L'aes grave del Museo Kircheriano/Classe IV. Tavola I.
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CLASSE IV.
Nel por mano alla dichiarazione della Tavola XI. della prima classe ricorrevamo alla benignità de’ nostri lettori, sì a fine d’aver compatimento per il fallo che li avevamo commesso col mettere in fronte a quella serie un asse che certamente non era il suo, sì a fine d’avvisarli che ricorressero alla Tavola IV; Incerte per emendare quel nostro errore. Rinnoviamo qui i medesimi uffizj onde ottenere una eguale indulgenza tanto verso un secondo abbaglio, in cui caduti siamo coll’aver voluto portare a cinque il numero delle classi dell’aes grave, quantunque in verità non sieno più che quattro, quanto verso la ommissione delle monete coniate di Lucera, le quali ci sarebbono state di molto giovamento, se le avessimo fatte incidere in quella medesima Tavola, che portar dovrebbe il giusto titolo di Classe IV. Tavola IV., in luogo dell’erroneo Classe V. Tavola I.
Fin dalle prime pagine di questo libro avvisavamo quali erano i caratteri, per cui questa classe di monete va divisa dalle tre precedenti. Non è solo la situazione della loro provincia che tutta distendesi al di là dell’apennino e lungi esso un altro mare; ma e il peso a cui montano, e le parti in che si dividono, sono le ragioni gravissime, che ci proibiscono di confonderle con quelle delle regioni diverse cisapennine. Cosi gli assi come le loro parti ci sono pruova, che la libra oltremontana non era minore di quattordici oncie cismontane: anzi due de’ quincunci adriatici che abbiam qui tra le mani vorrebbono che la facessimo salire fino alle sedici. Aggiungasi la divisione di questa libra, che decimale ci viene comprovata dalle note concordi di tutti i suoi semissi. Segnavasi da’ cistiberini la mezza libra con un semplice S: che essa poi fosse metà di dodici non di altro numero d’oncie, il sappiamo da innumerevoli testimonianze antiche, le quali ne rappresentano di dodici oncie la libra di questi popoli. Gli umbri usarono a quest’uopo il solo Ↄ: gli etruschi quando il Ↄ, e quando i sei globetti, contro il qual numero non v’ha ragione che valga. Ma nelle serie adriatiche vana opera sarebbe il rintracciare semissi di sei oncie. Que’ popoli per toglierci su di ciò ogni dubbiezza, si accordarono tutti a segnare su quella moneta cinque globetti, escludendone ogni altra nota. Per quanto da noi si conosce, niuno finora dal quicunce adriatico ha ricavata la conseguenza che qui publichiamo. La quale se vero è che dipende da un fatto incontrastabile, non ha mestieri di ulteriore dimostrazione: se poi non è che un error nostro, la più sublime dialettica non potrebbe bastare a procacciarle fede. Nel primo caso, di qua i numismatici potranno apprendere quale sia la vera ed unica patria de’ quincunci; ne più si affanneranno a rintracciar semissi di sei oncie oltre l’appennino, né al di qua semissi di cinque oncie o semplicemente quincunci. Quivi stesso si persuadano della necessità in che ci siam noi trovati d’abbandonare nella descrizione di questa classe le voci triente, quadrante e sestante. Elle qui non rispondevano alla verità del fatto: talché conveniva loro sostituire le più generiche di tetrobolo, triobolo, e diobolo le quali pure sono dell’arte. In quanto alla distribuzione delle impronte, gli adriatici si attengono alle pratiche de’ cistiberini, da’ quali, come indicheremo in appresso, è molto più probabile che imparassero l’arte, di quello che dagli umbri o dagli etruschi. La virtù de’ loro artefici è dove meschina, dove al più mediocre, e vale poco più che a mostrarci la varietà delle scuole in che era tutta divisa l’Italia media.
TAVOLA I.
Nella Tavola di supplemento sotto il titolo classe IV. n. 2. avevam fatta disegnare la non rara moneta coniata di Rimino: ma poiché la singolare benevolenza e liberalità dell’eruditissimo Signor Antonio Bianchi, presidente della publica biblioteca di quella città, ne ha testè mandato di colà ad osservar un esemplare, che può dirsi un vero fiore di conio, l’abbiam fatto tantosto disegnare a comune istruzione degli studiosi sotto il frontispizio delle nostre tavole. Veggasene la descrizione che ne abbiamo data alla pagina 37. La testa disarmata di quel guerriero, il torque che cinge al collo, lo scudo che imbraccia, il pugnale che si reca sotto l’ascella sinistra, sono come gli anelli che annodano cotal moneta alle sette della serie presente, nella quale vedesi sul diritto la testa medesima di quel guerriero, e sul rovescio lo scudo e divisamente il pugnale. Parrà strano, che da noi si voglia supporre un pugnale stretto sotto la spalla o sotto l’ascella d’un combattente. Ma pure di tal costume ne abbiamo in questo museo incontrastabile esempio in un picciol bronzo rappresentante un soldato, armato appunto in questa medesima foggia. Abbiamo in animo di pubblicare fra breve un tal bronzo insieme con altri curiosi arnesi da guerra.
La forza di quel confronto si fa maggiore per la testimonianza degli osservatori di Rimino. Il commendato bibliotecario cosi di colà ci scriveva, sono già due anni. „L’opinione che la serie de’ torquati fosse di zecca riminese io la fondava su la seguente considerazione. Tutti i pezzi ch’io posseggo (meno l’asse, non conoscendone che l’oliveriano) sono stati ritrovati a mio tempo nel nostro territorio. Delle oncie me ne sono capitate sei in pochi anni: pel triente che credo inedito, mi disse il Conte Borghesi, che ne acquistò uno anch’egli ritrovato pure nel nostro paese„. Ma odasi la più ampia autorità del medesimo Borghesi in una lettera allo stesso Bianchi. „Sono stato io stesso che rispondendo al P. Secchi Gesuita, il qual mi avea parlato della nuova edizione con insigni giunte, che i suoi confratelli del Collegio Romano preparavano dell’operetta De Nummis Uncialibus, gli feci motto della di lei opinione, alla quale io aderiva, che quelle colla testa del Gallo torquato appartenessero a Rimini. Secondo il desiderio manifestatomi, mio nipote le consegnerà il triente, il quadrante, il sestante e l’oncia ch’io ne ho. I primi tre sono stati acquistati da me stesso ne’ nostri paesi, quando mi sono capitati, non avendo mai fatto incetta di simili medaglie, che non appartengono alle classi da me predilette. Anche quelle possedute dal Collegio Romano debbono essere di eguale provenienza. Da un vecchio catalogo di mio padre conosco ch’egli ne aveva il quincunce, il quadrante, il sestante e l’oncia; e dall’indice che poi compilò nel 1787, vedo che non gli era rimasta se non quest’ultima, la quale è stata di fatti la sola di tale qualità, che mi abbia lasciata. Trovandosi i pezzi mancanti nel museo del Collegio Romano, è naturalissimo che fossero da lui ceduti al Cardinale Zelada, da cui aveva avuto commissione di formare quella raccolta. Aggiungerò che io serbo l’indice delle monete aeris gravis possedute dal Prelato a quel tempo, poscia Cardinal Borgia, nella quale collezione quantunque abbastanza ricca, mancavano tutte quelle colla testa del Gallo; e che fu pure mio padre che glie ne diede il quadrante, notando che pesava oncie 3 denari 23. Tutto ciò le proverà, che tali medaglie, quantunque sparse in diversi musei, provengono generalmente da’ nostri luoghi e in fatti esse si trovano in quantità ne’ musei dell’Olivieri e del Passeri, il qual ultimo nella sua disertazione De Re Nummaria Etruscorum, aggiunta all’Etruria Regale del Dempstero, publicò l’asse corrispondente col rovescio della testa di cavallo„.
Aggiungasi la città ch’era Rimino, ultima sì per estremità di luogo in que’ primitivi confini d’Italia nostra, ma certamente prima per celebrità e grandezza d’emporio in quella parte dell’adriatica spiaggia, ciò che ne dichiararono i romani ne’ tempi della maggior loro virtù: quando colà appunto vollero che mettesse capo quella via militare, per cui minacciavano di correre al conquisto delle settentrionali provincie d’Europa, Su’ quali tre indizj noi stabiliamo la sentenza, che niuna tra le città italiche che toccano l’adriatico, abbia migliori diritti di Rimino sopra l’origine e il possesso di questa prima serie.
Prima di udire il conte Borghesi dare il titolo di Gallo torquato al personaggio che rappresentasi sul diritto di queste sette monete, noi stavamo in una quasi ferma opinione, ch’esse spettassero agli umbri adriatici, non già a’ Galli Senoni, i quali solo 390 anni prima dell’era nostra tornando carichi delle spoglie di Roma, fermarono colà loro stanza e fecero mutar nome a quel paese. Studiando anzi su la rarità di tali monete, la quale parrebbe doversi ripetere o dalla ristrettezza de’ confini, ciò che di quest’Umbria non poteva dirsi, o dal breve tempo in che ebbero corso, riputavamo che gli umbri non avessero cominciato ad usarle se non un quaranta o cinquanta anni prima della invasione gallica. In questa sentenza ci confermavano il busto di cavallo interpretato da noi nel senso dell’irpo tudertino ed atriano, il tridente, il delfino e la conchiglia de’ rovesci; i quali simboli sembrava ci avvisassero d’una stretta relazione tra coteste genti adriatiche e le popolazioni tirreniche, singolarmente cistiberine, le quali come si è veduto, fecero tanta pompa di cotali insegne. Ne parea di scorgere negli umbri adriatici quasi una diramazione degli umbri subapennini anche nel legame che ha la tenaglia osservata nelle monete iguvine con la testa di Vulcano impressa nel diritto della moneta coniata di Rimino. Lo scudo per noi tanto era gallico quanto de’ lucani, de bruzj e d’altri popoli dell’Italia più meridionale che l’usavano in quella stessa foggia. Rammentavamo che la collana, certamente prima che i Galli formassero nazione, presso gli egiziani, i persiani ed altre genti orientali adoperavasi come insegna d’onore; e che quindi gli umbri adriatici, come quelli che correvano anche il mare d’ oriente, potevano aver ricopiato quel costume anche prima che i Galli lo conoscessero e se l’appropriassero. La vicina Etruria ci dava esempj di somiglianti collane nulla meno che de’ lunghi peli lasciati intonsi sul labro superiore del campione di Rimino. Quantunque poi per la necessità e l’eguaglianza de’ traffici gli umbri di Rimino dovessero e nel peso e nella divisione della moneta uniformarsi agli altri popoli adriatici; pur tuttavia avvicini chi vuole l’elmo e il corno delle zecche iguvine alla testa dell’eroe, al busto di cavallo e al delfino dell’officina riminese, e si persuaderà facilmente, che nell’uno e nell’altro luogo un medesimo magistero dirigea le opere della moneta.
Tale era il nostro avviso; ma la dottrina e la critica impareggiabile del Borghesi può ben avere alla mano e ragioni e testi monj validissimi che atterrino in pochi colpi la fragilità del nostro edifizio. Il solo amore della scienza vuole che gli offriamo ad appianare alcune asprezze e difficoltà per potere di miglior animo entrare nella sua opinione. Vorremmo da prima ne indicasse una ragione per cui i Galli venuti a Rimino si dessero all’arte della moneta, mentre ne prima né poi in tant’altre parti d’Italia dove e aveano avuto e continuarono ad aver impero non ci hanno lasciata di se memoria alcuna su la moneta. In secondo luogo se le monete di Rimino sono galliche, perciò che sopra abbiamo accennato, non può dirsi che i Galli cominciassero a segnarle nel cominciamento della loro dominazione, ma negli ultimi quaranta o cinquant’anni, vale a dire negli otto o dieci lustri che precedettero il 281 avanti la nostra era cristiana, nel qual anno i Romani ebbero annientate o discacciate di colà quelle incolte genti. Ma in quel quinto secolo di Roma abolivasi nell’Italia media la fusione per sostituirle il conio ; e quella tra le zecche adriatiche che allora durava tuttavia aperta, avea già prima diminuito il peso primitivo di sua moneta, ne aveva dipoi dalle sue fabriche eliminata la fusione. E come mai è accaduto che gli adriatici di Rimino, divenuti Galli, volessero andar del pari con gli altri adriatici nel peso primitivo e nella divisione dell’asse, e volessero dipoi discordare da loro rifiutando la diminuzione ed il conio? Per ultimo chi è de’ due popoli autore di quella libra di quattordici o sedici oncie e di quel sistema decimale? gli adriatici primitivi, o i Galli avventurieri? Le monete de’ piceni, de’ vestini de daunj sono per fermo anteriori al 363 di Roma, epoca dell’invasione gallica in quella parte dell’Umbria. Dunque sono i Galli che qui si palesano discepoli. E se ciò, come accoppiasi la idea che noi abbiamo di quella gallica barbarie con la molta cura che qui vedesi non solamente d’introdurre nella città, che pure non sembra fosse capo della loro dominazione, un’arte cotanto civile, e costituirla e mantenerla quivi con le leggi medesime degli altri popoli del littorale adriatico, senza alcun intramischiamento ne delle consuetudini loro nazionali, né di quelle de’ vicini popoli dell’Apennino ?
Saremo tenuti al Signor Borghesi dello scioglimento di queste difficoltà, e cederemo alle ragioni di lui con quella stessa docilità, con cui qui istruiti dalla sua dottrina, emendiamo un altro fallo in cui siamo caduti dichiarando per tridente il simbolo che è nel rovescio dell’oncia di questa stessa serie. Di quell’insegna cosi egli ragiona nella lodata lettera al bibliotecario Signor Bianchi. „ Riguardo all’oncia le noterò, che il detto mio padre descrivendone il rovescio nel citato catalogo vi avea riconosciuto navis rostrum come pure avea fatto il Passeri; e che non so poi perchè cambiasse indi pensiero, e nei Nummi Unciales lo chiamasse invece tridens vel graphium. Fatto però sta che quel suo pentimento fu inopportuno; perchè quell’arnese è veramente il ferro con cui si armava la nave dal lato della prora ad oggetto di sfondare nell’urto la nave nemica, arnese che non poteva essere ignoto a Rimino, essendo stato d’invenzione italiana, come attesta Plinio (VII. 57.): Rostra addidit Pisaeus tyrrhenus. Esso infatti talvolta ricomparisce istessissimo sul rovescio del denaro di Q. Fabio Labeone, benché tal altra vi abbia la forma più conosciuta del rostro navale. È chiaro che allude al Labeone pretore nel 565 di Roma, a cui era toccato il comando della flotta quando finì la guerra col re Antioco, e a cui comandò il proconsole Gn. Manlio, ut Patara extemplo proficisceretur, quaeque ibi naves regiae essent concideret cremaretque, come abbiamo da Livio XXXYIII. 39, e da Polibio sulla fine del XXXV frammento delle Excerptae legationes. Se il Cavedoni allorché parlando delle medaglie di questo Fabio lo disse da prima un simbolo incerto (Saggio d’osservazioni p. 150.), e poi fu costretto ad ammettere che fosse un rostro (Appendice p. 97.) se avesse avuto presente la nostra oncia, ne avrebbe facilmente capita la differenza, ed avrebbe conosciuto che alcuno dei zecchieri del figlio di Labeone rappresentarono il rostro secondo la forma più antica, quando soleva affiggersi alla nave al di sopra del pelo del mare, mentre altri l’effigiarono secondo la figura che se gli diede quando fu abbassato ad oggetto di valersene insieme per rompere la forza dell’onde, su di che potrà vedere lo Scheffero de Militia Navali nel T. V. aggiunto dal Poleni alle antichità GG. e RR. del Gronovio p. 871. Parmi da ciò che l’unica conseguenza che si possa dedurre da questa diversità di rostri nei nummi di Labeone sia quella che circa i suoi tempi cominciasse ad essere ricevuta da’ romani la nuova invenzione, ch’era poi certamente in uso fra loro alla metà del VII. secolo ab U. C.„
Fin qui la perspicacia e l’erudizione maravigliosa del Borghesi, da cui ci ripromettiamo non pure le dichiarazioni delle quali qui gli rinnoviamo le istanze, ma eziandio una spiegazione del modo ond’egli tiene, che il rostro dell’oncia riminese, ritrovamento italico, sia divenuto insegna gallica. Conchiudiamo avvisando che rispetto alla moneta coniata, noi opinavamo ch’ella fosse contemporanea a quella di Ancona, e alle tre coniate di Todi, cioè di quegli anni che corsero tra il cacciamento de’ Galli da Rimino e la severa legge romana della totale abolizione della moneta autonoma per tutte quelle parti d’Italia.