa ai rospi. Il fico poi ella scelse, come quello, che dopo Giuda è l’albero dei traditori. Però tienti per avvisato, Bobi, e notalo nel tuo calendario quando ritorni a casa: alle promesse fatte in tempo di bisogno il meglio che può andarne è di trovarsi impiccato per i piedi ad un fico; hai inteso, Bobi! — E Bobi rispondeva: ho inteso. Ordinariamente tutti, o vogli popolo, o vogli Principi, finita la festa levano l’alloro; ma i Principi troppo più spesso del Popolo, secondochè insegnava un savio maestro chiamato Niccolò Machiavello, che per la bontà sua avrebbe meritato essere maestro degli Asini, e lo fu uomini, i quali gli pagarono le sue lezioni in moneta di corda5. Laonde in quanto a me io non pretesi mai, che mi si avessero ad osservare le promesse di un Dio, massimo di un Dio fallito, ed esigliato da quell’Olimpo, ch’egli aveva come trapunto di tante liete e luminose novelle. Io non mi fondo pertanto sopra antichi privilegi, nè sopra vetuste pergamene, che il tarlo rode, e la umidità muffisce; lunge da me il vanto delle superbe fortune, decoro anche dei vili; veruna cosa addurrò in mia difesa, la quale come estranea alla mia natura cada in potestà della fortuna, epperò come labile e transitoria non vuolsi punto depositare nella bilancia. Favellerò di cose ben mie, ed alla natura mia intrinseche così che non mi possano essere tolte nè per malvagità di destino, nè per invidia degli uomini. Io non mi vanto di professare le dottrine degli storici, ma con lo aiuto di Dio, procuro di rasentarle quanto più posso6.
Note
- ↑ [p. 78 modifica]Revue des deux mondes liv. 1, Sett. 1835. p. 1046.
- ↑ [p. 78 modifica]Autore incerto. Raccolta di poesie bernesche, t. 2, Venezia, c. 1. v. 20.
- ↑ [p. 78 modifica]Lattanzio Firmiano, 1. 24, c. 1. e Iginio, t. 3, parlano di queste stelle chiamate Asini, e di tre nebulose dette prespii loro.
- ↑ [p. 78 modifica]Convento un di, oggi carcere, in Firenze fra l'Arno e porta alla Croce.
- ↑ [p. 78 modifica]Dei discorsi, lib. 1. c. 29.
- ↑ [p. 78 modifica]Le cose sono di due maniere; in poter nostro, alcune altre no. Sono in poter nostro la opinione, il muovimento, l'appetizione, l'avvenire, in breve tutte quelle cose, che sono nostri proprii atti. Non sono in poter nostro il corpo, gli averi, la reputazione, magistrati, e in breve quelle cose, che non sono nostri atti. Le cose poste in poter nostro sono di natura libere, non possono essere impedite, nè attraversate; quelle altre sono debili, schiave, sottoposte a ricevere impedimento, e per ultimo sono altrui. Manuale di Epitteto, volg. di G. Leopardi in principio.