L'aes grave del Museo Kircheriano/Classe IV. Tavola II. e III. A.
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TAVOLA II. e III. A.
Da Rimino convien discendere lungo il litorale adriatico fino ad Atri, per trovare una seconda officina di aes grave. Pesaro, Ancona, Fermo, Ascoli, Cupra, per tacer d’altre città più dentro terra, ma di minor fama di queste, nulla sanno additarci di proprio in questo genere. Cotali genti ch’erano pure e numerose e non incolte, fecero ciò che testé ricordavamo d’alcuni etruschi; videro l’arte a’ due loro confini, e non si preser la briga di recarsela in casa. Ne solamente si rimasero inoperose in quanto non eressero officine proprie, ma altresì in quanto pare si astenessero dal trafficare con la moneta quasi straniera degli atriani e de’ riminesi. Nell’Etruria maritima non è rara la moneta cistiberina; ma la moneta atriana e riminese può dirsi rarissima nelle regioni che giacciono tra Rimino ed Atri. La qual rarità ne lascia eziandio luogo a credere, che queste due città non esercitassero su le vicine quell’impero ed autorità, con che Roma fin dalla sua prima quasi adolescenza seppe diffondere nelle prossime provincie il suo aes grave.
Chi voglia udire intorno alle monete di Atri cose anche più maravigliose di quel che sembri potersi aspettare dalla severa critica della presente età, legga Melchiorre Delfico nell’opera ch’egli publicò con questo titolo Dell’Antica Numismatica della Città di Atri nel Piceno. Napoli 1826. Le nostre osservazioni vanno troppo lontane dalle sue dottrine. D’altronde qui noi non abbiamo mestieri di scrivere un libro, ciò che dovremmo pur fare, se chiamar volessimo ad esame le sentenze di quell’autore: vogliamo in pochi tratti publicare il risultamento degli usati nostri confronti. Silio Italico accennando nell’ottavo libro alla origine de’ piceni, lasciò scritto, ch’erano discesi da Pico figliuol di Saturno e padre di Fauno: Strabone e Plinio si accordano a volerli originati da’ sabini: le nostre monete, se pur non siamo in errore, pare che ci annunzino vera la testimonianza del primo, senza dichiararci falsa quella de’ secondi. Conciosiachè ci serbano elle molto probabile memoria, che una colonia composta di giovani presi tra le diverse genti cistiberine, non esclusa la sabina, in adempimento del sacro voto d’una primavera, dietro l’usata scorta dell’irpo salisse alle cime più alte dell’apennino e di colassù scendesse a stabilirsi ed abitare i colli e le pianure prossime all’adriatico. Un tale accordo di scrittori antichi e di monumenti anche più antichi, noi lo riputiamo molto più autorevole e veridico che le sentenze di que’ moderni che non han voluto prestar fede a Silio Italico e nell’attenersi al racconto di Strabone e di Plinio non si sono presi alcuu pensiero di porlo a confronto di que’ soli monumenti che i piceni ne hanno tramandati, a fine anche di farci conoscere i proprj natali. Dalle opinioni di costoro eziandio noi dobbiamo scostarci. Teniamo che sia favola quella dell’uccello picchio, il quale secondo natura non potè mai, come altrove vedemmo del lupo, farsi condottiere di cotali trasmigrazioni: e ad un tempo teniamo che sia istoria quella di Pico, il quale di re divenuto iddio, diede il suo nome alla nazione picena. Senza smarrirci in ulteriori erudizieni e citazioni, rimandiamo chi ne vuole di più alla Disertazione di Michele Catalani della origine de Piceni. Fermo 1777.
Dal riscontrare tra le monete fuse e coniate di Todi molti di que’ simboli che avevamo veduti mettersi in mostra da’ popoli cistiberini, come insegne proprie e nazionali, conchiudevamo che i tudertini erano di origine non diversa da’ cistiberini. Rinnoviamo qui il nostro discorso. La testa dell’iddio scolpito su la prima moneta coniata di Todi è quella medesima che vedesi nell’asse di Atri: ed è per l’arbitrio degli artefici diversi che in Todi vien rappresentata in profilo, in Atri di faccia. Pongasi mente ad una differenza anche più grave. In Todi non tenea quest’iddio il primo luogo, dato all’aquila e al corno d’abbondanza di Giove, perchè Giove colà era la prima divinità: per opposto in Atri il dio Pico occupa la prima e più nobile sede, perchè i piceni; a lui più solennemente che ad altri eransi consacrati, e da lui prendevano il nome. L’irpo truovasi ne’ due paesi in tale giacitura, che mal saprebbesi l’un dall’altro distinguere: e ciò a significare, che la colonia picena ebbe a guida nella sua trasmigrazione l’irpo, come avealo avuto la colonia tudertina. Comune altresì alle due genti è il cantaro e l’ancora: e ripetiamo in Atri ciò che dicemmo in Todi, che queste insegne cioè s’erano adoperate a far conoscere la diversità delle nazioni cistiberine che inviati aveano a Todi i loro coloni.
Tra gli atriani e i cistiberini le relazioni sono di molto più ampie. Mercechè Pico in Atri non è che su la moneta e nel nome de’ piceni, nelle terre e nelle storie de’ rutuli tiene il luogo primissimo come autor primo e primo iddio della nazione: e l’irpo medesimo che nel piceno si riposa come in terra a lui straniera, vedesi in Ardea svegliato ed attento come in sua vera patria. Il Pegaso del semisse de’ volsci che in Todi non appariva, vedesi ripetuto sul semisse decimale degli atriani: al Pegaso anzi aggiungesi la Gorgone Medusa che gli fu madre, per il legame che col sole e coll’antica sede di Circe sì strettamente la congiunge. L’Apollo del tetrobolo e il gallo del diobolo atriani sono una esatta ripetizione dell’Apollo de’ volsci e dell’Apollo e del gallo di quell’asse che nel ragionamento intorno alla prima classe ci sforzavamo di attribuire agli ernici. Così il cantaro è quello che noi credemmo proprio degli aurunci; il delfino e il caduceo que’ medesimi che ci si erano offerti tra’ confederati latini; l’ancora quella del sestante di serie incerta ma di classe cistiberina; e di nuovo il delfino e l’ancora pari al delfino e all’ancora d’un quadrante pure di serie incerta e di classe cistiberina. Ravvicinate così queste dieci insegne e restituite a’ luoghi della loro prima origine, non ne rimangono che due sole, le quali dir si possono veramente proprie degli atriani, il rospo marino del triobolo e il calzare del diobolo. Vollero forse con esse darci ad intendere questi coloni cistiberini una nuova forma di scarpe di cui usavano nella nuova patria, ed una strana varietà d’animale in che imbattevansi pescando nel nuovo mare.
Noi non sapremmo se i simboli che veggonsi su le monete d’altre città e popoli si facciano intendere con maggiore efficacia di testimonianze. Ma v’è da aggiungere la dimostrazione de’ segni della comune favella. Comechè nell’Umbria e nell’Etruria il linguaggio fosse diverso da quello de’ nostri popoli cistiberini, se non nelle origini prime di quelle diverse nazioni, almeno nell’epoca della loro diversa numismatica nondimeno noi dalla sola identità delle insegne prendevamo argomento ad annunziare la identità della prima stirpe, dalla quale eransi quelle differenti popolazioni diramate. E potrà mai esser diverso il ragionamento nostro nel piceno, dove non pure i simboli son latini, ma eziandio i caratteri della lingua parlata ? Gli oschi, gli umbri, gli etruschi, quantunque tutti popoli cismontani, non adoperarono mai quella foggia di lettere che qui troviamo oltremonte. L’epigrafe HAT a ragione direbbesi de’ romani, de’ latini, de’ rutuli, quando non sapessimo ch’ella viene dal lido adriatico: tanto que’ tre elementi sono di forma esclusivamente latina. Anzi gli atriani copiarono da’ latini anche la S arcaica della semoncia, ciò che non fecero né i riminesi, né i vestini, nei luceresi, come da qui a poco osserveremo. Questo altresì prendasi ad indizio della comune fratellanza.
Ma se gli antichi scrittori, se le imagini scolpite ed il linguaggio scritto su le monete atriane ci dicono l’origine rutula, latina, volsca, equa, ernica, aurunca e sabina de’ piceni; non v’ha chi ci ricordi il tempo in che fu aperta e chiusa l’officina atriana. Noi opiniamo che venisse eretta alquanto dopo le cistiberine, e altresì distrutta alquanto dopo di queste. Della prima opinione ci sono pruova le impronte ricopiate dall’originale cistiberino, il segno dell’aspirazione H, l’andamento dell’epigrafe che è quasi sempre da sinistra a destra: della seconda il tempo alquanto tardo delle invasioni romane al di là dell’apennino. Ma che la chiusura dell’officina atriana seguisse da vicino quella delle officine cistiberine ce lo dimostra l’unità del peso delle sue monete. Ma ancorché la diminuzione del peso primitivo e l’uso del conio non ci mostrino qui, come in Roma, Todi e Lucera, una non breve successione di tempi, contuttociò la quantità della moneta atriana, che è molto più abbondante della riminese e di quella degli umbri, degli etruschi e di parecchi popoli cistiberini, vuole che crediamo, o che quella durata non fu si breve, o che la grandezza e le ricchezze di quella città avessero un’ampiezza molto considerevole. Fu Atri in quella età la prima città e il primo emporio de’ piceni, non solo perchè essa sola in quella provincia ebbe il proprio aes grave, ma eziandio perchè i romani colà, come a capo d’un grandissimo popolo, vollero che mettessero termine le due vie consolari Salaria e Valeria, con le quali verso oriente pure, come verso settentrione, atterrarono in certa guisa l’inaccessibilità e le asprezze dell’apennino.
L’arte presso gli atriani, rispetto alle monete, non la cede né agli etruschi, né agli umbri, né a’ riminesi, né ad alcune delle città cistiberine. I dotti di quella provincia converrebbe si studiassero a rintracciare e raccogliere monumenti primitivi d’altro genere, co’ quali dimostrare che anche in quella loro provincia l’ingegno italico sapea effigiarsi le imagini del bello. Sotto il numero 3. della Tavola III. A. abbiam ricopiato con esattezza il disegno di quella vaga donzella nella quale il Delfico, correndo dietro alle sentenze altrui, volle riconoscere la vera dea della bellezza. Non crediamo necessario un sottile ragionamento a confermare la sentenza con che noi l’abbiamo dichiarata una Medusa.