L'asino (Guerrazzi, 1858)/Parte I/Il Gigante
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Il Gigante
§ II.
Un gigante mette fuori il capo. Tempesta di ossa di morti. Mezza resurrezione, e morte nuova. Ai morti è proibito sussurrare. Un occhio grande quanto Porta San Friano. Padiglione e ombrello conquistati alla battaglia d’Isly. Giganti ci hanno da essere. Og Giganti di Svezia. Nembrod. Golia. Pelope. Oreste. Gigante Caudiotte. Pallante. Massimino, e suo Anello. Martino Torriano. Gigante gallo. Giovanetta alta 50 piedi. Dente di gigante Siciliano. Prometeo. Picco di Adamo nell’isola di Ceylan. Adamo fa creato nero. Gange supplica il padre, che si butti in mare. Teutoboco. Gabazza. Orione. Poisone. Secundilla. Ci sono giganti? Don Calmet dice di sì. L’abate Marini dice di no. Cuvier dimostra, che da sette piedi in su non ci sono giganti. Moderazione domiciliata in casa all’acqua del Telluccio. Discorso del moderato. Paura dei moderati. Arroganza dei moderati. Moderati perchè così chiamati. Antipodi del cavaliere Baiardo. Il Gigante corre al giudizio. Bottega di rigattiere del mondo disfatto. Naufragio di Numi. Mastodonte cane da caccia. Bestie incompiute.
Quanti secoli io rimanessi costà in quel miserissimo stato, io non ve lo posso dire: e non ve lo posso dire perchè il tempo, smessa la rivendita della eternità a minuto, aveva rotto il braccio sul capo all’ultimo avventore, e, chiusa bottega, si era dato al fallito; basta, e’ fu uno spazio di tempo lungo lungo. Il sonno grave dalla testa me lo ruppe un ribollimento terribile, e un rigonfiarsi, che faceva il granito sotto di me come se ci fosse venuta a crescere sopra una natta, figurati, una diecina di volte più grande della cupola di Santa Maria del Fiore. Indi a poco, ecco prendono a spuntare su cotesta natta certi così grossi quanto il castagno dei cento cavalli del Monte Etna, in forma di finocchioni scanalati e neri. Mentre io li contemplava, e stette a un pelo ch’io non dessi la volta alle girelle, vedendo fiumi di sangue correre di su di giù dentro a quei canali con la foga dei cavalli inglesi di razza superlativa. La natta poi, quando fu pervenuta al punto del suo massimo incremento, si commosse, e come per terremoto tremò, ond’io che insieme a centinaja di migliaja della mia specie ci trovavamo in mezzo di cotesta selva, fummo con tanto furioso impeto l’uno contro l’altro cozzati, che molti n’ebbero infranti e teschi, e costole, e andò denso per l’aria uno spolverio di tritume di morti, che mi empì di bruscoli e di arena il mio occhio sinistro. Lo stroscio, che immenso rimbombava d’intorno, pareva quello che mandano le montagne di ghiaccio galleggianti quando spinte dalle correnti, urtandosi, si spaccano laggiù nelle regioni polari, secondochè aveva letto nei viaggi del capitano Parry; avvegnadio in coteste parti non fossi mai andato, epperò cotesto rumore non avessi mai udito.
Poffar di Bacco! urlarono i morti, oh non basta esser morti una volta? Oh! che figure sono elleno queste di persuaderci a rimontare a mosaico lo edifizio delle nostre ossa per isconbuiarcelo da capo? A petto del nostro il supplizio delle Danaidi era una galanteria. Meglio cento volte empire botti sfondate, che quest’angoscia di resucitare a mezzo, per ritornare poi a cascar morti sopra la bara.
Allora le mie ossa per memoria di certo gusto fracido, che, finchè vissi, mi diede infinita molestia, e fu di mettermi a repentaglio per tutti in mezzo ai mal passi, sollevarono la voce, e dissero:
— Miei riveriti colleghi morti e sepolti, cessate dal rammaricarvi. Piacciavi ricordare, che una volta il miglior pregio dei morti era starsi cheti nei loro avelli, e così piacevano. Non lice ai morti per bene mostrarsi queruli, sussurroni e irrequieti. Rimanetevi in pace, che andrò io a speculare le cose a mio rischio e pericolo.
E terminato il discorso, erpicandomi, con le braccia giù per le rame del finocchio sperticato, mi lasciai sdrucciolare bel bello un terzo di miglio, e vidi....
Che cosa vidi?
Un occhio grande quanto porta San Friano, e infuocato e sanguigno come sole in procinto di tramontare, un naso largo troppo più del padiglione conquistato dal maresciallo Bugeaud contro i Marrocchini alla battaglia d’Isly insieme all’ombrello famoso, i quali ambedue arnesi costarono a quello arguto popolo di Francia non so quante vite e quanti milioni, e non gli parve caro.
Si ha da credere, che il mio carcame, comecchè in forma di bruscolo recasse prurigine o spasimo al possessore di cotesto occhio insanguinato, imperciocchè con un battere di palpebra mi scaraventasse indietro per tre quarti di miglio, ed io in meno, che si dice amen, io mi rinvenni di nuovo in mezzo ai miei confratelli trasecolati di vedermi sì presto e in quella strana guisa restituito fra loro.
I morti attaccati pei rami dei finocchi in vari atteggiamenti, come le scimmie su per gli alberi di Guzzurrate, appuntarono il volto verso di me domandando alla rinfusa:
— Che ci è egli, fratello? Fratello, raccontaci quello che udisti, e quell’altro che vedesti? Quanti morti e quanti feriti?
— Onorevoli miei colleghi putrefatti, io vi faccio innanzi tutto assapere come questi, che a voi paiono finocchi, altrimenti finocchi non sieno, bensì capelli. Questa selva non è selva, bensì capo di Gigante, e certamente di quelli che nacquero dagli angioli, e dalle figliuole degli uomini quando le videro belle1, e poveracci! se ne innamorarono. Dio, come voi altri sapete, reputando il mondo insudiciato per via di coteste razze plebee, si scorucciò di buono, e lo mise per quaranta giorni in molle col diluvio universale. Certo voi potreste osservare, che se tanto il Supremo Creatore ha studiato per la pulizia, bisognerebbe che mandasse questo mondo in bucato una volta per settimana con le tovaglie, e non sarebbe troppo...
Qui con la insolente umiltà di certi miei padroni, mi levò di bocca la parola un morto, che stava appollaiato sopra un finocchio venti braccia più lungo del mio, e disse:
— Onorevoli colleghi, favete auribus, e questo morto dabbene si tolga in pace s’io gli abbia tagliato a mezzo la orazione, perchè si tratta di affare serioso, ma serioso davvero. Mosso dal desiderio di conservarvi quali io vi vedo morti e putrefatti, e per compiacere ad un punto al genio della moderazione nato e domiciliato ai Bagni di Montecatini in casa all’acqua del Tettuccio, io vi propongo come partito unico di starci fermi fermissimi, come abbiamo avuto luogo d’imparare nelle antiche nostre sepolture, conciossiachè laddove al Gigante (che credevamo morto per sempre, ed in mal punto si è fatto vivo), infastidito del brulichio, che gli moviamo di sopra, saltasse il ticchio di grattarsi il capo, noi ci potremmo tenere per ispacciati.
Hai tu visto mai quando un ragazzo tocca le corna alla chiocciola come le si ritirino a precipizio nel capo? Così coteste ossa moderate si rannicchiarono. Hai tu sentito mai lo strido infernale, che leva lo scarpellino quando raschia un pezzo di marmo? Così cotesti denti moderati fischiarono. Hai tu visto mai l’argento, in virtù dello apparecchio galvanico, diventare in un attimo colore dell’oro? Così cotesti teschi moderati di bianchi ingiallirono, ond’è che preso da compassione per coteste ossa avvilite mi affrettai a riprendere:
— Che il Gigante si gratti il capo non ci è pericolo, almeno per ora, avvegnachè egli non abbia potuto anche mettere le braccia al posto e con la testa sola sbuca fuori dalla crosta della terra come quella della sfinge nel deserto di Egitto.
Allora si levò un frastuono, un rombazzo, un rovinio tale, che quello che mandava, precipitandosi, la cascata dì Niagara parse di rimpetto a lui uno strilìo di sgricciolo. Non vi fu più regola, né misura, migliaia facevano capitomboli e capriole per l’allegrezza, migliaia si provavano a scuotere questi capelli finocchi in atto di scherno o di minaccia, altri mille sedutivi sopra si divertivano all’altalena; altri altra cosa, come i funamboli in fiera. Non vi mancarono di quelli i quali accertatisi bene in prima di potersi mostrare temerarii con tutta sicurezza, accesero luminarie o falò colle schiappe dei capelli scerpati senza carità sul capo al Gigante.
O tristo collegio di codardi, che ti se’ fatto salutare col nome di moderato, al modo stesso che Scipione, sovvertita dalle fondamenta Cartagine, fu dello Affricano; o gente, che alla rovescia del cavaliere Baiardo, ti sei meritata il titolo di tutta paura, tutta bruttura, quanto ti mostrasti animosa allorchè sapesti, che il Gigante era venuto fuori senza le braccia!
Il Gigante intronato levava su lento lento la pupilla sanguinosa per vedere un po’ la cagione di quel tramestio infernale sopra il suo capo. Nè i morti moderati si tenevano per isbizzarriti, che udii parecchi cantare inni di gloria accompagnandosi col suono di stinchi di morto percossi assieme a guisa di treppiedi: vi fu chi, strappate le bandiere di mano ad altri morti, si attentò di andare a drappellarle fino su le sopracciglia del Gigante per provocarlo a tenzone. A suscitare così generosa baldanza, o che ci era voluto? Niente in verità: la certezza, che il Gigante, per non essersi messo anche le braccia al posto, non si poteva grattare la testa.
E qui importa notare come taluni dei morti si fossero fatti ab antiquo seppellire avviluppati nelle proprie bandiere quasi lenzuoli funerarii, ma questi apparivano pochi, e desti al fracasso, levarono il teschio su fuori del sepolcro, si fregarono gli occhi e guardarono, poi sbadigliarono, tornarono a fregarsi gli occhi, e guardarono da capo; finalmente data una giravolta sul fianco mormorarono: — lasciateci dormire tuttavia. —
In quanto a me spalancai, maravigliando, l’occhio sinistro riconquistato contro la occupazione dei vermi, perchè in fede mia costoro mi parevano in tutto i vivi dei tempi miei....
Indi a cinque secoli il Gigante, quando ce lo aspettavamo meno, ecco proruppe fuori dalla crosta della terra come un diavolo di Germania dalle finte scatole da tabacco; ma il Cielo dicavi per me com’egli apparisse concio. Sarebbe stato bazza per lui se delle sue ossa gli fosse venuto fatto di raccapezzare il terzo: di carne non se ne parla; di qua e di là qualche brandello ciondoloni, che mai peggio non vidi giubba di mendico nell’altro mondo. Le gambe però riebbe intere, ond’è, che quasi intendesse rifarsi della secolare immobilità, prese a sbizzarrirsi correndo per lo spazio a scavezzacollo. Misericordia! Fra un passo e l’altro tu ti hai a figurare, che ci corresse il tratto di una posta almeno, quando usavano le poste, e poi siccome la superficie per la quale e’ camminava gli era una cosa sfatta, molle e del colore di nebbia, egli talvolta vi affondava dentro fino al ginocchio.
Allora immenso si levò il guaito fra i morti a cui pareva di essere giuntati trovandosi sbattuti come botti vuote per un mare in burrasca: in quel punto si accorsero, che dallo starsi fermi non ne aveano ricavato costrutto, e questo avrebbero potuto presagire se pensavano un tantino alla vecchia usanza del Gigante, ma era tardi, Primo di tutti bociava, maledicendo i cauti, l’antico morto predicatore della immobilità, e nella veemenza dei moti, obbliando di tenersi aggrappato ai capelli, fu balestrato giù da cotesto picco semovente a rotolare nello abisso.
Malgrado la materia tenera del mondo ritornato in condizione di nebulosa il Gigantaccio andava via a vapore, ed io dall’alto del mio finocchio a modo di pilota, che speculi dalla gabbia di un vascello a tre ponti, contemplava in passando un mucchio mirabile di cose gettate là alla rinfusa, quasi scene di commedia finita.
Vedeva vulcani spenti, che mandavano l’ultimo buffo di fumo per di sotto, foreste cacciate là co’ tronchi per traverso, mari alla rovescia, mucchi di cenere di soli consumati, stelle svenute a catafascio con le basiliche di Santa Sofia, che fu a Costantinopoli, di San Pietro a Roma, di San Paolo a Londra, della Sinagoga di Amsterdam, della Caaba alla Mecca, e moschee, e pagode di Visnou, Brama, Boudda, e mille altri Dii di cui la religiosa Inghilterra aveva messo su fabbrica2: terribile bottega di rigattiere di culti usciti di andazzo! Il Gigante, a cui forse era venuto sete, vedendo la cupola di San Pietro che per essere cascata all’insù si era empita d’acqua, se la tolse in mano come un guscio d’uovo e la votò di un sorso. Le statue degli Dei andavano disseminate a milioni di milioni per la campagna, quasi frantumi di navigli lungo la scogliera, dove gli ruppe la tempesta.
Alla fine giungemmo a capo di una immensa pianura, nella quale stavano miliardi di miliardi di bestie, parte a me note e parte sconosciute. Le bestie de’ miei tempi in paragone delle bestie antiche non potevano vantarsi nemmeno di essere grosse; dirimpetto a queste stavano come un Ranocchio a un Bove. Di vero un Mastodonte, alto un poco più del campanile di Giotto, tutto ad un tratto sbarattando le turbe si avventò festoso, e dimenante la coda al collo del Gigante, il quale lasciò cascare una lacrima, che empì una conca, e col suono di voce più blando, che parve un tuono di mezzo agosto, accarezzandolo gli disse: abbasso Fido! Da queste parole mi accorsi, ch’egli era stato il suo Cane da Caccia al tempo in cui i Coccodrilli si mettevano nello spiedo come i Beccafichi.
Non senza meraviglia oggimai, ma con ispavento pur sempre mi accorsi come fra tutta cotesta congerie di bestie veruna fosse completa; a cui mancava la coda, a cui le gambe: più che di altro presentavano sembianza di uno immenso ospizio d’invalidi.
Note
- ↑ [p. 38 modifica]In quel tempo i Giganti erano sopra la terra, o furono anche di poi quando i figlioli di Dio errarono nelle figliuole degli uomini, ed esse partorirono loro figliuoli. Genesi c. 6. n. 4. Gl'Isdraeliti nelle terre degli Amorrei distrussero Og re di Basan, il quale, per quello che ci assicura il Deuteronomio, c. 3. n. 11. — era solo rimasto delle reliquie dei giganti: ecco la sua lettiera, ch'è una lettiera di ferro, non si conserva ella in Rabat, la cui lunghezza è nove cubiti, e la larghezza quattro cubiti a cubito di uomo? — La statura però di questo gigante, insegnano i reverendi padri benedettini nell'Arte di verificare le date, non giungeva, che a nove piedi, e quattro pollici precisi. Tiburtius curato del popolo di Wreta in certa Relazione stampata negli Atti dell'Accademia di Svezia racconta, che nel 1764, scavando una fossa, trovò uno scheletro umano, di cui le ossa delle cosce erano lunghe 23 pollici, quelle della gamba del ginocchio alle curvatura del piede, 18: il piccolo cavicchio, 15, e le costole, 10. Però tali giganti a petto di Nembrod e di Golia, rammentati nelle sacre carte, di Pelope e di Oreste, appajono bagattelle: qualchecosa di più sarebbe [p. 39 modifica]lo scheletro trovato a Candia nella frana di una montagna, alto (per quanto Plinio ci attesta) 46 cubiti; ma il gigante, che più si accosterebbe a quello segnato da me, sarebbe stato Pallante, di cui il cadavere rinvenuto incorrotto a Roma ai tempi dello Imperatore Enrico III, dicesi, che ritto in piedi toccasse le mura della città: a mezzo petto aveva una ferita larga 4 piedi avvantaggiati, donde l’anima, se ne aveva voglia poteva uscirsene in carrozza! — E questo afferma Fulgoso, T. 1. c. 6. che lo sapeva di certo. Tutti conoscono, voglio dire tutti quelli che leggono la storia romana, che all’imperatore Massimino il monile della moglie bastava malapena di anello al pollice della sua mano diritta; per la qual cosa immaginando io secondo le debite proporzioni la magnitudine degli altri suoi membri, me ne spavento; in specie per amore della povera imperatrice che forse non se ne spaventava. Il Sigonio nel T. 11. del Regno italico, narra: che Martino Torriano, che andò nel 1148 coll’oste cristiana all’assedio di Mamiala, e stipite de’ Torriani di Milano, fu pure gigante, ma non dichiara l’altezza. Fulgoso nell’opera citata rammenta un altro scheletro trovato nelle montagne della Gallia narbunese ai tempi di Carlo VII lungo 30 piedi. Vincenzo BELVACENSE, Historia nat., ex lib. de natura rerum scrive, che nelle parti di occidente sulla foce di certo fiume, rinvennero il cadavere di una giovinetta, vestito di porpora, alto 50 piedi; forse l’avevano fabbricata per darla in moglie a Pallante. Più stupendo di tutti i giganti scoperti e da scoprirsi, è quello che mise in luce [p. 40 modifica]il terremoto di Sicilia, del quale un dente portato a dire di Apollonio grammatico in Roma allo imperatore Tiberio, fu misurato e riscontrato lungo 1 piede; però il possessore avrebbe avuto il vantaggio di essere alto un bel circa il doppio del campanile di Giotto. Aggiunta. Più si legge, e più si trova; i giganti descritti fin qui abbili in conto di nani. Filostrato nella Vita di Appollonio Tianeo ci fa sapere come ad Apollonio fu mostrato il monte a cui legarono Prometeo, il quale ha due sommità, ed a ciascuna di queste gl'incatenarono una mano, quantunque siano l'una dall'altra lontane lo spazio di uno stadio; cioè un ottavo di miglio! p. 34. Ancora: nella isola di Ceylan s'incontra il picco d'Adamo, e su quel picco un'orma gigantesca di piede umano attribuita al primo padre dei viventi. Peccato che gli espositori di questa bella istoria non si sieno dati cura di cercare, che cosa quel benedetto patriarca fosse andato a fare in una isola tanto lontana, e su picco così alto! Non basta: Presso i naturalisti ortodossi è ricevuto che Adamo uscisse dalle mani del suo Creatore nero. Ed ecco come. Il Prichard volendo rimanere fedele alla Bibbia, e per altra parte non sapendo in qual maniera spiegare il nero e il bianco della stirpe umana, afferma, che se dal bianco non può nascere il nero, dal nero per via di gradazioni può venire il bianco, e quindi alla recisa decide, che il padre Adamo era nero. Seconda aggiunta. Tutta questa nota è inutile, come lo è questo libro, e come la più parte dei libri degli uomini, e delle cose loro. Di vero mentre andando in traccia di [p. 41 modifica]nuovi giganti aveva trovato Gange, figliuolo del fiume Gange, che vedendo il padre levarsi il gusto di allagare l’India lo scongiurò di precipitarsi nel mare rosso, ed ei lo compiacque. Filostrato, op. cit. 67. Teutoboco re dei Teutoni, che saltava sei cavalli, e menato in trionfo a Roma era più alto dei trofei: Michelet, Hist. de France, I. 1, p. 33, e Orione od Oto in Creta, e Pelsone, e Secundilla esposti a’ tempi di Augusto nel guardaroba dei Sallusti, e Gabarra arabo comparso a Roma nei tempi dello imperatore Claudio: Plinio, Hist. mun., I. 17, c. 10; tutto ad un tratto mi domandai: ma egli è poi vero, che coteste immani ossa in diverse parti di mondo rinvenute fossero di uomo? Don Calmet nella Dissertazione sopra i Giganti dice di sì: naturalmente viene in ballo un altro prete, l’abate Orlando Martin, e in certa Memoria inserita negli Atti dell’Accademia di Svezia dice di no, e di no ribadisce un altro prete, l’abate Francesco Marini, nella Lezione accademica stampata nel vol. 17 del Magazzino Toscano; alla fine il Cuvier manda a monte ogni cosa, ed insegna le ossa fossili degli animali essere state attribuite agli uomini; così le ossa dell’Elefante scoperto a Lucerna nel secolo XVI da Felice Plater professore di Anatomia a Basilea vennero appropriate ad un uomo alto 17, piedi; le altre dell’Elefante scoperto nel Delfinato, a Teutoboco re dei Teutoni, vinto da Maria. Gli uomini più alti veduti ai tempi nostri arrivavano a 7 piedi. — Recherches sur les ossemens fossiles, I. 1. — Se in fondo della nota, amico lettore, tu ti trovi a saperne meno di quando [p. 42 modifica]incominciasti, non ti faccia specie, chè nelle cognizioni umane accade ordinariamente così.
- ↑ [p. 42 modifica]La Inghilterra è paese per eccellenza disforme, e lo notò il Talleyrand. Mentre spende milioni in missionarii, e Bibbie per acquistare anime alla fede, ecco che a Birmingham troverete una fabbrica d’Idoli, e negli Archivii del Cristianesimo occorre una mercuriale dei medesimi. Yamen (dio della morte) di rame fino fatto con garbo. — Nirondi (re dei demonii) assortimento di molti modelli. Il gigante a cui sta in collo è di ardita invenzione, e la sua scimitarra è foggiata alla moderna. — Varronin (dio del sole) pieno di vita; il suo Coccodrillo è di bronzo, la frusta di argento. — Couberen (il Dio delle ricchezze), di stupendo lavoro; il fabbricante nel farlo ci ha messo tutto il suo ingegno. Si trovano ancora semidei e demonii di seconda classe di ogni maniera. Non si fa credenza, ma chi paga in contanti gode lo sconto.